"Se qualcuno dai morti andrà da loro.." (La Bibbia secondo Charles Dickens)



Testo della catechesi
A caratterizzare le tante e molteplici sfumature che assume – oggi più che mai – il 25 dicembre, c’è senza dubbio quella dettata dal Canto di Natale di Charles Dickens (1812-1870), il cui titolo originale è A Christmas Carol. In Prose. Being a Ghost-Story of Christmas, racconto pubblicato per la prima volta a Londra il 19 dicembre 1843, quando lo scrittore aveva 31 anni, e subito esaurito lo stesso giorno di Natale. Narra dell’anziano banchiere Ebenezer Scrooge, al quale, dopo l’ammonimento dell’ex socio defunto Jacob Marley, fanno visita tre spiriti: quello del Natale passato, del Natale presente e di quello futuro. Sei anni dopo Dickens iniziò a leggere pubblicamente il suo racconto, e lo fece per ben 127 volte! Ciò che più cattura di questa storia è forse il clima natalizio “allargato”, dove si parla di feste cui prende parte l’intera famiglia, dell’allegria dovuta anche al cibo e alle bevande consumate in compagnia, così come del tratto ludico dello stare insieme, condito da quel pizzico di generosità che non guasta mai, dato che, si dice, “a Natale siamo tutti più buoni”. Ma perché? La risposta esige di partire dall’autore del racconto.. 

Lo scrittore e giornalista Charles John Huffam Dickens, dai più ritenuto il fondatore del “romanzo sociale”, nasce a Landport nei pressi di Portsmouth, secondogenito di otto figli, il 7 febbraio 1812. I genitori, l’impiegato presso la Marina britannica John Dickens ed Elizabeth Barrow, quando il piccolo ha tre anni si trasferiscono a Londra, e quando ne ha cinque a Chatham, cittadina in cui viene inizialmente istruito dal figlio di un pastore battista. Ma ad appassionarlo sono i tanti libri che divora avidamente. Quando di anni ne ha 11 le ristrettezze economiche costringono la famiglia a trasferirsi nuovamente, questa volta in quello che al tempo era il misero quartiere di Camden Town, oggi meta di migliaia di turisti. I debiti sono tali che nel 1824 il padre viene addirittura imprigionato. Il coinquilino dei Dickens, James Lamert, offre allora al piccolo Charles la possibilità di lavorare in una fabbrica che produce lucido da scarpe, situazione che fa sentire il ragazzino abbandonato a sé stesso. Dopo vari spostamenti Charles viene affidato ad una coppia e, uscito il padre di prigione, iscritto alla Wellington House Academy. Ad attenderlo però c’è la promettente carriera da avvocato: entrato in uno studio legale, dopo un po’ abbandona tuttavia la sgradita prospettiva e inizia a studiare stenografia – materia che i più attempati ricorderanno, forse per averla studiata alle scuole superiori – con una nuova ambizione: diventare cronista parlamentare. Come giornalista pubblica diverse cose, fino al suo primo romanzo: I quaderni postumi del Circolo Pickwick. Il 2 aprile 1836 sposa la figlia di uno scrittore del giornale per cui lavora, Catherine Hogarth, nozze dalle quali nasceranno ben dieci figli. L’anno seguente è gravido di accadimenti: diventa papà, esce la prima puntata di Oliver Twist e gli muore la cognata appena sedicenne, scomparsa che lo segna profondamente. Nel 1842 compie un lungo viaggio con la moglie negli Stati Uniti e l’anno dopo pubblica Canto di Natale, per poi visitare l’Italia, dove un’iscrizione alla Certosa di Bologna certifica ancora oggi il suo passaggio. Tra il 1849 e il 1850 viene pubblicato un altro suo grande successo, il romanzo “autobiografico” David Copperfield. Nello stesso anno gli muore una figlia e si ammala la moglie, dalla quale otto anni dopo si separa. Ma una data che rimarrà per lui ancor più indelebile è forse quella del 9 giugno 1865, che lo vede coinvolto in un incidente ferroviario: sei carrozze del treno su cui viaggiava, ma non la sua, precipitano da un ponte. Sceglie pertanto di prestare soccorso ai feriti, cercando tuttavia di aggirare le inchieste legate all’incidente, poiché avrebbero portato alla luce le vere ragioni del suo viaggio: una visita all’attrice Ellen Ternan, ventisette anni più giovane di lui, con la quale aveva instaurato una relazione ancor prima di separarsi da Catherine, e dalla quale ebbe un figlio, morto però ancora infante.

L’8 giugno 1870 ad Higham, una quarantina di chilometri da Londra, sviene improvvisamente a causa di un’emorragia cerebrale.. alle ore 18:10 del giorno dopo lascerà questa terra ad appena 58 anni. Le sue spoglie mortali verranno sepolte il 14 giugno nell’abbazia di Westminster.

