Rosario Livatino
Oggi, giorno della sua nascita su questa Terra, celebriamo la memoria di un grande uomo, nato appunto il 3 ottobre 1952 a Canicattì, da Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo, e battezzato il 7 dicembre dello stesso anno col nome di Rosario. La sua famiglia gode di una certa notorietà nel comune siciliano, sia perché il nonno ne era stato sindaco dal 1920 al 1923 (dimessosi poi con l’avvento del Fascismo), sia perché la madre era imparentata alla lontana col venerabile Gioacchino La Lomia. La Comunione la riceve il 26 luglio del 1964 e, dopo aver frequentato il liceo classico Ugo Foscolo della sua città, nel 1975 si laurea con lode alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. In questi anni è disponibile a dare ripetizioni gratuite a chiunque ne abbia bisogno. Il suo primo incarico è quello di vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento, lasciato dopo aver vinto il concorso in magistratura per svolgere il tirocinio al Tribunale di Caltanissetta. Dal 1979 al 1989 è sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento.
Ebbe contatti con la malavita, che purtroppo da anni caratterizza la triste fama della meravigliosa Trinacria?
A Canicattì, a pochi metri dai Livatino abita Antonio Ferro, uno dei capi di Cosa nostra di quella zona, che Rosario contribuirà in seguito a far incarcerare. Il boss Giuseppe Di Caro, invece, abita addirittura nel suo stesso edificio, e per tale ragione arrivò a far murare l’ingresso comune pur di non incontrarlo. Nel 1989 avviene una spaccatura all’interno di Cosa nostra della “sezione” di Palma di Montechiaro: nasce una nuova “famiglia”, che prende il nome di stidda, in siciliano “stella”, che può alludere tuttavia anche ad un ramo secco staccatosi dalla pianta, insomma una sorta di setta, dal latino secare, “tagliare”. Così nell’agrigentino vanno costituendosi stidde per ogni significativo centro abitato. Una grande differenza tra Cosa nostra e Stidda sta nel tipo di legame tra i partecipanti: nella prima è verticistico, nella seconda federativo e su basi paritarie.
Tra i libri che narrano di lui, uno è intitolato Sub tutela Dei, come mai?
L’acronimo S.T.D., sub tutela Dei appunto, ovvero “sotto la protezione di Dio”, compare per la prima volta nel frontespizio della sua tesi di laurea, e da lì nelle più diverse pagine che narrano la sua pur breve vita: dalle preoccupazioni relative al lavoro alle faccende domestiche, dalla vita affettiva allo studio. A riguardo, l’arcivescovo emerito di Monreale Michele Pennisi sottolineò come gli inquirenti inizialmente pensassero si trattasse di una sigla cifrata, volta a nascondere qualche nome di chi lo perseguitava, per poi scoprirne il vero significato. La simbologia attribuita da Rosario a queste tre semplici lettere è potentissima: la tutela che invoca è quella benevola del Padre con la “P” maiuscola, non quella malevola dei vari “padrini” di turno! E questo fin dal 18 luglio 1978, giorno del suo ingresso in magistratura, come egli stesso annota – questa volta con l’inchiostro rosso! – nell’agenda di quell’anno: «Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».
Degli sviluppi mafiosi in Sicilia a quel tempo si è già accennato.. cos’altro sappiamo?
Tra l’81 e l’84 hanno luogo una serie di conflitti intestini, che si concludono con l’affermazione della frangia capeggiata da Totò Riina: con lui il comando passa dai palermitani ai corleonesi, e tale faida avrà ricadute sul resto dell’isola. Si noti bene: nel decennio in cui Rosario ha svolto la sua funzione di magistrato, le cose per lui e per quelli come lui erano molto più complicate, dato che non avevano ancora voce in capitolo i pentiti, le cui deposizioni sono state introdotte pochi mesi dopo la sua morte; non esisteva il celebre 41 bis, il “carcere duro” per i mafiosi; né la confisca dei beni appartenenti alle cosche; non erano ancora state istituite le diverse Procure antimafia (nazionali e distrettuali), ragion per cui la comunicazione fra le innumerevoli Procure sganciate tra loro rendeva lenta e impacciata la comunicazione tra le stesse. Insomma la vita dei magistrati – pochissimi al tempo di Livatino, al punto che quel fatidico 21 settembre dovette recarsi ad Agrigento (benché in ferie!) perché non ce n’erano – era un po’ più complicata.
