Isaia 40,1-11 con il commento di Luca Tentoni



Dal libro del profeta Isaia
Is 40,1-11 

Testo del brano
Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Una voce dice: «Grida», e io rispondo: «Che cosa dovrò gridare?». Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre. Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».

 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
J.S.Bach. Goldberg Variations. BWV 988-10. Variatio 9 a 1 Clav. Canone alla terza. Kimiko Ishizaka. Diritti Creative Commons. Musopen.org

Meditazione
Luca Tentoni

Meditazione
Non riesco a nascondere che questo testo mi abbia sempre affascinato. I motivi sono semplicemente due: il monte e la gloria di Dio che si rivela. La montagna e la gloria richiamano fortemente sia il Sinai (o Oreb) dell’Antico Testamento che il Tabor e il Golgota del Nuovo. La grandezza non viene, tuttavia, dall’altitudine, bensì dalla sacralità del luogo. Mosè, Elìa e Gesù non sono personaggi comuni. Nei brani evangelici della trasfigurazione vengono associati una guida, un profeta e il Cristo, i quali si sono trovati un popolo che, mosso nel deserto della storia, come un gregge in cerca di verdi pascoli, cioè quei luoghi ricchi di benedizioni e grazie divine, ha cercato la via dell’emancipazione. La storia, attraverso le scelte umane più svariate, dettate dal desiderio di indipendenza da Dio, ha costruito o creato altri deserti, paludi, rupi, muri, riserve indiane, campi di concentramento, gulag, centri di identificazione ed espulsione, smarrendo poi l’identità di essere un popolo e di convivenza fraterna. Il Signore ci ha proposto l’Eden, il paradiso, volendo far diversamente, abbiamo camminato dentro l’obbrobrio della storia: shoah, apartheid, guerre mondiali. Ma è sulla cima del monte che il cielo si abbassa e incontra la terra. Il monte elevato, raffigurato nelle varie iconografie, richiama questo incontro tra orizzontalità e verticalità. L’arte sacra ha rappresentato in diverse occasioni questa dinamica di abbassamento e di innalzamento: Bellini, Raffaello e Tiziano sono solo alcuni. Uno dei due elementi risulta decisivo: Gesù, attraverso lo scaturire della luce divina, che gli è propria – quindi non riflessa – , illumina l’umanità: «veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). A volte per capire se si procede bene nel cammino spirituale è necessario salire sulla montagna, ritirandosi, vivendo un’esperienza di maggiore intimità con Dio. Un tempo di “ascesi” dalla routine quotidiana, di faticosa salita, per mettere a fuoco le proprie scelte lasciandoci illuminare da Lui. Questo è un tempo privilegiato, non di “fuga” dal mondo, ma un confronto con il nemico peggiore, noi stessi, con la nostra superbia, il nostro orgoglio, la nostra noia, il nostro efficientismo, le nostre pigrizie. Forse potrebbe rendere il parallelismo con il personaggio di Aleksèj Fëdorovič Karamazòv: non è un “grand’uomo” ma porta con sé, nella sua persona e insieme nella sua vicenda esistenziale, vissuta in gran parte con lo starec Zòsima il “midollo dell’universale”. Autonomamente, in piena libertà, ha scelto la via illuminata del monastero, una differenza che si percepisce soprattutto nel confronto con i due fratelli, Mìtja e Ivàn, l’uno naufrago nel continuo eccesso dei sentimenti, degli impulsi bestiali, l’altro soprattutto razionale in quella del nichilismo, della distruzione, dell’anarchia. Aleksèj combatte l’odio con l’amore e trasmette amore. Tutti lo amano, persino il padre, l’insensibile, depravato e bestiale, solitamente incapace di provare questo sentimento. Questi fratelli rappresentano l’animo umano, talvolta confuso e incapace di relazionarsi. L’idea di riservare in noi un “monastero invisibile” che potrebbe scaldare il nostro cuore, potrebbe essere «la via preparata dal Signore», quindi ogni tanto ricarichiamoci nella luce di Cristo riservandole un po’ di tempo. 

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