La sua esistenza fu insomma ambigua, lodevole per certi versi, discutibile per altri.

Scrive Michele Genisio in un articolo del 2020 per il mensile Città Nuova: «Fa la gavetta: stenografo, reporter parlamentare, giornalista.. infine romanziere. Charles dimostra un talento sovraumano, che lo porterà a diventare il più celebre scrittore inglese dell’800 dopo Shakespeare. Il successo è travolgente. Oliver Twist, La Bottega dell’Antiquario, David Copperfield sono pubblicati a puntate sulle riviste. Le folle ne attendono l’uscita e corrono a casa per incollarsi alle pagine. Parla al cuore della gente, usa le loro parole. Conosce d’istinto la loro psicologia, mette il dito nelle piaghe più scottanti. Dimostra tenerezza per i tanti a cui la sofferenza non dà tregua. Dipinge la bassezza umana, ma si fa cantore dei buoni sentimenti. Nei finali dei suoi romanzi appare la convinzione cristiana della speranza, la certezza che presto o tardi la giustizia del cielo interviene». Non solo, «A 37 anni, mentre scrive il suo capolavoro David Copperfield, racconta ai figli la Storia di Gesù, che diventerà poi il libro di educazione religiosa per i fanciulli britannici. Già prima, con A Christmas Carol, aveva risvegliato nelle coscienze inglesi l’affetto per il Natale. In ogni casa inglese, oltre alla Bibbia, c’è la pila dei libri di Dickens».

«Ma dai 45 anni fino alla morte.. – ecco le critiche – Dickens ha una doppia vita. L’opposto dei buoni valori vittoriani di cui si fa paladino nei romanzi. È all’apice del successo, con una famiglia esemplare, una moglie devota e intelligente, 10 figli e due grandi case, quando s’innamora perdutamente di un’attrice diciottenne, Ellen Ternan. Dickens vuole disfarsi della moglie, cerca di farla passare per pazza, l’accusa di essere psicologicamente instabile e di non accudire i figli. Scrive questo sulla stampa per avere dalla sua il grande pubblico che lo adora. E che ovviamente gli crede e ritiene che la donna non sia più la degna compagna di un uomo di tale genio. Ottiene il divorzio e, secondo la legge di allora, anche la custodia dei figli, meno il più grande che va a vivere con la mamma. Charles vieta ai figli che stanno con lui di incontrare la madre. La cognata Georgina si schiera dalla sua parte, contro la sorella».

Fatte queste dovute premesse, possiamo tornare al nostro Canto di Natale..  

Anzitutto, chi è il protagonista? Partiamo dal nome. Ebenezer è di origine biblica, toponimo di quel luogo in cui si scontrarono per due volte Ebrei e Filistei, con i primi ad avere nettamente la peggio (cfr. 1Sam 4,1-11). Il primo libro di Samuele, che narra l’accaduto, riporta alcuni capitoli dopo un’altra battaglia, ma questa volta: «il Signore tuonò con voce potente contro i Filistei, li disperse ed essi furono sconfitti davanti a Israele.. Samuele prese allora una pietra e la pose tra Mizpa e Iesana e la chiamò Eben-Ezer, dicendo: “Fin qui ci ha soccorso il Signore”» (1Sam 7,10-13). Etimologicamente il nome Ebenezer significa dunque “pietra dell’aiuto”, e cominciò ad essere usato dai Puritani del XVII secolo ma, dopo che Dickens lo scelse per il suo protagonista, è comprensibile l’arresto che ne subì la diffusione.. Quanto al cognome, Scrooge in inglese significa “tirchio”: è la sintesi “fatta carne” dell’egoismo e dell’avarizia, al punto da non spendere soldi neppure per sé! Se l’egoista è colui che si preoccupa unicamente del suo ego, occorre chiedersi in cosa consista davvero l’avarizia e chi sia concretamente l’avaro? Facente parte dei sette vizi capitali, rivisitazione occidentale degli otto pensieri formulati da Evagrio Pontico (345-399 d.C.), l’avarizia consiste prima di tutto nella deformazione del rapporto che intratteniamo con le cose in generale e col denaro nello specifico, essendo quest’ultimo misura e simbolo di tutte le cose, poiché tutto (o quasi) può comprare. La philarghyrìa, com’è originariamente chiamata in greco, letteralmente “amore per il denaro”, consiste nella smania insaziabile di accumulare beni e denaro, ma ciò che spesso sfugge è la contraddizione che nasconde: il godimento dell’avaro consiste infatti nella previsione di godere in futuro, un futuro tuttavia puntualmente rimandato, e che forse non si realizzerà mai. Paradosso dei paradossi, l’avaro si priva dei beni presenti per non usufruirne nemmeno in futuro!? Il tirchio si identifica in pratica con quanto possiede: «sono ciò che ho», al punto che privarlo dei suoi averi equivale ad amputarlo di quello che considera un suo prolungamento corporeo. Qualcuno fa notare come, dal punto di vista etico, l’avarizia rappresenti un “furto in atto”, dato che sottrae ai poveri l’eccesso dei ricchi. Il suo vero antidoto non è però la povertà, che, paradossalmente, potrebbe anch’essa rappresentare un idolo (se intesa come fine in sé), ma la condivisione fraterna, il volto più vero della povertà cristiana.

