San Filippo Neri (26 maggio)
«La vita spirituale – sostiene qualcuno – non è altro che un cammino lungo appena trenta centimetri: va infatti dalla testa al cuore». Ciò è ancor più vero per quanto riguarda la meravigliosa vicenda terrena di Filippo Neri, santo la cui vita è tutta racchiusa nella sua relazione col sapere, che dal “cervello”, appunto, culmina con quello che la Bibbia ritiene essere la sede di ogni cosa: intelligenza, volontà, affetto, e via dicendo, ovvero il cuore.
Che relazione c’è tra il sapere e il cuore?
A ventiquattro anni Filippo vendette tutti i libri che possedeva, ad eccezione della Bibbia e della Summa di San Tommaso d’Aquino, distribuendo poi il ricavato ai bisognosi. Poco prima di morire, invece, bruciò tutti i manoscritti che aveva nel cassetto. Come a dire che la vera “sapienza” è quella del cuore. La bontà che lo contraddistinse – racchiusa nel soprannome affibbiatogli, “Pippo buono” – ebbe in lui anche una manifestazione corporea: dopo il 26 maggio 1595, giorno della sua morte, i medici constatarono una strana curvatura delle costole, quasi fossero incapaci di contenere un cuore così grande, i cui battiti risuonano ancora oggi nella Città Eterna, che lo venera come “apostolo di Roma”, titolo che fino a quel momento era stato attribuito solamente a Pietro e Paolo.
Quindi era contrario alla cultura?
Tutt’altro, come testimoniano il suo “figlio” più celebre, l’Oratorio, e uno dei suoi massimi esponenti, Cesare Baronio. Scopo della congregazione da lui fondata era infatti la formazione dei giovani alla cultura spirituale, soprattutto per mezzo dell’istruzione e della vita comunitaria. Il Baronio, infatti, divenuto cardinale e proclamato venerabile nel 1745, redasse i primi volumi degli Annales ecclesiastici, cioè della storia del cristianesimo dalle origini al 1198, oltre a rivedere il Martirologio Romano, la fonte principale di cui disponiamo circa la vita dei santi.
Cosa sappiamo della vita di Filippo?
Fiorentino di nascita, Filippo Romolo Neri, a cinque anni perse la madre Lucrezia, ma fu cresciuto ed educato dalla seconda moglie del padre Francesco. A diciotto anni fu inviato da uno zio a Cassino, che voleva avviarlo all’attività di commerciante, ma il Signore aveva disposto ben altro per lui. Recatosi a Roma nel 1534 come pellegrino, vi rimase in qualità di precettore di due giovani, mentre si spendeva presso l’ospedale di San Giacomo. Queste due attività, il prendersi cura cioè dei giovani e dei malati, divennero la sua vita, tutta spesa nell’accoglienza dei pellegrini e nell’educazione religiosa dei ragazzini più disastrati e turbolenti. Negli anni in cui il gesuita Francesco Saverio partiva missionario per l’India, nel tentativo di capire dove il Signore lo volesse concretamente, Filippo si sentì rispondere dal cistercense Vincenzo Ghettini: «La tua India è a Roma».
Che tipo di stile educativo fu il suo?
La sua vita, e di conseguenza il suo modo di proporsi, si basò su quattro pilastri: umiltà, carità, preghiera e gioia. Ma lasciamo che sia lo stesso Filippo – il quale ci ha lasciato molti “detti”, vere perle di saggezza – a parlarci di questo: «Per acquistare il dono della vera umiltà – diceva – ..sono necessarie quattro cose..: disprezzare il mondo, non disprezzare alcuno, disprezzare se stesso, non curarsi d’essere disprezzato». Nel servire il prossimo, invece, «bisogna.. immaginarsi che quella persona sia Cristo, e tenere per certo che ciò che si fa a quella, si fa allo stesso Cristo». Per chi non prega non esitava a dire che «è un animale senza ragione», poiché «chi non va all’inferno da vivo, rischia grandemente di andarci da morto». Ma il tratto forse più distintivo della sua vita fu la gioia, non intesa però come divertimento, etimologicamente “volgersi altrove, deviare”, cioè “far finta di niente e pensare ad altro”, ma nel senso pieno del termine, felicità piena, pregustazione cioè, già su questa terra, di quanto vivremo in paradiso..
San Filippo è conosciuto anche per il celebre film State buoni se potete..
La pellicola del 1983, premiata tra l’altro con due David di Donatello, ha visto Johnny Dorelli nei panni di san Filippo e Philippe Leroy in quelli di sant’Ignazio di Loyola, regalandoci in questa coppia un esempio davvero mirabile di come si possa diventare santi per vie diverse. Il film, che esagera forse l’età (troppo piccola) dei ragazzini di cui il santo si prendeva cura, è stato tra l’altro diretto da Luigi Magni, regista morto nel 2013, celebre per la sua fama di “mangiapreti”, diceva infatti di sé: «sono comunista da cinquant’anni ma cristiano da venti secoli».
Altra sua opera molto conosciuta è la visita alle sette chiese..
Questo mini-pellegrinaggio, che tocca le più importanti chiese di Roma, dunque sulla scia dei santi che le hanno “fatte erigere”, fu uno dei grandi frutti della sua spiritualità. Impostata come una passeggiata devozionale, a metà tra una scampagnata e la via Crucis, era tuttavia caratterizzata, oltre che dalle preghiere, dallo svago e da un abbondante pranzo al sacco. Non a caso si svolgeva nel tempo di carnevale, con il chiaro intento di proporre qualcosa di spiritualmente più robusto rispetto al divertimento fine a sé stesso. Durante questa camminata si cantavano salmi e lodi spirituali, su tutte quella composta dallo stesso Filippo, vero inno della Visita alle Sette Chiese, poi musicata nel film di Magni da Angelo Branduardi, che iniziava affermando che “tutto è vanità”.
Donaci, Signore, un cuore grande come quello di Filippo, la sua stessa gioia nel servirti e la passione educativa per i giovani che ci doni d’incontrare.
Recita
Riccardo Cenci, Gennj Fabbrucci
Musica di sottofondo
Arrangiamento di Gabriele Fabbri