Testimoni: Antoni Gaudì (10 Giugno)



Antoni Gaudi (10 Giugno)
«Un corpo giaceva al suolo, sul pavimento stradale, imbrattato di sangue, accanto alle rotaie del tram.. un uomo vecchio con un’abbondante barba bianca, però trascurata.. i vestiti che indossava erano usurati.. Era la sera del 7 giugno 1926.. Dicevano che era stato il tram a investire l’uomo, che ancora respirava.. Addosso non portava alcun documento.. Solo gli trovarono in una tasca della giacca un pugnello d’uva passa e arachidi. In un’altra tasca, un libro piuttosto strapazzato: si trattava dei Vangeli.. (tre) giorni dopo, verso le cinque del pomeriggio, ..moriva nel poco accogliente letto di ferro in una cameretta all’ospedale dei poveri.. Aveva settantaquattro anni (ne avrebbe compiuti settantacinque un paio di settimane dopo) e non lasciava alcun parente». Assorto nei suoi pensieri, non s’accorse che il tram della linea 30 lo stava investendo. I tassisti si rifiutano di soccorrerlo: fu una guardia civile a impietosirsi, portandolo al pronto soccorso di Santa Cruz. Con queste parole Joan Castellar-Gassol descrive il “triduo” di uno dei più grandi architetti di sempre: Antoni Gaudí. 

Cosa sappiamo di lui, e cos’ha fatto per meritare tale grandezza?
Antoni Gaudí I Cornet, doppio cognome che risale ad una tradizione castigliana (usare cioè il cognome paterno seguito da quello materno, separandoli da una “i”), nacque il 25 giugno 1852 e, cresciuto, a scuola andava decisamente male: voti bassi e un mucchio di note di demerito, indisciplinato e contrario al metodo d’insegnamento “classico”. Se ne stava sulle sue e non partecipava alla vita di gruppo. Dopo il liceo, presso gli Scolopi di Reus (i fondatori della “scuole pie”), intraprese lo studio dell’architettura che, a suo dire, si crea «con due righe e una corda». Figlio di un artigiano del rame, aiuta il padre e il nonno nel laboratorio di famiglia. Ha la salute delicata, ragion per cui passa tanto tempo in montagna, che spende contemplando la natura, sua prima fonte d’ispirazione. Frequenta gli esponenti del modernismo (linee curve, motivi vegetali e mescolanza di vari stili). Come i suoi coetanei ha atteggiamenti anticlericali. Ancora 17enne aveva già un ideale: diventare un grande architetto. Ma la realtà, nel suo caso, superò l’ideale: il poeta, scrittore, storico e politico francese Alphonse de Lamartine (1790-1869) scrisse nel suo testamento che «L’utopia è la realtà visitata in anticipo», e che «L’ideale non è altro che la verità vista da lontano». Gaudí visitò la realtà in anticipo e scorse la verità da molto vicino. Appena laureato, a 26 anni, il rettore dell’Università affermò: «Non so se abbiamo conferito il titolo a un pazzo o a un genio». Saranno le sue opere a stabilirlo..

Quali?
Chi ha visitato anche una sola volta la meravigliosa città di Barcellona, non potrà non essersi accorto di quanto il suo volto attuale dipenda dal genio di questo architetto. Antoni apre subito uno studio per conto suo, nel quale una mattina entra Esteb Comella, proprietario di una delle più lussuose guanterie della città: gli propone di progettare una vetrinetta per esporre i suoi guanti all’Expo di Parigi.. un piccolo capolavoro: uno dei visitatori del padiglione è un amico di Comella, il conte Eusebi Guell I Bacigalupi, di sei anni più grande di Antoni, imprenditore e uomo politico con uno spiccato senso per le arti, che collaborerà con Gaudí per oltre quarant’anni, diventando il suo miglior committente. Tra le tante opere lasciateci, sette sono state riconosciute dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. 