Due parole sulla trama: l’anziano banchiere odia fortemente il Natale, da lui ritenuto un’assurda perdita di tempo e, soprattutto, di denaro, al punto da rimproverare Dio stesso, per aver permesso il riposo domenicale, ma facendo ricadere quest’avversione in primis sul suo impiegato Bob Cratchit, costretto non solo a vivere con un misero stipendio, ma a rimanere in ufficio fino a tarda ora anche la vigilia di Natale e il giorno di Santo Stefano, riuscendo tuttavia a non lavorare, seppur con enorme fatica, almeno il 25 dicembre.

L’unico parente rimastogli è il nipote Fred (figlio della defunta sorella Fanny), che lui tratta male come tutti, ma che, diversamente da tutti, sa guardare lo zio aldilà della sua ostilità. Tornato a casa, Ebenezer intravede nella porta l’immagine del defunto socio in affari Jacob Marley, morto sette vigilie di Natale prima, il cui fantasma è cinto da una catena fatta di lucchetti, timbri, portamonete, assegni e banconote, oggetti che da vivo scelse di sostituire al bene del prossimo. Il rimpianto per il suo egoismo costituisce la pena che è costretto a scontare, vagando per il mondo senza poter vedere il volto di Dio. Unico sollievo, poter ammonire chi si trova ancora su questa terra, Scrooge compreso. Gli preannuncia allora l’imminente visita di tre spiriti, che si presentano rispettivamente all’una della stessa notte, alla stessa ora del giorno dopo e a mezzanotte del successivo. Questa triplice visita rimanda alla celebre parabola del “ricco cattivo e del povero Lazzaro” (Lc 16,19-31), un tempo denominata “del ricco epulone” (membro del collegio sacerdotale romano che celebrava il banchetto della fondazione del tempio di Giove capitolino, quindi, per estensione e in relazione alla parabola, un vizioso dedito ai piaceri della mensa): «C’era un uomo ricco – così inizia – , che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco», là dove il ricco è Scrooge e i tanti volti dei poveri sono sintetizzati in quello di Lazzaro. Alla morte di entrambi il primo «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo», mentre la precedente traduzione aveva «nel seno di Abramo», che, come spiega una nota della Bibbia Via, Verità e Vita, «deriva dall’usanza di concedere all’ospite principale di appoggiare il proprio capo sul grembo dell’anfitrione (il padrone di casa), poiché allora era abituale consumare il pasto sdraiati. L’espressione – prosegue la nota – indica la vita eterna in comunione con Dio e con i padri giusti e fedeli di Israele».   

Il ricco epulone, invece, si ritrova in mezzo ai tormenti dell’inferno. Pertanto chiede ad Abramo prima di inviargli Lazzaro per alleviargli le pene, quindi di poterlo inviare dal padre e dai fratelli affinché li ammonisca a non agire come lui. «Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». Scrooge però, diversamente dal ricco epulone, ha ancora la possibilità di ravvedersi: «Sono qui questa notte – gli dice l’ex socio d’affari Marley – per avvertirti, per dirti che hai ancora una possibilità e una speranza per sfuggire alla mia sorte. Una possibilità e una speranza che ti sto procurando io, Ebenezer». 

Il primo a fargli visita è dunque lo Spirito del Natale Passato, che gli mostra la sua vita trascorsa, a partire dalla triste infanzia.. Segue lo Spirito del Natale Presente, molto simile a Babbo Natale, la cui veste è però l’originale verde (il bianco-rosso, com’è noto, è dovuto alla Coca-Cola), che gli fa osservare coloro che festeggiano il Natale in serenità, tra cui le famiglie del suo dipendente Cratchit e del nipote Fred, che nonostante tutto ha il coraggio di brindare allo zio! È la volta infine del terrificante Spirito del Natale Futuro, che lo catapulta nel Natale successivo, quello del 1844, in cui si rende conto di cosa lo aspetta se non si ravvede, esperienza che gli fa fare una promessa: «Onorerò il Natale nel mio cuore, e mi adopererò per serbarlo lì tutto l’anno. Vivrò in quello passato, nel presente e nel futuro. Gli spiriti di tutti e tre agiranno dentro di me. Non sprecherò le lezioni che mi hanno insegnato». 