Quindi quel giorno, in cui avrebbe dovuto legittimamente “spassarsela”, trovò invece la morte.. se credessimo al fato, al destino o alle coincidenze, beh, la circostanza avrebbe davvero del clamoroso..
Nulla a che vedere con la “coincidenza” – chiamiamola così, ma il dubbio che sia tale ci sia almeno concesso – di un altro personaggio, testimone suo malgrado, ma esattamente come lui e col suo stesso coraggio.
Di chi stiamo parlando?
Di un uomo che non ha fatto finta di nulla, non ha messo a tacere la propria coscienza, non ha pensato prima alle conseguenze di quel che stava facendo: Piero Nava, direttore commerciale lombardo che, passando con la sua Lancia Thema – al tempo l’ammiraglia della casa torinese – assistette alla mattanza, senza tuttavia rendersi immediatamente conto di quanto stava accadendo.
Cosa fece?
Rintracciato il primo telefono chiamò l’incredula polizia (che mai prima si era trovata davanti qualcuno disponibile a rischiare del proprio per la causa della giustizia) per riferire quanto visto. Inutile aggiungere che l’eroico gesto gli costò un anonimato senza fine, costretto assieme alla sua famiglia a spostamenti continui, a innumerevoli cambi di identità, sempre sotto scorta, nella speranza di non essere raggiunto dalla medesima sorte di colui per il quale, pur senza conoscerlo, aveva avuto il coraggio di deporre la propria testimonianza.
A proposito di testimonianza, Livatino ha lasciato qualche scritto?
Le sue numerosissime agende, “testimoni” della cura che assegnava ai minimi particolari, sia quelli riguardanti la vita professionale che familiare e affettiva. La prima è relativa all’anno 1978, che in data 1° gennaio esordisce con un quadro domestico sintetico e semplice: «Io e mamma a Campobello (di Licata, ndr). Papà con la nonna. Serata in casa». L’ultima annotazione è vergata invece 18 settembre 1990, tre giorni prima di essere ucciso: «Anniversario Cucurullo-Guida». Anniversari, compleanni e onomastici di amici e parenti saranno infatti le sue note più ricorrenti, addirittura senza omettere il fatto di essersi dimenticato di fare gli auguri ai festeggiati di turno. La sua ritualità e precisione lo portavano ad annotare continuamente perfino i nomi dei ristoranti in cui si recava a mangiare e degli hotel in cui, per lavoro o svago, si trovava a soggiornare. Non solo, l’appuntamento col barbiere non mancava mai, come pure gli orari in cui le sue “faccende” iniziavano e finivano. Tra le sue annotazioni più ricorrenti, che non possono non farci sorridere, troviamo «Domenica (o giornata) tipica». Quasi sempre stila un bilancio di fine mese e uno di fine anno. Nel primo caso scrive ad esempio il 31 gennaio del ’78: «Questo è il mese dei miei primi stipendi e poiché la salute familiare, ringraziando Iddio, non è andata male, lo si può definire senz’altro positivo». Quando le cose vanno diversamente lo definisce invece «negativo», o «incolore», «inclassificabile», «il mese della viltà», poiché non aveva avuto il coraggio di parlare ad una certa Enza, oppure «amaro e pericoloso» o «incerto», addirittura «il più negativo della mia vita», quando nell’aprile del 1986 i genitori hanno avuto un incidente potenzialmente mortale.
Circa i bilanci annuali, invece, cosa scrisse?