Quali esattamente?
Anzitutto Casa Vicens, suo primo incarico, in cui anticipa il modernismo. Poi Palazzo Guell, nel 1885, edificio residenziale in cui esterno ed interno contrastano incredibilmente. Quindi Parc Guell, iniziato nel 1900 e concepito come un paradiso, sorta di città “giardino”, di cui il drago-salamandra ne è simbolo, e sopra il quale la piazza centrale offre una vista panoramica mozzafiato sulla città catalana. Delle 60 case previste dal progetto iniziale ne vennero realizzate però soltanto due, una delle quali è casa Trias, l’altra l’attuale casa-museo di Gaudí. Casa Battlò, sul lussuoso Passeo de Gracia, in cui Joseph Battlò volle sorgesse uno dei più stupefacenti edifici del mondo, il cui aspetto è quello di un enorme animale marino arenatosi sulla città, con il tetto sagomato, cornici ossee e floreali e una terrazza a “schiena di drago”, animale la cui spina dorsale lignea fa da corrimano della scalinata interna. Poi Casa Millà, subito chiamata “la Pedrera”, perché sembrava una cava, realizzata da Gaudí all’età di 54 anni. Il penultimo capolavoro è la Cripta della colonia Guell, dove nel 1870 Eusebi Guell volle creare una cittadella per i suoi operai, la cui chiesa venne commissionata appunto a Gaudí. Chiamata cripta, pur non essendo sottoterra, presenta quel bosco che tanto lo ispirerà: «Quest’albero, davanti al mio laboratorio – diceva – è il mio maestro», fino a “suggerirgli” la Sagrada Família, indubbiamente il suo più grande capolavoro, opera incompiuta che, come disse lui stesso, «un giorno, verranno a vedere da tutto il mondo». Ci lavorò dai 31 ai 75 anni. Pensata con le sue 12 torri, come gli Apostoli, più una centrale, simbolo di Cristo, ha un’altezza decisa dall’architetto in modo da avvicinare, senza superarla, la collina di Montjuic, la più alta di Barcellona. In essa curerà maniacalmente ogni dettaglio: al vescovo, che gli chiedeva il perché di tanta cura nei particolari, ad esempio quelli delle guglie, che nessuno avrebbe mai potuto vedere, lui rispondeva: «vorrà dire che li vedranno gli angeli!». Progettò perfino la scatola di legno contenente la corda della campana, con una particolare deformazione però, dato che il campanaro era mancino. 

Lasciando per un attimo la Sagrada, quali altre opere realizzò?
Tra il 1884 e il 1887 costruì i padiglioni della portineria e le scuderie per una tenuta della famiglia Güell, opera che segnò l’inizio della collaborazione tra Gaudí e l’industriale catalano, il cui mecenatismo fu il trampolino di lancio per l’architetto: tra il 1886 e il 1888 costruì infatti Palazzo Güell; poi le Cantine di Garraf, paesino in cui il mecenate imbottigliava il vino da esportare a Cuba; quindi il già citato Park Güell, a cui l’architetto lavorò dal 1900 al 1914, ma nel 1906 addirittura ci si trasferì, e proprio in quella casa che, come accennato, è oggi il museo a lui dedicato. Sulla cima di una struttura del parco Gaudí collocò tre croci, evidente ripresa del Calvario, ma con una variante: alla croce di Gesù e del “buon ladrone” si univa una freccia puntata verso il cielo. Tra il 1889 e il 1890 costruì invece il Collegio delle Teresiane, su commissione di Enric d’Ossó, presbitero dell’omonima congregazione. In tal caso però, viste le ristrettezze economiche, l’architetto dovette sottostare a determinate condizioni, che spiegano l’aspetto sobrio della struttura, le cui maniglie delle porte sono a forma di “T”, iniziale di santa Teresa, di cui Gaudí era ammiratore. Ma la simbologia dell’edificio prosegue con lo “scudo teresiano”: sotto il berretto dottorale (Teresa è infatti una delle poche donne proclamate Dottore della Chiesa) appare il monte Carmelo (simbolo della preghiera), coronato da una croce (il sacrificio), il tutto affiancato a destra e a sinistra da due cuori, uno di Gesù e l’altro della santa. I pinnacoli del Collegio sono poi coronati da quella “croce-rosa dei venti” che sarà una costante delle sue opere. Il capolavoro della struttura rimane tuttavia il cancello di ferro battuto, apribile solo dall’interno. Costruì inoltre casa Botines, a León, sulla cui cima del portone collocò san Giorgio nell’iconico atto di uccidere il drago. Altra opera degna di nota è Casa Calvet, capace di vincere il premio come miglior edificio della città barcellonese.