Cosa direbbe sant’Agostino di questa esperienza triplice, lui che nel capitolo undicesimo delle sue Confessioni riflette sul tempo, affermando che «in se stesso non è misurabile; ma si può presentare.. come.. un’estensione dell’animo», fino a sentenziare che «un fatto.. (gli) è limpido e chiaro: ..È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire.. presente del passato (memoria), presente del presente (visione), presente del futuro (attesa)», ecco cosa intende per «estensione dell’animo». Il tempo è in ogni caso dono, come sottolineato dalla lingua italiana e da quella inglese, che con presente indicano sia il tempo che il regalo. E l’essere umano è fatto per celebrare, dal latino “rendere un luogo pieno di gente”, cioè “avere a che fare con”, al punto che quando non scandisce i momenti chiave della propria vita, non potendo far a meno di “avere a che fare” col tempo, celebra feste alternative o quantomeno discutibili: da Halloween alla Notte Bianca o Rosa, e chi più ne ha più ne metta. Il capolavoro di Dickens non si conclude allora a caso, dicendo che, a conversione avvenuta, Scrooge «sapeva meglio di chiunque altro come festeggiare..».

In un’epoca in cui il tempo è paurosamente velocizzato – eppure, come fa notare il neurobiologo Lamberto Maffei nel suo Elogio della lentezza, il cervello è una macchina lenta – , in cui mai come prima “il tempo è denaro”, e in cui anche la vacanza, potenzialmente capace di rompere le sue logiche, in realtà ne è soggetta, il tempo liturgico diventa più che mai mezzo e strumento di salvezza, poiché, diceva il filosofo danese Soren Kierkegaard, «il cristiano è un contemporaneo di Gesù», cioè una persona che ascolta “oggi” la sua Parola. Lo stesso fisico Carlo Rovelli, nel suo meraviglioso L’ordine del tempo, arriva a dire che «questo spazio che viene così aperto dalla memoria e dall’anticipazione è il tempo, che forse talvolta ci angoscia, ma che alla fine è un dono». D’accordo, ma da parte di chi? «Un miracolo prezioso – prosegue – che il gioco infinito delle combinazioni ha aperto per noi». Generoso, verrebbe da dire, questo “gioco delle combinazioni”.. Il filosofo marchigiano Roberto Mancini, omonimo del più celebre “Bobby gol”, nel suo Il senso del tempo si spinge oltre: «Nella storia tempo umano e tempo del mondo si incontrano in un unico divenire che chiede di essere interpretato e anche orientato». In questo saggio afferma che, lungi dall’esserci nemico, il tempo è anzitutto grembo fecondo di relazioni, permettendoci di continuare a nascere ogni giorno, e a tal riguardo cita il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che in Resistenza e resa afferma che l’incarnazione è il movimento della prossimità di Dio con l’umanità, anzitutto per solidarietà, per aiutarci a portare questa sofferenza, partendo da quella del nascere. Ma se il tempo è dono, allora questa affermazione è gravida di conseguenze: anzitutto genera la domanda su chi sia il donatore; quindi va condiviso, dato che ogni dono è per la relazione; poi apre alla dinamica del “per-sempre”, al punto da far dire al filosofo francese Gabriel Marcel ne Il mistero dell’essere che «amare qualcuno significa dirgli: “tu non morirai”»; e ancora, chiede prossimità, ragion per cui il Dio cristiano si incarna, e chiede a me – suo indegno alterego – di farmi a mia volta prossimo, di avvicinarmi cioè all’altro per primo. Infine, ultimo ma non ultimo, anche il tempo è nato dall’amore, poiché dare tempo è la prima forma d’amore..

Torniamo ad Ebenezer e al taglio biblico del suo personaggio, sottolineato dalle fattezze del suo «vecchio camino», «istoriato tutt’in giro con antiquate mattonelle olandesi destinate a illustrare le Sacre Scritture. C’erano Caini e Abeli, figlie di faraoni, regine di Saba, messaggeri angelici che discendevano dall’alto su nubi che sembravano letti di piume. Abrami, Baldassarri, apostoli che prendevano il largo a bordo di barchette piccole come salsiere, centinaia di figure capaci di attirare i suoi pensieri; eppure quella faccia di Marley (appena vista nel batacchio del portone di casa, ndr), morto da sette anni, compariva come la verga dell’antico profeta, e inghiottiva ogni cosa».  Il tirchio più famoso di sempre ha imparato la lezione e si converte sinceramente. Inizia pertanto ad agire di conseguenza con tutti, fino a che, il mattino dopo, attende Cratchit e gli aumenta lo stipendio. Una storia a lieto fine, ma a Natale non poteva andare diversamente..

Personaggio di Scrooge che ne ispirerà tanti altri: da Zio Paperone, disegnato per la Disney da Carl Barks proprio con il nome di Uncle Scrooge, all’avaro Mr. Potter del film La vita è meravigliosa, proseguendo quindi col cattivo di turno di diversi film, natalizi o meno, fino a Mr. Burns de I Simpson. Canto di Natale ha conosciuto inoltre svariati adattamenti televisivi e cinematografici, a partire dal cortometraggio Scrooge, or, Marley’s Ghost del 1901, fino a Il principe di Roma del 2022. Tra gli adattamenti fumettistici è poi curiosa la storia di Lupo Alberto intitolata Canto di Ferragosto, evidente parodia del racconto di Dickens, in cui la coscienza di Mosè fa ravvedere il protagonista dall’aver rovinato il Ferragosto degli amici, mostrandogli rispettivamente il Ferragosto del passato, del presente e del futuro. 