Il 1978 lo sintetizza con queste poche righe: «La parola alle cifre: mesi positivi 6. Mesi indecifrabili 4. Mesi negativi 2. Anno indecifrabile. Chiedo perdono ed aiuto al Signore». Quello dell’84 è ancor più breve e lapidario: «È stato un anno negativo. Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?». Quello del 1990, ultimo della sua breve vita, non avrà neppure il tempo di farlo.. Interessanti soprattutto le annotazioni dei fatti di cronaca dai quali più si sente toccato: «oggi.. – scrive il 16 marzo del ’78 – le B.R. hanno sequestrato l’On. Aldo Moro ed ucciso i suoi 5 uomini di scorta in via Mario Fani a Roma. È un momento gravissimo». Il 9 maggio dello stesso anno sarà costretto ad annotare il triste epilogo della vicenda: «Oggi si è conclusa la tragedia.. il corpo di Aldo Moro è stato trovato nel baule di una macchina.. L’unica cosa che veramente mi occupa il pensiero è la tragedia personale dell’uomo». Non esita tuttavia a registrare anche fatti più mondani e gioiosi, come quel giorno di giugno in cui precisa: «In serata dalla nonna a vedere la partita Germania-Italia (a titolo di cronaca ci sono i Mondiali di calcio ed io ho il televisore guasto) 0-0». Quando invece la partita riesce a vederla, è il caso del 3 luglio in occasione dei Mondiali del 1990 giocati in Italia, scrive: «In serata l’Italia è stata eliminata dall’Argentina dalla finale..». Tristissimo ricordo, non solo per lui..
Ma annota solo fatti negativi?
No. Tre giorni prima aveva espresso la sua gioia su carta ricordando di aver comprato un registratore VHS e ordinato la sua nuova “Fiesta”: roba d’altri tempi! Rammenta inoltre tutti i film visti al cinema, «Per qualche dollaro in più» e «Ispettore Callaghan..», talvolta con tanto di giudizio personale: «Guerre Stellari. Mediocre», «La febbre del sabato sera.. Così così». Tornando ai fatti negativi, vi furono senz’altro i decessi delle persone a lui care: quello della “cocciuta” nonna Maria, di papa Paolo VI, da lui affettuosamente definito «il Papa della mia giovinezza», ma anche di vittime sconosciute, ad esempio quelle del terremoto in Irpinia o delle strage di Bologna.
Leggere la sua agenda è davvero un tuffo nel passato per i più attempati..
Sia sotto il profilo sociale che personale, trascrive infatti episodi che lo riguardano in prima persona in cui ognuno può in qualche modo riconoscersi, come un’inconsueta nevicata (soprattutto in Sicilia!); la sua prima (e forse unica) multa, per divieto di sosta; l’acquisto dell’auto, nel suo caso quella Ford Fiesta rossa – acquistata il 30 aprile dell’80 per 6.210.000 lire – che lo accompagnerà fino agli ultimi istanti di vita; una vincita a poker a casa di amici (5.000 lire!); un calice di vino rovesciato per sbaglio addosso ad una signora durante un matrimonio; e via dicendo.. Ma le annotazioni più tenere sono forse quelle dei suoi amori, per lo più non corrisposti: «Ho trovato una “sua” lettera», scrive il 4 dicembre 1978, periodo che ricapitola dicendo anche: «è stato l’anno che mi ha fatto conoscere per la seconda volta un’esperienza affettiva non piacevole.. – e aggiunge – è praticamente impossibile che io possa conoscere una fanciulla più bella, più delicata, più pura di questa». Si dovrà ricredere già due anni dopo, quando instaura un «Primo vero “contatto” con la famosa» (26/9/1980), e il mese successivo, quando conosce «una nuova collega.. bionda.. (con) gli occhi azzurri.. – particolari che gli fanno dire – “Strane idee” mi frullano per il capo» (9/10/1980). Il mese successivo aggiunge: «Da un po’ di tempo goffamente mi “muovo” per cercare di attuare quelle “strane idee” di cui al giorno 9/10. Questa volta vorrei spuntarla..». E due giorni dopo: «Oggi ho cercato di riaccompagnare la “fanciulla” al treno col quale fa ritorno a Palermo. Ma, tanto per cambiare, sono stato battuto sul tempo». Niente, anche stavolta è andata buca, ma non si arrende e nel consueto bilancio di fine mese ricorre all’aiuto divino: «Per quanto mi riguarda vorrei che l’Onnipotente benedicesse questo mio primo, vero “assalto” di una fanciulla. Credo che sia la volta buona, ma se non ho il Suo aiuto, ho gran paura che non concluderò nulla».
Che meraviglia!