Ma torniamo al suo capolavoro..
Dicevamo dell’idea del luogo sacro come bosco, che però non è un’idea, ma la realtà dei primordi: quello che la popolazione celtica chiamava nemeton, il santuario posto sotto la direzione dei druidi, loro sacerdoti. Del resto, «Non puoi vivere una favola se ti manca il coraggio di entrare nel bosco», dice l’aforista conosciuta con lo pseudonimo di Anna Salvaje. Ma la Sagrada Família fu anche ispirata dalle forme di Montserrat, montagna sacra ai catalani in cui ha sede il celebre monastero benedettino, posto a 720 metri di altitudine e dedicato a Maria, presso la cui statua nel marzo del 1522 il futuro sant’Ignazio di Loyola depose la sua spada, gesto simbolico che segnò il suo passaggio da combattente per vana gloria a soldato di Cristo. In questa montagna Gaudí ideerà tra l’altro una grotta artificiale che, dedicata alla Risurrezione di Gesù, ha un fondale capace di illuminarsi all’alba del giorno di Pasqua. Per realizzare la Sagrada, in grado di attrarre oltre tre milioni di visitatori l’anno, Gaudí condusse una vita “monastica”, mangiando poco e dormendo ancor meno, si nutriva solo di verdura; una volta rischiando perfino di morire a causa di un esagerato digiuno quaresimale. Diventato presbite da un occhio e miope dall’altro, non volle mettere gli occhiali, così come essere fotografato. Visse solo per la basilica, per la cui costruzione andava in giro personalmente a chiedere l’elemosina. L’erigenda Sagrada era chiamata con spregio “la cattedrale dei poveri”, dato che cresceva molto a rilento e, inizialmente, grazie alle sole offerte dei meno abbienti. Quando gli chiesero quando avrebbe terminato l’opera, rispose: «Il mio Cliente non ha fretta..». Prima di morire vide infatti realizzata solo la prima della quattro torri. «Dio non ha fretta, perché non ha bisogno di niente, ma i figli degli operai sì»: per tale ragione, accanto e prima della futura basilica, realizzerà una scuola per loro, finanziandola tra l’altro di tasca sua. 

Nello specifico, cosa distingue questa chiesa da ogni altra?
Tanti aspetti. Oltre all’interno che, come detto, riprende il bosco, abbiamo ad esempio doccioni che si ispirano alla natura: rane, dragoni, lucertole, serpenti e salamandre, animali tutti con un qualche rimando demoniaco, aggrappati all’esterno del tempio, ma senza potervi entrare. Il loro aspetto “benefico” consiste però nel fungere da grondaie. Altra simbologia importante è quella delle tartarughe, rimando a ciò che non cambia, diversamente dai camaleonti, simbolo del continuo mutare. Per la costruzione delle varie sculture Gaudí prese a modello le persone che vi lavoravano, ma anche donne e bambini e tutti coloro che morivano nell’ospedale della Santa Croce, inizialmente facendo addirittura i calchi con le maschere delle loro facce, per utilizzare in seguito le fotografie. Insomma, in essa da una parte voleva riprodurre la vita così com’è, dall’altra la funzione simbolica la faceva da padrona: ogni porta, colonna, praticamente ogni spazio, più o meno grande, in questa chiesa rimanda ad altro, niente è stato fatto a caso. Dopo la morte di Gaudí altri artisti proseguirono la sua opera: Berenguer, Rubió, Jujol, Canaleta, Ràfols, Sugrañes, Quintana, Busquets, il giapponese Etsuro Sotoo e altri ancora. Ne citiamo solo uno, a titolo d’esempio, lo scultore Josep Maria Subirachs che, come Gaudí, introduce diverse opere “giocose”, ad esempio il quadrato magico: posto a lato di Giuda Iscariota, è un crittogramma composto da 16 cifre la cui somma delle combinazioni – 310 in tutto! – dà sempre il numero 33, la presunta età in cui morì Gesù. Le facciate del tempio al termine dei lavori saranno tre: della Natività, della Passione-Morte, e quella della Gloria, la maggiore e più spettacolare di tutte. Il 7 novembre 2010 la Sagrada Família è stata consacrata da papa Benedetto XVI, che l’ha elevata a grado di basilica. 