Quanto alla festività in sé, cosa intendiamo davvero quando auguriamo buono Natale a qualcuno? Se ci lasciamo guidare dai diversi idiomi scopriamo che in spagnolo Feliz Navidad è “felice nascita”, mentre l’inglese dice Merry Christmas, “piacevole celebrazione di Cristo”, il francese Joeux Noel, “gioiosa nascita”, il tedesco Frohe Weihnachten, “felici notti consacrate”, il russo Rozhdestvom, direttamente “nascita”, mentre il cinese Shèng dàn kuài lè, “sacra nascita gioiosa”. Se i cattolici si augurano “buon natale”, il saluto degli ortodossi è tuttavia molto più esplicito: «Gesù è nato!», sentendosi rispondere «è veramente nato!». Sostituendo poi a Pasqua il nato con risorto..

In un intervista del 2017, il filosofo Massimo Cacciari è stato come al solito molto netto e poco accomodante, definendo il Natale ormai «una festina.. (ma) Sono i cristiani i primi ad aver(lo) abolito». E aggiunge: «io che non sono credente mi interrogo: c’è un simbolo che ha dato un contributo straordinario alla nostra storia, alla nostra civiltà, alla nostra sensibilità.. Il cristianesimo è una parte fondamentale del mio percorso, della mia vicenda, è qualcosa con cui mi confronto tutti i giorni». All’intervistatore che gli chiede «Perché laici e cattolici oggi balbettano davanti all’evento che ha tagliato in due la storia?», risponde «Perché non riflettono, perché non fanno memoria di questa storia così sconvolgente.. Dio che viene sulla terra attraverso Cristo. Vertiginoso». Ma non è finita: «La nostra società è anestetizzata, il Natale è diventato una favoletta, una specie di raccontino edificante che spegne le inquietudini.. – va quindi a colpire quelli che secondo lui sono i primi responsabili – l’insegnante di religione (che) non trasmette più la forza di questa storia, ma se la cava con una spruzzata di educazione civica e il prete, spesso e volentieri, declama prediche, comode e rassicuranti, che sono un invito all’ateismo.. Si è perso l’abc. (Ma) La prima distinzione non è fra laico e cattolico.. (bensì) fra pensante e non pensante». Alla domanda relativa a cosa allora manchi, Cacciari non esita: «Manca il brivido davanti a una vicenda cosi grande, incommensurabile. Io vedo nei musei le scolaresche che sostano davanti ai quadri con soggetto religioso.. giovani (che) ricevono nozioni di natura estetica, ma poi se ti avvicini e chiedi loro: chi è quel santo? ..Ti guardano con occhi sbarrati, non sanno nulla, sono smemorati come il nostro tempo». Le acute riflessioni del filosofo portano infine l’intervistatore ad andare sul personale, chiedendogli se per caso preghi: «La ricerca – dice Cacciari – a un certo punto si avvicina alla preghiera. Certo, il fedele è convinto che la sua preghiera sia ascoltata, il filosofo prega il nulla. Però resta stupefatto davanti al mistero. E lo assorbe, come ho fatto nel mio.. libro su Maria: Generare Dio. Pensi, una ragazzetta che è madre di Dio. Da non credere, anche per chi ci crede».

Cacciari a parte, l’evento Gesù Cristo ha davvero stravolto la concezione umana del tempo, che, prima dell’Incarnazione era concepito come ciclico, dopo invece come lineare. Dalla fusione di queste due concezioni temporali (il cerchio e la linea retta) nasce il tempo liturgico, rappresentabile come una spirale che tende verso l’alto (e l’Altro), che inizia “ogni volta” proprio con l’Avvento, l’attesa di quell’evento che, già “av-venuto” una volta per tutte, si ripete ogni anno per noi, tenendoci desti sull’ultima venuta.

Nel geniale testo Il re, il saggio e il buffone del teologo e pastore protestante keniota Shafique Keshavjee, al sovrano di «un paese lontano (in cui) viveva un popolo pacifico» venne in mente di convocare nel suo regno il primo Gran Torneo delle religioni, all’interno del quale, alla fine delle varie “prove”, ciascun esponente di ogni credo avrebbe dovuto sintetizzare in un minuto e in due parole «l’essenziale delle sue convinzioni». Se l’esponente ebraico scelse santità e fedeltà, quello musulmano misericordia e sottomissione, l’induista libertà e immortalità, il buddhista distacco e compassione, e l’ateo complessità e umanità, il teologo cristiano optò per grazia e solidarietà.. Ecco il punto: nel cristianesimo è Dio che, per benevolenza, per favore, indica la sua predilezione totale e assoluta nei confronti dell’umanità! Come? Incarnandosi, vestendo cioè i panni “sporchi” del suo debole interlocutore. Detto altrimenti, facendosi con lui solidale, dal latino solidus, “solido”, “intero”, “pieno”, ovvero “una cosa sola”. In questo caso una “carne sola”.     

