A sua immagine: il grido che invoca (La Bibbia secondo E.Munch)



Testo della catechesi 
L’insediamento vichingo sulle coste norvegesi è databile tra l’800 d.C. e gli inizi dell’XI secolo, periodo in cui vennero fondate le prime città portuali, tra cui la futura Oslo, finché nel 1624, dopo la sua devastazione a causa di un incendio, ecco nascere Kristiania, in onore di Cristiano IV, re di Danimarca e di Norvegia, nome rimastole fino al 1925, in cui divenne Oslo, che ha il probabile significato di “colle degli dei”. Christian (Krogh) era anche il nome del maggiore pittore norvegese dei primi del Novecento, come Christian era pure quello di un certo Munch, medico dell’esercito cresciuto tra moralismo e puritanesimo, padre di un altro pittore, il più celebre Edvard che, seppur autodidatta, da lì a breve non avrebbe avuto alcun timore a paragonarsi con i più grandi di sempre, da Van Gogh a Rembrandt: era un genio, certo tutt’altro che modesto, e lo sapeva. «Io credo che il.. vero grande artista – afferma la britannica Tracey Emin – sia soltanto uno strumento attraverso il quale il mondo riceve il dono che sta aspettando». Secondo di cinque figli, Edvard nacque il 12 dicembre 1863 a Loten, cittadina vicino a quella che al tempo era ancora, appunto, Kristiania, nella quale si trasferì con la famiglia, quel micro mondo che ispirerà tanti dei suoi capolavori. La madre Karen, appassionata di disegno e pittura, morirà di tubercolosi appena trentenne, quando Edvard aveva solo cinque anni, mentre la sorella maggiore Sophie, sua prediletta, morirà della stessa malattia a sedici. A lei si ispirano in particolare due opere: La bambina malata (1885-86), dipinto che conosce ben cinque versioni e che, per sua stessa ammissione, sarà il cardine nell’evoluzione della sua pittura. Pur legato al ricordo della morte della sorella, diventerà per lui la rappresentazione assoluta della malattia: «Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli». Ma «Per me – scrive – , dipingere è una malattia.. da cui non voglio guarire». Quanto alla morte, si tratta di un tema decisivo per la sua vita e per la sua arte, tanto da fargli dire: «sto morendo da quando sono nato»! Altro dipinto legato a Sophie è invece Morte nella stanza della malata (1985), opera in cui le figure ritratte sono già adulte, e non con l’età che avevano realmente in quel preciso momento, come a sottolineare il perdurare del dramma familiare che, malattia dopo malattia, lutto dopo lutto, non conosce tregua. Il decesso della moglie prima e della figlia poi faranno cadere Christian Munch in una profonda crisi depressiva. Ma non è tutto: il figlio Andreas passerà a miglior vita a causa di una polmonite, mentre una delle sorelle più piccole sarà internata in una clinica psichiatrica. Lui morirà d’infarto mentre Edvard è a Parigi. Ma torniamo a quest’ultimo, che dopo aver frequentato inizialmente un istituto tecnico cambia presto in favore della Scuola reale di disegno. Nel 1885 si reca a Parigi, dove quattro anni più tardi lo raggiunge la notizia, appunto, della morte del padre, episodio che susciterà in lui un forte senso di colpa, sentimento che caratterizzerà non poco le sue opere. Edvard si dedica quindi all’incisione e alla fotografia, da lui considerate ulteriori occasioni per indagare gli anfratti psicologici e introspettivi dell’essere umano. La sua vita sarà caratterizzata da una continua altalena tra fermento creativo e numerosi ricoveri in ospedale, causati tra l’altro dall’abuso di alcol. Nel 1898 inizia una turbolenta relazione con Mathilde “Tulla” Larsen, figlia di un mercante di vino follemente innamorata di lui, e avrebbe voluto sposarlo a tutti i costi, mentre lui tergiversava. Nel 1902 Munch venne a sapere che lei era sospesa tra la vita e la morte dopo un tentato suicidio: «forse – le disse – dovremmo fare un altro tentativo». Mentre è ubriaco si spara, o forse Tulla spara a lui, ferendolo all’indice della mano sinistra, che gli amputano.. inizia così una fase di paranoia totale, che lo porta a soffrire di manie di persecuzione. Beve e dipinge.. beve e