Possiamo allora dire che la santità di Gaudí consiste nell’aver assecondato la sua passione, nell’aver evangelicamente speso i suoi talenti?
Proprio così. Snobbato dalla critica, questo raffinato dandy della Barcellona di fine’800 fu un vero esteta: «L’arte è la bellezza – diceva – , la bellezza è lo splendore della verità, senza verità non c’è arte, e questa seduce il mondo». Non si sposò mai, l’unico amore di cui abbiamo memoria lo visse infatti intorno ai 30 anni, con una turista americana tra l’altro già fidanzata. Non fu neppure risparmiato dal dolore: il fratello Francesco morì appena laureato in medicina, all’età di 25 anni. Due mesi dopo morì di dispiacere la madre, donna molto devota alla Vergine della Misericordia, la cui immagine presiedeva l’ingresso della cittadina di Reus, in cui Antoni era nato. Per combattere l’artrite poi, che non gli dava tregua, si fasciava i polsi e le gambe con delle bende che spesso gli spuntavano dai pantaloni.. Nella sua vita ebbe inoltre una grossa crisi religiosa, che durò diversi anni. Entusiasta della liturgia e fervente devoto di Maria, oltre che del suo sposo Giuseppe, degli angeli e dei santi, era riuscito a concepire il celebre palazzo della “Pedrera” come un monumento alla Madonna del rosario. Espresse il desiderio di morire in un ospedale fra i poveri, e così fu. All’Ospedale della Santa Croce, quel 10 giugno 1926 le sue ultime parole furono: «Amen. Dio mio, Dio mio!». La tomba del servo di Dio – profanata durante la Guerra civile spagnola (1936-1939) – si trova nella cripta del “suo” tempio, in quella Sagrada Família che è simbolo al tempo stesso del suo genio e della sua santità. Nel 1998 è iniziato, su iniziativa dell’arcivescovo di Barcellona Ricard Maria Carles, il suo processo di beatificazione, ragion per cui, con ogni probabilità, avremo un santo architetto, il primo della storia! 

Quali altri “sentori” possediamo della sua santità?
Il 12 giugno ai suoi funerali il corteo funebre misurava un chilometro, mentre la folla assiepata si estendeva per quattro chilometri, facendogli da corona. Ma la sua fama comincerà proprio con la morte. Si iniziò a parlare di fatti miracolosi, due in particolare: la guarigione inspiegabile per una malattia della retina di Montserrat Barenis, nella città di Reus, in cui Antoni fu battezzato il giorno stesso della nascita, e la guarigione miracolosa di Ramon Armagant da un ulcera all’anca, entrambi per sua intercessione. Sull’onda di questi fatti e di altri, meno provati, dall’entusiasmo di cinque laici convinti della sua santità, nel 1992 è nata l’associazione per la sua beatificazione. Così nel 1998 il cardinale di Barcellona avvia il processo, autorizzato dal Vaticano due anni dopo. Ma fu in primis la sua vita ad odorare di cielo: ogni suo progetto era figlio di una squadra multidisciplinare formata da ingegneri, chimici, ottici, fisici, astronomi, falegnami, vetrai, ebanisti, fabbri, ceramisti, teologi, filosofi, scrittori, musicisti, politici e imprenditori, tutti in collaborazione e senza mai improvvisare: «Non improvviso, calcolo ogni cosa, sono un geometra». Gestiva mirabilmente i processi di lavoro e le risorse umane: dai materiali alle norme per la sicurezza, passando per l’igiene e la salute dei lavoratori. Ci è voluto quasi un secolo per riconoscerlo come il più grande architetto del ’900, secolo la cui critica l’ha visto sempre come un caso irrisolto, un problema aperto che, come tutti i problemi, si è preferito ignorare.. Eppure lo stesso architetto Santiago Calatrava, famosissimo per le sue opere numerose  (ponti, musei, teatri, stazioni e tanto altro), confessa di essere stato influenzato da Gaudí. Oggi il servo di Dio ci ricorda tra l’altro che è possibile un altro modo di concepire lo spazio, che parte dalle necessità dell’uomo, non da quelle dell’industria, spazio formato da una geometria a cui creatura e Creatore collaborano: «La retta è la linea degli uomini – diceva – , ..la curva (quella) di Dio».

Donaci, Creatore di questo meraviglioso mondo, di continuare la tua opera: te lo chiediamo per intercessione di Antoni. Insegnaci a poter dire, con e come lui: «Per fare un’opera c’è bisogno prima di amore, ..dopo di tecnica». 

 

Recita
Danilo Concordia, Cristian Messina

Musica di sottofondo
J.S.Bach. Suite No. 1, G Major, Prelude. Diritti Creative Commons

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