Recita, a tal proposito, una bellissima poesia in dialetto riminese del filologo don Carlo Rusconi, intitolata Ki èl k u m à ciamé (“Chi è che mi ha chiamato”): «Kwaikún u m à ciamè. E mé a sò iké. Ki èl k u m épa ciamè a n saría bòn ad dí, ke mé a n l ò vést, a n l ò vést, perké, prêma k u m ciamés, a n ñi séra mé invél e a n e putéva véd. Mo kwànd k u m à ciamè, ènka se mé a n ñi sera, a i ò dè mènt, e adès a i sò, a sò iké. A avría kèra d savé percké ló, ki k u s sía, u m à ciamè. Se mé a ciamés kwaikún, a l ciamaría per puté stè sa ló, per puté zkör sa ló: mo alóra pú kí el ke e vó stè insén sa mé e ke sa mé e vó zkör?». Tradotto: «Qualcuno mi ha chiamato. E io sono qui. Chi mi abbia chiamato non sarei capace di dire, ché non l’ho visto, non l’ho visto perché, prima che mi chiamasse, non c’ero io in nessun posto e non potevo vederlo. Ma quando mi ha chiamato, anche se non lo vedevo, gli ho obbedito, e adesso ci sono, sono qui. Mi piacerebbe sapere perché lui, chiunque sia, mi ha chiamato: se io chiamassi qualcuno, lo chiamerei per poter stare con lui, per poter parlare con lui: ma allora poi chi è che vuole stare insieme con me e che con me vuole parlare?». Già, chi è che ci ha chiamati e, in modo che con Lui potessimo interloquire, si è fatto come noi? Chi? Non è forse questo il senso del Natale?  

Ma il Natale, è bene ricordarlo, esisteva sotto altre vesti già prima della nascita di Gesù.. nel senso che il cristianesimo seppe – come in tanti altri casi – far sua una celebrazione già esistente, rivisitata dai seguaci di Cristo a partire almeno dal 336. I cristiani, come noto, non conoscendo il giorno esatto della nascita del Salvatore, adottarono simbolicamente quel 25 dicembre che celebrava il Sole Invitto, capace di riunire le divinità solari di altre religioni: il persiano Mitra, il siriano El Gabal e il greco Helios. Gesù diventava in tal senso il vero “sole”, quello che però non tramonta mai! Già solo per questa ragione le barricate attorno a chi attenterebbe alla sua originalità cristiana, andrebbero smorzate. 

Il libro A Natale tutti insieme, parte della rivista cartacea del giornale online Post, dedica un capitolo a venti tradizioni natalizie mondiali, dal quale emerge che circa la metà di esse è caratterizzata dall’elemento nuziale, con tradizioni benauguranti il matrimonio o che riguardano in ogni caso la coppia: in Giappone, ad esempio, il Natale è celebrato sulla falsariga di San Valentino, mentre in Groenlandia, il paese degli inuit (letteralmente “uomini”, eschimesi è infatti un termine dispregiativo – significa “fabbricanti di racchette da neve” – affibbiato loro dai nativi americani canadesi), il Natale è l’unico giorno in cui gli uomini servono le loro donne!  

