
Testo della riflessione
In uno dei suoi tanti libri, Il racconto del cielo, il noto biblista Gianfranco Ravasi dedica un capitolo al binomio sacro-profano (e alla distinzione tra sacro e santo), intitolandolo L’incenso non è un narcotico. La sua disamina parte dal libro dell’Esodo: «Il Signore disse a Mosè: Procurati balsami: storace, ònice, gàlbano e incenso puro: il tutto in parti uguali.. Ne pesterai un poco riducendola in polvere minuta e ne metterai davanti alla Testimonianza, nella tenda del convegno. Cosa santissima sarà da voi ritenuta. Non farete per vostro uso alcun profumo..» (30,34-37). Con tale citazione scritturistica il cardinale sintetizza nell’incenso (dal latino incendere, “bruciare”, termine col quale si indicano tutte le sostanze di origine vegetale come resine, radici, cortecce, bacche, fiori e foglie) il simbolo «del rito, del sacro, della liturgia». Subito dopo il porporato sottolinea come in ogni cultura, anche “laica”, compresa dunque la nostra, il culto sia un elemento imprescindibile, insito nell’uomo. Lasciamoci quindi aiutare da lui nel tentativo, non semplice, di distinguere tra sacro e santo: se «“santo” rimanda all’ebraico qadôsh, basato sulla radice verbale qdsh, che significa in prima istanza “separare”, porre una frontiera tra l’area del tempio e del palazzo reale e quella profana», “sacro” «rimanda automaticamente a qualcosa di sacerdotale, templare, sacrificale, liturgico.. (e) per sua natura divide perché si oppone a ciò che è limitato, imperfetto, umano». Quel che a noi preme maggiormente è tuttavia la domanda che lo stesso biblista milanese si pone: «che valore ha e che rischi contiene in sé la visione sacrale? – e si risponde – Da un lato, il sacro tutela la purezza del concetto e della realtà di Dio, la sua trascendenza e distanza, impedendone la riduzione a realtà manipolabile, conservandone la sua qualità di totalmente Altro. D’altro canto, però, il sacro isola, rigetta e si pone in tensione col profano; si fa autosufficiente, tutto ciò che non appartiene alla sua sfera diventa il male, il peccato, l’impuro; suo sogno è quello di sacralizzare il maggior ambito possibile (politica, cultura, società) così da porlo sotto la sua propria ferrea tutela». La vera e più grande differenza tra sacro e santo sta dunque nel fatto che quest’ultimo, per via della sua connotazione esistenziale e morale, non isola ma accetta – anzi, pretende! – di aver a che fare col profano! Il santo vuole cioè uscire dal tempio per abbracciare il profano (etimologicamente “davanti al tempio”) per fecondare l’intera realtà, senza tuttavia violentarla. Detto altrimenti, il sacro non può isolarsi, fuggire la storia e quanto essa contiene.
Come tratta la Bibbia tale binomio, questo apparente antagonismo?
Citando Osea (6,6), Gesù dirà: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13); prima di lui Samuele afferma che «obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso degli arieti» (1Sam 15,22); la voce del Signore per mezzo di Amos è ancora più dura: «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre.. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Am 5,21-24); Isaia, da parte sua, ripropone in chiave originale un tema già trattato dalla spiritualità egizia e dall’induismo: «Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco» (Is 1,11); «Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro» ribadisce il Salmo 24, che assieme al 15, al 26 e al 95 costituisce una delle cosiddette “liturgie d’ingresso”. L’elenco potrebbe andare avanti, ma ciò che ci preme sottolineare è che queste citazioni non costituiscono «una disgiunzione ma una congiunzione armonica», diventando un’accusa al «culto isolato dalla vita, una liturgia separata dalla giustizia, una preghiera sganciata dall’impegno quotidiano, un tempio alienato dalla società, una religiosità priva di fede, una fede spoglia di opere. Altrimenti il rito si riduce a farsa, il culto diventa magia, l’incenso si trasforma in una droga sacrale, la rubrica liturgica sconfina nel folclore». E sul “rubricismo”, ovvero una pedanteria schiava della lettera, insomma un’ingessatura celebrativa incapace di creatività, ci sarebbe molto da dire..
Ed è proprio polemizzando col ritualismo che Gesù afferma: «Guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle» (Lc 11,42). Ecco, «senza trascurare quelle», una cosa non esclude l’altra: un gesto di carità non esclude una “bella” liturgia, l’attenzione al povero e al bisognoso non esclude la cura della preghiera, privata e comune.. nessun aut aut.
L’invito a passare dal sacro al santo è opera anzitutto dei profeti: in Osea Dio stesso afferma «sono il Santo in mezzo a te» (11,9), mentre Isaia definisce il Signore come «il Santo d’Israele» (1,4; 5,19; ecc..), «formula che – è ancora Ravasi a parlare – cerca di unificare due componenti in sé antitetiche, la trascendenza e l’immanenza, l’alterità e la vicinanza, la santità sacrale e l’appartenenza a un popolo, l’inalterabilità e la condivisione delle vicende di una nazione.. – e conclude – La profezia metterà l’accento in modo netto.. sulla santità esistenziale combattendo il sacralismo». Sacralismo che, come ogni parola il cui suffisso è “ismo”, non può che essere negativa: ogni volta che la perfezione scade nel perfezionismo, l’estetica nell’estetismo, il rito nel ritualismo, la liturgia in liturgismo e chi più ne ha, più ne metta..