Come detto, non si arrende, al punto che nove giorni dopo scrive: «Ho ritentato l’avventura.. Stavolta è andata. Ho “scortato” (“assalto”, “scortato”, si noti come utilizzi termini inerenti al suo mestiere) la collega fino al Palazzo.. l’ho portata a pranzo ed infine l’ho accompagnata al treno. – quindi un nuovo affidamento – Che il Signore faccia di questo 9 dicembre un giorno da ricordare come un lieto inizio». Il bilancio di questo mese è singolare, dopo aver annotato questioni lavorative aggiunge infatti: «Il mio pensiero però vola ad altro: a dei capelli biondi.. Rivolgo particolare preghiera all’Onnipotente affinché.. (questo) sia da me ricordato come l’anno dell’Amore. Così sia». E il bilancio annuale, stilato immediatamente dopo, è considerato positivo. La sua “anima gemella”, tuttavia, non arriverà mai, nonostante qualche “intrusione” familiare, dato che «zia Fina.. (il 17 giugno 1990, ndr) proponeva una specie di mediazione matrimoniale tra me e la figlia minore del notaio Giganti, Maria. Mah..». La perplessità è dettata dal fatto che sia lui, ovviamente, a voler dettare le danze: «In mattinata a Messa con mamma per farle conoscere la Martines», una 35enne di nome Dina da lui chiamata “sogno biondo”. Ma anche con lei non arriva al dunque: «Forte depressione». Sono i suoi ultimi due mesi di vita..
Oltre a ciò cos’altro annotava?
Le sue agende diventeranno memoria non solo delle volte in cui si reca a Messa, scrivendo con chi, dove e a che ora, ma anche di altre celebrazioni (esequie, momenti di preghiera, ecc..) e dei suoi sacramenti: ai molteplici «mi sono confessato» e «mi sono comunicato», oppure «Oggi, dopo due anni – è il 27 maggio dell’86 –, mi sono comunicato», aggiunge quel che riguarda la Confermazione, ricevuta stranamente solo a 36 anni. Il 29 ottobre 1988 scrive: «Nel pomeriggio alle 17,00 a San Domenico per la mia cresima. Padrino Saverio Guida». Questo rituale cartaceo conosce però anche i suoi “momenti no”: «Domenica con la morte nel cuore» (16/7/1978); «Di farmi tornare la voglia di lavorare, non se ne parla nemmeno» (20/7/1978); «Soffro nel vedere la mia povera mamma ridotta in questo stato (di malattia, ndr); ho paura che lei stia scontando i miei peccati, mi sento impotente al pensiero che le mie preghiere non hanno titolo per essere ascoltate» (30/4/1993); «è un brutto periodo per il morale. È prossimo alla disperazione e quindi al peccato» (24/3/1984); «Il mio morale è sottoterra» (25/4/1984); «Il mio spirito è nero. Ed il futuro non vedo come possa rischiararlo» (3/6/1984); fino alla messa in crisi dell’agenda stessa, ritenuta forse uno strumento inutile, come annota il 18 giugno dell’84: «Il mio spirito continua ad iscurirsi. Lo stare in casa mi deprime. Per diversi giorni non ho avuto tempo e modo di fare le annotazioni. A ciò si è unito il mio morale sempre più nero che mi ha fatto pensare a questo rito come a una cosa del tutto inutile. Una prova in più della mia stupidità.. Vedo male nel mio futuro. Che Dio mi perdoni». Non a caso non scriverà più nulla fino al 20 luglio successivo.. anzi, il 22 agosto rincara la dose, riferendosi al diario sottolineava infatti: «Non credo più in esso. Non so più che significato possa avere scrivere queste cose». Ce le ha, caro Rosario, ce le ha: eccome!
Ha mai scritto, ad esempio, se avesse presentimenti della fine che lo attendeva?
Esplicitamente no, ma annotava sul diario quanto stava accadendo ad alcuni uomini di giustizia come lui: «Ieri sera.. – scrive il 26 settembre dell’88 – sono stati assassinati il Presidente Saetta e suo figlio Stefano. Una brutta tragedia». Non pare avvertirlo però come un triste presagio in grado di riguardarlo.
Livatino, per l’appunto, è stato anzitutto un giudice, ma qual è concretamente il compito di questa figura?