Dicevamo che Dickens scrisse anche una vita di Gesù.. Sottolinea a tal proposito Manuel Ballester in un articolo del 15 ottobre 2020: «Pochi.. conoscono la sua La vita di nostro Signore, scritta per i suoi figli tra il 1846 e il 1849. Dickens proibì che il testo venisse pubblicato mentre questi erano ancora in vita, e quindi per la prima edizione si è dovuto attendere fino alla morte del minore dei suoi dieci figli, Henry Dickens, nel 1933. (Fu) Scritta con la maestria di un autore consacrato e con la tenerezza di un padre che cerca di fare ai suoi figli il dono più bello di cui è capace». E prosegue: «Non è un trattato di cristologia, né un’opera pensata per promuovere la pietà. Per questo gli amanti dell’ortodossia e i teologi si astengono dal leggerlo, a meno che non siano capaci di rendersi bambini e si lascino meravigliare dalla grandezza di quanto viene narrato». Il libro contiene tra l’altro diversi errori e una forma che, se fosse stata destinata al vasto pubblico, sarebbe stata certamente diversa, eppure la sua bellezza e originalità stanno proprio qui, nella sua semplicità e familiarità. Ma i destinatari del suo scritto, ripetiamolo, erano unicamente i suoi figli, ad eccezione di una copia che donò a quelli di un amico. Lo scrisse mentre si trovava sul lago di Ginevra a meditare sulla carriera e nel tentativo di stilare un primo bilancio della sua vita. Per lui il Nuovo Testamento era, come scrisse al figlio Edward che stava partendo per l’Australia a soli 16 anni, «il miglior libro che il mondo abbia mai conosciuto o conoscerà». Per narrare il Figlio ai figli, così esordisce: «Miei cari bambini, desidero ansiosamente che voi conosciate qualcosa sulla vita di Gesù Cristo. Perché tutti dovrebbero conoscerla.. E poiché egli è ora in Cielo, dove noi speriamo di andare.. e là tutti insieme essere felici per sempre, voi non potete neppure immaginare quale bel luogo sia il Cielo, senza sapere chi lui fosse e che cosa abbia fatto». Al capitolo terzo, mentre racconta di come Gesù scelse i Dodici, mette in guardia i figli: «Non siate mai superbi o sgarbati, miei cari, con nessun uomo, donna o bambino poveri. E se sono cattivi, pensate a come sarebbero stati diversi se avessero avuto amici affettuosi, e belle case, e migliori insegnamenti». In controluce sta tratteggiando la vicenda di Scrooge, «tra i meno dotati – sottolinea Dickens – in quella che si usa chiamare “immaginazione”». Manca insomma di creatività: è come quel servo che, nella parabola lucana delle dieci mine (Lc 19,11-27), o nel suo corrispettivo matteano dei talenti (Mt 25,14-30), ripone quanto affidatogli in un fazzoletto (sotto terra in Matteo) per paura. L’immagine negativa che ha del suo padrone gli tarpa le ali, ne frena la creatività e la possibilità di essere generativo, diversamente da chi – con astuzia e fantasia – si è adoperato per far fruttare quanto ricevuto, mine o talenti che siano. Come afferma infatti l’ex socio Marley, nel tentativo di ammonire Scrooge, i veri affari «dovevano essere l’umanità. Il benessere generale; carità, compassione, sopportazione, benevolenza erano i miei affari». 

Nel settimo capitolo invece, dopo aver spiegato ai suoi figli che una parabola è una storia, «poiché sapeva che la gente amava sentirle, e avrebbe meglio ricordato ciò che diceva», racconta loro quella sul regno dei cieli, che «è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio» (Mt 22,1-14). E precisa: «Con questa parabola, Gesù intendeva spiegare che quanti sono troppo occupati coi loro profitti e piacerei personali per trovare il tempo di pensare a Dio e di fare del bene, non otterranno presso di lui lo stesso favore che sarà invece concesso ai malati e ai miserabili». Subito dopo racconta la parabola di Luca 15, quella del Padre misericordioso, alla luce della quale il nostro Scrooge, personaggio pur inventato tre anni prima, diventa la sintesi di entrambi i fratelli. Con quella degli operai dell’ultima ora (Mt 20,1-16) anticipa in qualche modo ai figli, e a noi dopo di loro, che anche per uno come Scrooge c’è speranza: «saranno (infatti) perdonati e saliranno al Cielo anche quelli che sono stati malvagi, a causa della loro miseria o per non aver avuto genitori e amici che si prendessero cura di loro quand’erano piccoli, se dei loro peccati sinceramente si pentono, per quanto tardi nella vita, e supplicano Dio di perdonarli».  

Un altro monito, poi, è rivolto non solo a Ebenezer, ma ad ognuno di noi, dalla vedova al tempio (Mc 12,41-44), episodio che fa dire a Dickens, rivolto in primis sempre ai suoi figli: «Cerchiamo di non dimenticare mai ciò che fece quella povera vedova, quando ci pare di essere stati caritatevoli».       

Sotto altri aspetti, inoltre, Scrooge somiglia al Giuda Iscariota di Dickens, che, ne La vita di Gesù dipinge come uno che «voleva tenere per sé quanto più denaro poteva». «Sorsero migliaia e migliaia di cristiani.. – così si chiude il libro – e a loro succedettero altri cristiani, finché questa religione, a poco a poco, divenne la grande religione del mondo». È ancora questa, domandiamoci, la situazione dipinta da Dickens ormai quasi duecento anni fa? Decisamente no..

Nella postfazione, edita dalla Mondadori nell’ormai lontano 1988, uno dei più grandi studiosi dell’opera dickensiana, Neil Philip, ci fornisce chiavi di lettura importanti sulla poco conosciuta vita di fede dello scrittore inglese: «Nei suoi romanzi, Charles Dickens sbeffeggia impietosamente quelle che ritiene le ciarlatanerie religiose. Ma quando è lui a vibrare una nota religiosa, appare spesso sentimentalistico o convenzionale». E aggiunge, «Perciò non lo si ritiene generalmente uno scrittore molto religioso, e neppure un cristiano impegnato; anzi, agli occhi scandalizzati di taluni lettori suoi contemporanei, i suoi feroci attacchi contro la finta pietà e l’angusto dogmatismo lo rendevano poco più di un ateo». E conclude, «Può sembrare sorprendente, dunque, che egli si sia preso il tempo e la briga di scrivere La vita di Gesù. Ma è nel suo profondo interesse per i poveri e i deboli che Dickens sa esprimere l’essenza del messaggio cristiano». Il suo è insomma un Gesù che forse abbiamo dimenticato e sovraccaricato di strutture e orpelli inutili e fuorvianti..