Nel libro più volte citato, Ravasi azzarda un paragone scomodo, orticante per le orecchie di molti, dice infatti che l’«Andate pure a Betel e peccate, a Gàlgala e peccate ancora di più!» di Amos (4,4) «sarebbe come attaccare oggi i santuari mariani di Lourdes, Fatima o Loreto, se fossero solo un alibi religioso».
La Pasqua stessa costituisce, a partire proprio dal suo significato etimologico, un memoriale di “passaggio”, non dunque qualcosa di statico. Tale necessità scritturistica di passare dalla “staticità” della sacralità alla “dinamicità” della santificazione, come si manifesta oggi, e quali ripercussioni ha o potrebbe avere?
Anzitutto nell’uso dei termini, aspetto spesso sottovalutato: perché non sostituire l’altisonante sacerdote con prete (contrazione del greco presbitero, “anziano”)? Perché non abolire, là dove possibile, ogni separazione presente nello spazio liturgico, a partire dalle discutibili balaustre? Come proporre una santificazione del tempo e nel tempo, ad esempio attraverso una Liturgia delle Ore più accessibile? In questo caso, a dire il vero, una proposta ce l’avremmo: ascoltando quella di Pregaudio! Scherzi a parte, come passare dalla religione alla fede? Aspetto, quest’ultimo, caro al teologo e pastore protestante Karl Barth. Come uscire dalle sacrestie, ovvero dalla nostra comfort zone ecclesiale? ..per dar voce questa volta al compianto e tanto amato papa Francesco. L’arte sacra non potrebbe diventare arte santa, volta cioè a santificare?
Detto altrimenti: in questo dibattito apparentemente forzato tra sacro e santo, non c’è forse in ballo – ci sia permesso conservare almeno il beneficio del dubbio – l’eterno dilemma tra conservatori e progressisti, tra un’idolatria del passato e una del futuro?
Come passare, infine, da una teologia per soli esperti ad una che sia davvero affare di tutti? Perché non approfondire la lodevole intuizione della cosiddetta Pop-Theology, tanto cara ad Antonio Staglianò? Ma di cosa si tratta? In un manifesto datato 12 dicembre 2020, il vescovo di Noto ne precisa le caratteristiche in 10 punti:
Si tratta anzitutto di “carità intellettuale”: «l’impegno etico di traslocare le scoperte della scienza teologica, in parole sensate che giungano al cuore stesso del senso comune, dunque a tutti»;
Essa «si sviluppa con l’immaginazione della ragione, perciò scava nei linguaggi dell’arte per raggiungere l’obiettivo popolare di comunicare l’intelligenza della fede cristiana a chiunque»;
È una scelta di campo (la cultura popolare) e anche un’opzione preferenziale del proprio interlocutore (la gente comune)..»;
la comunicazione: è lo spazio senza il quale tutto il lavoro dei teologi di professione è praticamente inutile»;
Pop-Theology non è tanto citare la canzonetta del cantante, ma piuttosto, rispondere criticamente a interrogativi che interpellano il vissuto popolare della fede cristiana»;
è osare sulla via del paradosso, per educare alla riflessività critica ogni credente, con una divulgazione non negligente delle verità della fede, oltre gli equivoci su Dio della pratica credente ordinaria»;
è ermeneutica dell’ovvio cristiano: mostra l’incompatibilità del cristianesimo con le ovvietà con le quali spesso è mascherato»;
è esercizio dell’intelligenza critica.. mostra che nei riti praticati, nelle apparenze religiose e persino nelle idee su Dio, non è tutto oro quello che luccica»; è cura della “bellezza difficile” del Vangelo, oltre e contro le tante forme di estetizzazione del vissuto cristiano che anestetizzano il corpo ecclesiale, spegnendone la vitalità e l’ardore missionario»;
(da ultimo il vescovo cita il gesuita tedesco Karl Rahner) «si autopropone come vera teologia attenta alle “parole altre del diversamente credente o del non credente”, nella profonda convinzione che ogni uomo è, nella sua umanità, come una grammatica di una possibile autocomunicazione di Dio».
Nel 2021 esce in Italia Una grammatica semplice dell’umano, libro delizioso in cui il cardinale portoghese José Tolentino de Mendonça fa una cernita delle parole che dicono la Parola, individua cioè alcuni lemmi chiave capaci di dire, al tempo stesso, l’umano e il divino. Alla voce “Dio”, il porporato afferma, partendo dall’evangelista Giovanni: «Dio nessuno l’ha mai visto.. È una rivelazione. Dobbiamo accettare le rappresentazioni, accoglierle, percepirne il significato e andare oltre. Dobbiamo scrivere il poema di Dio per cancellare il poema di Dio. E cancellare il poema di Dio per riscrivere il poema di Dio». La Trinità ci vuole in pratica come Lei, dinamici. Ennesimo invito ad uscire dall’area sacrale per immergerci a bagno Maria (è il caso di dirlo!), in quella santa e santificante.
Davvero niente male, quelli di Staglianò e Mendonça, ottimi programmi per rispondere alla santità cui siamo chiamati, cominciando ad uscire dal fanum..
Recita
Cristian Messina
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