Rosario è stato un magistrato, termine altisonante le cui radici risalgono al diritto romano, là dove magistratus è legato al verbo magisterare, “governare”, che rimanda a sua volta a magister, il “maestro”, il “capo”, ma anche a magis, “più”, contrapposto a minister, “servitore” che, al contrario, deriva da minus, “meno”. Funzione principale del magistrato, seppur non l’unica, è dunque quella di giudicare, di esprimere cioè un giudizio imparziale, dettato dalla legge. E se alla legge si unisse l’amore? E se il capo si mettesse a servire, se il magis si facesse cioè minus? Che figura ne uscirebbe? Quella di Rosario Livatino! Ma lasciamo che siano le sue stesse parole a confermarlo quando, il 12 settembre 1983, ancora trentenne prende la parola durante il funerale di colui che considera il suo maestro, il sostituto procuratore di Agrigento Elio Cucchiara: «Vi sono tante forme di affrontare il difficile, a tratti terribile, lavoro di giudice. Vi è quella distaccata e fredda.. di colui che chiudendo la porta del proprio ufficio alla fine della giornata di lavoro lascia dentro di esso tutti i problemi.. e quella di colui che invece si compenetra talmente in quei problemi che li soffre fino al punto da farli propri e portarli con sé ovunque viva.. – e sentenzia – La differenza fra queste due categorie.. (è quella) che corre tra l’essere semplicemente operatori del diritto e l’essere Operatori di Giustizia». Operatori di diritto, diversamente da Operatori di Giustizia, sono parole che tra l’altro e non a caso scrive con lettere iniziali minuscole.
Che significato ha, nella Bibbia, il termine giustizia?
Nella Sacra Scrittura è veicolato da due correnti di pensiero: se in un caso designa la virtù morale, nell’altro assume un senso eminentemente religioso: «L’integrità dell’uomo non è mai – scrisse il teologo belga Albert Descamps – se non l’eco ed il frutto della giustizia sovrana di Dio, della meravigliosa delicatezza con cui egli dirige l’universo e colma di favori le sue creature». Ecco, diciamo che la giustizia che Rosario scelse di mettere in atto somigliava molto da vicino a quest’ultima. La conferma non è solo né tanto nel riserbo e nella discrezione coi quali operava, quanto nel rispetto che nutriva per la difesa e per l’accusato, spesso malavitoso. Insomma fa suo il matteano «non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1). Ma soprattutto era credibile perché viveva coerentemente, sul lavoro come nelle relazioni quotidiane più spicce.
Come si è sviluppata, la sua pur breve vita, dal punto di vista interiore?
L’aridità dello spirito e i conflitti interni non lo hanno risparmiato, come da lui stesso annotato nei suoi diari: per due anni continua ad andare a Messa pur senza comunicarsi, scelta peraltro discutibile e forse senza senso, ma occorre considerare il suo stato d’animo in quel durissimo periodo. Ad ogni modo l’aridità termina il 27 maggio dell’86: «Oggi, dopo due anni – annota nell’agenda – , mi sono comunicato». A parere del suo postulatore diocesano per la causa di beatificazione, l’omonimo don Giuseppe Livatino, questo momento coincide con l’accettazione, da parte sua, del “sacrificio” che con ogni probabilità lo attende. La sua preoccupazione d’ora innanzi è solo per i suoi Lovely Bones, gli Amabili resti per dirla col titolo del celebre romanzo di Alice Sebold, diventato quindi pellicola sotto la regia di Peter Jackson. Ha a cuore insomma prima di tutto i suoi cari: «Ho 34 anni. – annota proprio il giorno in cui li compie – Invoco la benevolenza divina su quelli che restano». Nell’88, come già accennato, chiederà a don Pietro Li Calzi, suo parroco, di poter ricevere l’ultimo sacramento dell’iniziazione cristiana che gli manca: la Confermazione. Ad essa si accosterà il 29 ottobre, data importante, è infatti il giorno in cui la Chiesa ne celebra la memoria liturgica. Ma un “sacramento” ancora lo attende, come afferma il suo postulatore, quel “Battesimo di sangue” che riceverà due anni dopo, ma non in un edificio di culto: la chiesa sarà la Strada Statale 640 Agrigento-Caltanissetta; l’altare del sacrificio la sua Ford Fiesta rossa; l’ambone della sua confessione un campo adiacente la strada statale, polo liturgico dal quale, rivolto ai suoi carnefici, proclamò la propria fede sotto forma di domanda: «Picciotti, che vi ho fatto?». Stava andando in Tribunale, come sempre..
