Santa Rita da Cascia (22 maggio)
La santa che la Chiesa festeggia oggi è tra le più amate e conosciute, ma sulla sua vicenda occorre fare un po’ di chiarezza, dato che la sua incredibile storia è in buona parte intrisa di leggenda.
Rita, al secolo Margherita Lotti, nacque a Roccaporena in provincia di Perugia, piccolo paesino a 5 km da Cascia, comune dal quale non se ne andò mai, con una sola eccezione: quando si recò pellegrina a Roma per la canonizzazione di uno dei suoi tre santi preferiti, Nicola da Tolentino. Per alcuni nacque nel 1371, per altri dieci anni più tardi. La sua vicenda, tuttavia, può essere compresa appieno solo risalendo ai suoi genitori, Antonio Lotti e Amata Ferri, entrambi probi viri, cioè “pacieri”, incaricati di evitare conflitti tra Guelfi e Ghibellini, i primi legati alla politica pontificia, i secondi all’imperatore. È da loro che imparò, e sulla sua pelle, l’arte del perdono.
In che senso «sulla sua pelle»?
Del suo futuro marito si è scritto e detto tanto, probabilmente enfatizzandone l’aspetto violento. Ma procediamo per gradi. Il giovane ghibellino Paolo di Ferdinando di Mancino, cresciuto nell’ambito militare e divenuto ufficiale di una guarnigione di soldati, si innamorò di lei. Rita, nonostante il carattere rude e violento di Paolo, ricambiò il suo affetto e decise di sposarlo. Dal loro amore nacquero i due figli (forse gemelli) Giangiacomo e Paolo Maria. La famiglia si trasferì in una località di proprietà dei Mancini, detta “il Mulinaccio”, in cui il padre, cessata la carriera militare, avrebbe potuto dedicarsi alla macinazione del grano.
Perché «avrebbe potuto»?
Perché proprio in quel luogo, probabilmente a causa di un antico rancore mai sanato, Paolo di Ferdinando venne ucciso, forse davanti agli occhi della moglie. Siamo intorno al 1406. Rita aveva appena 25 anni (o 35, stando alla cronologia più accreditata), e si trovava a dover decidere cosa fare della sua vita, ma soprattutto se assecondare la violenza di questo mondo oppure no. Mise in atto l’arte insegnatale dai genitori! Raccolse l’amato e ne lavò via il sangue, sperando in tal modo di evitare ai figli la strada più facile e istintiva, quella della vendetta. Il domenicano Henry Dominique Lacordaire dirà circa quattro secoli più tardi: «Volete essere felici per un istante? Vendicatevi! Volete essere felici per sempre? Perdonate!».
Lei perdonò i carnefici del marito, ma i figli riuscirono a fare altrettanto?
E’ proprio in questo momento, vedova e timorosa che i figli potessero compiere un peccato mortale, che la scelta di Rita ci appare assurda e al limite dell’umano, facendola però diventare la santa “degli impossibili”: pregò infatti Dio affinché, piuttosto che vedere i figli vendicarsi, li chiamasse a sé. La santa capì immediatamente che – lo diciamo con le parole del cantautore milanese Alex Baroni – «il male fa male», cioè che il sangue porta sangue, che la morte porta morte. La nostra difficoltà a comprendere una tale scelta, però, soprattutto nel mondo attuale, è forse dettata in primis dalla nostra concezione della vita, incapace di vedere nel trinomio amore-morte-tempo un unico grande mistero! Detto altrimenti: cosa pensiamo dell’aldilà? Rita aveva ben chiaro che la vita eterna, che pure inizia già “in questo mondo”, era il vero bene dei suoi amati figli. Così, insieme ad essi, seppellì anche l’ascia di guerra.
Cosa fece nel resto della sua vita?
Poté realizzare il suo sogno di gioventù: diventare monaca agostiniana. Ma il suo desiderio fu inizialmente rifiutato per tre volte, forse proprio a causa della sua vedovanza, o forse perché si temeva potesse farlo solo “per dimenticare”. Ma soprattutto voleva dire, per le monache, accogliere la moglie di un ex soldato ghibellino ucciso per vendetta! È a questo punto che storia e leggenda si intrecciano come non mai: i suoi santi prediletti – Giovanni Battista, Agostino e il già citato Nicola da Tolentino – la condussero in volo nel convento delle agostiniane di Santa Maria Maddalena, in cui visse i successivi quarant’anni, fino al giorno della morte, arrivata nella notte tra il 21 e il 22 maggio del 1447. Rita aveva 76 anni. I continui miracoli che compì da morta ne rallentarono tuttavia la canonizzazione, avvenuta il 24 maggio del 1900 ad opera di Leone XIII.
Cosa sappiamo invece del celebre episodio della spina?
Il Venerdì santo del 1432, al termine dell’azione liturgica alla quale aveva partecipato con le consorelle, pregò nella sua cella Gesù crocifisso: «Vorrei tanto condividere con te.. le (tue) sofferenze..». In quel momento una spina della corona del Crocifisso le trafisse la fronte, “donandole” di partecipare misticamente alla sofferenze del suo Signore. Ma Rita, già prima, aveva conosciuto i patimenti del suo Sposo.
«Grazie Rita, donna delle cause impossibili, per averci insegnato ad essere “figlia della pace”, “sposa paziente”, “madre coraggiosa” e “monaca ubbidiente”».
Recita
Cristian Messina, Rita Daniela Santorsola
Musica di sottofondo
Arrangiamento musicale di Gabriele Fabbri