dipinge, dipinge.. Nel 1908, all’età di 45 anni, alcolizzato, depresso e in preda ad allucinazioni, decide volontariamente di farsi ricoverare in una clinica psichiatrica di Copenaghen, in cui sarà sottoposto a cicli di elettrochoc e bagni freddi al latte. In quella clinica poteva finire tutto.. e invece si rigenera! Ormai è una gloria nazionale, tanto che il re lo fa cavaliere dell’ordine di Sant’Olav. Nel 1916 l’acquisto di una tenuta a Ekely gli permetterà di trascorrere il resto della vita in relativa tranquillità, fino al 23 gennaio 1944, giorno della sua morte. Lui, che aveva partecipato a più di 400 mostre, decise di lasciare le sue opere alla città di Oslo, che le riunirà nel Munchmuseet, inaugurato nel 1963 in occasione del centenario della sua nascita: il museo monografico, dedicato cioè ad un solo autore, più grande al mondo, con le sue 27.000 opere. Ma passiamo all’arte di questo genio triste, caratterizzata da quel “male di vivere” particolarmente evidente in opere come Notte stellata (1922-24), simbolo dell’esistenza tormentata, o Sera sul viale Karl Johan (1892), la strada principale di Kristiania, che diventa il palcoscenico sul quale Munch mette in scena il dramma della solitudine, dell’isolamento e dell’alienazione umana, infatti: «Proprio come Leonardo da Vinci studiava le profondità del corpo umano sezionando cadaveri – scrive l’autore – , io cerco di sezionare anime». In questa tela l’uomo nero, di spalle, si dirige lontano dallo spettatore che, al contrario, vede la folla andargli incontro.. immagine iconica del suo andare controcorrente, anche dal punto di vista artistico, mai preoccupato di assecondare i gusti del momento e della massa, anzi! «Cosa sarebbe successo se Munch avesse ceduto.. – si chiede il regista del documentario intitolato Munch: l’urlo giunto fino a noi – se avesse dipinto come volevano gli altri? Lo avremmo ugualmente definito genio?». Probabilmente no.. Torniamo alle sue opere: Ragazze sul ponte (1901 ca.), che conosce ben dodici versioni (una delle quali è stata venduta per 54,5 milioni di dollari!), in cui tre fanciulle sul ponte ad Asgardstrand guardano il fiume, il cui specchio d’acqua riflette il paesaggio, ma senza il sole, elemento che nell’omonima tela, invece, sembra addirittura un ostensorio. Ecco tre elementi capaci di descrive la vita come metafora: l’albero, il ponte e lo specchio. La nostra attenzione verte tuttavia sul tema biblico, che l’autore qua e là affronta.. vediamo come. Le migliaia di opere lasciateci in eredità, furono censurate dal Nazismo in quanto “arte degenerata”. Arte la sua  che, come quella di ogni altro, «si nutre del sangue dell’artista», nasce però da una domanda, che è lui stesso a porre: «perché ci fu una maledizione sulla mia culla (?).. perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere (?)». Anzitutto due precisazioni fondamentali: la prima è che i titoli delle sue tele Munch li lasciava dare agli amici; la seconda è che le stesse furono pensate per essere esposte in serie, per cui sono da collocare all’interno di un progetto più ampio: quella denomina Seme dell’amore, ad esempio, comprende la già citata Notte stellata, Rosso e bianco, Occhi negli occhi (1894), Danza sulla spiaggia, Il bacio (1897) e Madonna (1893-94). Che spazio ha nelle sue opere la Sacra Scrittura? È riuscita la Bibbia ad ispirare Munch? Se sì, come? Occhi negli occhi, il cui tema rimanda a Ceneri, mostra ad esempio la coppia Adamo ed Eva che, attualizzata, sta ancora sotto l’albero. Lo sguardo dei due è incrociato: la tela è stata non a caso intitolata Occhi negli occhi, rimanda infatti al secondo capitolo di Genesi: «E il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”», là dove questo “che gli corrisponda” è reso meglio dall’originale ebraico ezer kenegdo, espressione che rimanda allo sguardo e agli occhi, traducibile con “qualcuno/a con il quale poter incrociare gli occhi alla pari”, “qualcuno/a che sta di fronte, alla pari”, “occhi negli occhi”, appunto.  