Per quale ragione, nello specifico, è stato ucciso?
Lo chiarisce la sentenza del 13 aprile 1994: «(perché) perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole». I mandanti furono gli affiliati della Stidda di Canicattì, i quali delegarono l’esecuzione materiale a quella di Palma di Montechiaro. Lasciamo che a narrarci gli ultimi istanti di vita di Rosario sia Cesare De Simone, che sul Corriere della Sera del 22 settembre 1990 scrisse: «Hanno voluto essere sicuri di ucciderlo e hanno voluto che la sua morte fosse, insieme, una sfida sinistra e un pauroso avvertimento.. Non aveva scorta, il giovane magistrato. Non aveva uno straccio di blindatura sulla sua auto vecchiotta.. ed è morto solo, ai margini di un prato.. Lì alle porte di Agrigento e alle 9 di mattina, è terminata la lotta che da 12 anni Rosario Livatino combatteva dalla scomoda trincea..». Una Fiat Uno turbo diesel guidata da Gaetano Puzzangaro, con a bordo anche Giovanni Avarello, colpirono con un fucile prima e una pistola poi la sua Ford Fiesta ma, cercando di aprire lo sportello e gettandosi fuori, riuscì tuttavia a scappare verso la campagna pur con una caviglia rotta, raggiunto però da un secondo commando, formato questa volta da Paolo Amico e Domenico Pace (i cui cognomi davvero contraddicevano le loro losche intenzioni!) a bordo di una moto da cross: tre colpi di pistola lo ferirono, ma l’ultimo gli fu mortale e, come se non bastasse, uno degli assassini – tutti rigorosamente a volto scoperto – «lo ha inseguito. Lo ha raggiunto dopo una quindicina di metri – è ancora il giornalista De Simone a riferircelo – , il giudice era ricaduto a terra, bocconi, forse già morto. Il killer (che sapremo poi essere Puzzangaro, ndr) gli ha girato la testa, gli ha infilato la pistola in bocca e ha premuto il grilletto». Quel luogo della violenza è oggi un luogo di memoria, con un monumento che sta lì a ricordare il suo martirio. La Fiat Uno e la moto Honda vennero ovviamente date subito alle fiamme.
Un’esecuzione ferocissima, forse dimostrativa soprattutto nei confronti dei rivali di Cosa nostra..
Proprio così. Diversi processi portarono quindi all’arresto dei quattro giovani (uno di 28 anni e gli altri di 23) e dei mandanti: Giuseppe Croce Benvenuto, Giovanni Calafato e suo fratello Salvatore, Antonio Gallea, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, tutti erroneamente convinti che il giudice favorissse il nemico dichiarato: il boss di Cosa nostra Giuseppe Di Caro, che come detto abitava nello stesso condominio di Livatino. Ma tali diversi processi sono nati da un altro martire, nel senso etimologico del termine, cioè un altro “testimone”, quel Piero Nava che, trovatosi “per caso” a percorrere lo stesso tratto di strada quella mattina del 21 settembre 1990, non ha fatto come tutti gli altri..
Tra costoro qualcuno si pentì?
Più di uno. Di un paio, Salvatore Calafato e Domenico Pace, rimangono le toccanti lettere. Il primo la scrisse direttamente – sicuro che l’avrebbe ricevuta da lassù – a Rosario: «nel corso degli anni più volte mi è capitato di leggere ciò che scrivevi a proposito della fede, e questo mi ha molto aiutato a conoscerti. La mia quotidianità è uno spazio di tempo dove le preghiere ne occupano la gran parte, e ricordarti è ciò che mi aiuta a trovare pace. – e aggiunge – Non so se sia giusto da parte mia chiedere perdono, ma iniziare a farlo forse è un primo passo che potrebbe condurmi alla ricerca del vero senso del gesto, sperando di ricevere la tua tutela». Il secondo invece indirizzò la sua missiva al papa, al postulatore e alla fondazione dedicata al giudice: «Mi trovo attualmente recluso nel supercarcere di Sulmona con una condanna all’ergastolo.. Avevo 23 anni quando sono stato arrestato e trascinavo giornate mediocri e banali. La mia vita da pastore era fatta di abitudine e pochi sentimenti. Con la natura a farmi compagnia durante il giorno ma con pochi contatti umani e scarse possibilità per essere aiutato a crescere umanamente».