Che tipo di fede era, in concreto, la sua? Lo stesso Philip ci suggerisce di cercarla nelle ultime parole del suo testamento, redatto il 12 maggio 1869: «Affido la mia anima alla misericordia di Dio.. ed esorto umilmente i miei cari figlioli (ne ebbe come già detto ben dieci, sette maschi e tre femmine, di cui una morta in tenera età, ndr) a lasciarsi guidare dal messaggio del Nuovo Testamento nel suo spirito più ampio, e non nella sua lettera, senza dar credito alle anguste ricostruzioni che gli uomini qua e là possono aver tratto». Meraviglioso! Ma se da una parte si concentra sull’ampio “spirito” di cui è pervasa la seconda parte della Sacra Scrittura, bandendo tra l’altro ogni forma di letteralismo (base di ogni fondamentalismo, oltre che vero suicidio del pensiero), dall’altra compie lo stesso errore di Marcione nel rifiutare il Vecchio o Antico Testamento, che, essendo la prima parte della Bibbia, la quale costituisce un unico messaggio d’amore rivolto da Dio all’umanità, sarebbe più giusto e corretto chiamare Primo Testamento e, di conseguenza, il Nuovo Secondo. La conferma arriva sempre da Philip: «Ben volentieri Dickens lasciò l’Antico Testamento quale campo di battaglia per le dispute fra le varie sette religiose». Ma proviamo a sorvolare su questa apparente sottigliezza (Dickens infatti non gradirebbe!), per concentrarci sull’importanza e la serietà che lo scrittore riversava sull’autentico messaggio evangelico, sottolineata dal fatto che, ad ogni figlio che si accingeva a lasciare la casa dei genitori per entrare nella vita adulta, donava una copia del Nuovo Testamento.

La già citata lettera ad Edward, soprannominato “Plorn”, chiarisce inoltre il suo modo di concepire e soprattutto di vivere la fede religiosa: «Ricordati bene che in famiglia non sei mai stato tormentato con rigidi obblighi all’osservanza religiosa o alle mere formalità. Mi sono sempre preoccupato di non annoiare i miei figli con tali problemi, finché non fossero grandi abbastanza da formarsi le proprie opinioni al riguardo». Conclude poi la missiva con «Un’ultima osservazione: quanto più siamo sinceri nel sentirlo, tanto meno siamo disposti a parlarne in pubblico», esortando infine il figlio a non abbandonare mai la salutare pratica della preghiera quotidiana.

Non va infine dimenticato che inizialmente Dickens si sentiva attratto dalla Chiesa Unitariana, ovvero quell’ala che, nata in seno al cristianesimo protestante rumeno, permette la pacifica convivenza di diverse religioni, e da lui definita come «una religione che simpatizza con gli uomini di qualsiasi credo, e non si azzarda ad avanzare giudizi su alcuno di essi». La sua predilezione si stabilizzò tuttavia sulla tollerante e razionalista Broad Church, la “Chiesa Larga”, quella corrente anglo-cattolica che sta a metà tra la High Church e la Low Church. Comprende in sostanza quegli anglicani che sposano le caratteristiche di entrambe le correnti, ma anche per indicare coloro che interpretano la dottrina anglicana in modo liberale o “largo”, appunto.

Il Gesù di Dickens, in estrema sintesi, il quale fatica di fronte al concetto di peccato originale e rifiuta categoricamente un Dio di cui aver timore – ma che purtroppo a suo giudizio così viene presentato ai bambini – è uno che fa del bene o, meglio ancora, “il bene in azione”.

«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce – afferma il profeta Isaia (9,1-6) – ; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»: nell’ombra dell’egoismo di Ebenezer, Dio ha fatto irruzione con le sue tre “luci”, «Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio», quello che Scrooge non ha mai avuto “nella carne”, l’irruzione dei tre spiriti gli permette non solo di riconoscerlo nel nipote Fred, nel dipendente Bob e nel piccolo Tim, ma gli fa sperimentare di essere egli stesso un bambino: «Sono come un neonato.. Essere come un neonato mi va benissimo». Il passaggio dall’ego-ismo all’altru-ismo gli dona insomma la possibilità di rinascere: è la proposta che il suo capolavoro suggerisce ad ognuno di noi.. 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
P.I.Tchaikovsky,The Nutcracker. Diritti Creative Commons

Scarica la nostra App su