Ammissione davvero toccante e profonda, utile a comprendere che sono le poche relazioni, e ancor più quelle povere, a dar vita a «giornate mediocri e banali» come le sue..
Proprio così. Eppure qualche modello educativo lo ebbe anche lui, che prosegue: «Ancora oggi coltivo il ricordo della mia maestra Gina. Una figura buona.. Solo per merito suo ho frequentato la V elementare». Ma l’ammissione di una vita piccola è sconcertante: «Questo ero io, un ragazzo vuoto senza vere motivazioni». Dovremmo chiederci quanti giovani come lui, oggi, navigano nelle sue stesse acque.. Eppure Domenico ha trovato la forza e il coraggio, partendo dalla sua disperazione, per implorare scusa: «sono qui a chiedere il vostro perdono. Lo faccio inginocchiandomi davanti a voi, strisciando ai vostri piedi.. La Fede mi aiuta a sperare che il Giudice Rosario Livatino mi abbia perdonato. Che sia Beato!». Conclude poi la sua lettera con un’affermazione molto bella. Riferendosi alla sua vittima, scrive: «Credetemi, lo sento vicino, è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pena infinita che sto scontando».
A proposito della beatificazione auguratagli, qual è stato il suo iter per “raggiungerla”?
Il percorso che ha portato al 9 maggio 2021 è stato condotto, come già detto, dall’omonimo postulatore don Giuseppe Livatino, e si è reso necessario esaminare le cause della sua morte, si è voluto cioè capire se fosse dovuta all’odium fidei, all’avversione nei confronti della sua fede cristiana. Una prima conferma di ciò ci è data dalla fama negativa di cui Rosario godeva sia presso le stidde che presso Cosa Nostra, che lo definivano un “santocchio”, uno “scimunito che va in chiesa a pregare”, odio in qualche modo comprovato dalla ferocia e dalla modalità della sua esecuzione. Ma soprattutto è stata dimostrata la sua progressiva disposizione al martirio, come sottolineato dal cardinal Marcello Semeraro, che durante l’omelia della beatificazione ha affermato: «Livatino rivendicò.. l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità.. la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come Martire».
Il 9 maggio è allora una data importante per la terra di Sicilia..
Esattamente, il giorno della beatificazione non fu scelto infatti a caso, ma prendendo l’anniversario della visita che san Giovanni Paolo II fece ad Agrigento, appena tre anni dopo la morte di Rosario. In quell’occasione, dopo aver incontrato i genitori di Livatino, nella splendida Valle dei Templi il pontefice pronunciò parole durissime nei confronti della mafia: «questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte: qui ci vuole civiltà della vita! – per poi tuonare, indicando l’effige di Gesù sul patibolo e rivolto ai malavitosi – ..Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, “Via, Verità e Vita”.. lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».
«Grazie Signore, re di giustizia, per averci donato un testimone così fedele.. Ti vogliamo pregare con le parole del poeta Davide Rondoni che, rivolgendosi a Rosario si domanda: “Sub tutela Dei, scrivevi, ma che tutela Dio t’ha dato sul viadotto, nell’agguato – dove sei Dio che non tuteli i giusti? O forse li stringi a te, nel tuo sangue e corpo li innesti? ..Dio era anche sul viadotto.. lungo la scarpata, perché nel tuo martirio la nostra fame di giustizia, come umiltà, sia sempre tutelata..».
Recita
Federica Lualdi, Cristian Messina, Daniele Briglia, Stefano Gazzoni, Danilo Concordia, don Franco Mastrolonardo
Musica di sottofondo
www.soundscrate.com
P.Mascagni. Cavalleria rusticana. Intermezzo. Diritti Creative Commons.