La storia umana non inizia allora Dopo la caduta, ma con la capacità dell’umano, nel suo specifico di maschio e femmina, di guardarsi sullo stesso piano. Parità già espressa sempre in quell’originale ebraico che parla di ish e ishàh, che noi traduciamo “uomo” e “donna”, ma che potremmo meglio rendere, forzando un po’ la mano, con “uomo” e “uoma” o, ci sia concesso di giocare un po’, con “donno” e “donna”, così non facciamo un torto a nessuno.. Insomma a dire che l’essere umano è uno. Ceneri, dicevamo, in cui una donna, esternamente di bianco vestita (forse simbolo della purezza), internamente veste invece di rosso (rimando all’amore erotico), e ha la testa fra le mani come l’amante (gesto ricorrente nell’autore), che però veste di nero ed è di schiena, celando in tal modo il proprio volto allo spettatore. Se il tronco dell’albero che si trasforma in cenere dà il primo nome alla tela, il titolo più calzante sembra tuttavia l’altro che gli viene attribuito: Dopo la caduta; sullo sfondo dei due novelli Adamo ed Eva, ecco infatti alberi scuri e spogli, sorta di post-Genesi 3, con relativa perdita dell’Eden. In Metabolismo, poi, Munch raffigura ancora una volta il tema del peccato originale, colpa suprema che sembra ripetersi ogni volta che una coppia si ama. Nella scena i due sono ai lati dell’albero: Eva a sinistra, biblicamente il lato negativo, e Adamo a destra, quello buono. Se i genitali di lui sono evidentemente marcati, la tentazione che lei rappresenta è sottolineata dal rosso dei capelli, altro particolare ripetuto più volte nelle sue tele. La base della cornice del quadro ritrae in basso due teschi, allusione alla “caduta” e, soprattutto, alle conseguenze del peccato d’origine. Altra opera dal tema in qualche modo biblico è Il bacio (1897) che, seppur non celebre come quella di Klimt, è capace di fondere in un abbraccio, prima ancora che in un bacio, uomo e donna, i cui volti diventano uno solo, incarnando in tal senso, su tela, quella «carne sola» cui Gesù fa riferimento nel Vangelo di Marco (10,8). Poi Separazione (1896), in cui il dolore umano è nuovamente il soggetto del dipinto, con un albero a sinistra, probabile ulteriore allusione a quello genesiaco. Accanto ad esso un uomo vestito di nero si appoggia la mano destra – i cui colori risaltano sul resto della figura – sul cuore, quasi sanguinante: il giovane è infatti sofferente a causa della separazione dall’amata che, con la chioma, avvolge ancora per poco il collo di lui, confondendosi in parte con quella dell’albero, o meglio con i suoi rami. Separazione che Munch nei suoi appunti così descrive: «Quando mi ha lasciato.. era come se ancora fili sottili ci unissero». In Autoritratto all’inferno (1903) si dipinge dentro un inferno artistico quanto psicologico, quasi a volersi autocondannare alle fiamme eterne, in mezzo alle quali sta nudo, con lo sguardo rivolto allo spettatore e l’ombra alle sue spalle, immagine di quel senso di colpa che ritroviamo anche nella giovane in Pubertà. Il difficile rapporto col peccato gli derivava con ogni probabilità dal moralismo puritano ereditato dal padre. La sua più celebre opera, tuttavia, è senza dubbio L’urlo (1893), venduta all’asta per 120 milioni di dollari, la cifra più alta di sempre.. come mai? Perché l’acquirente è stato disposto a sborsare quella somma? Cos’ha cercato in quel volto? Più in generale: è la valutazione economica delle sue opere d’arte (oltre 40.000 tra dipinti, schizzi, stampe, litografie, xilografie, fotografie, testi, poesie e sculture) a darci la grandezza di questo autore, o l’umore di chi in quel momento offre di più? «I miei quadri.. – scrive Munch – nella loro diversità.. puntano tutti allo stesso obiettivo: la cima della piramide, sono tutti pietre di questo edificio».. e già qui si sente “puzza di Babele”. L’ego di Edvard mira cioè, più o meno consciamente, al medesimo obiettivo delle creature che, al capitolo 11 di Genesi, vogliono toccare il cielo per spodestare il Creatore: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gn 11,4). Tornando al suo capolavoro, L’urlo, è riscontrabile in esso una qualche eco biblica? Esplicitamente no, ma qualche incursione possiamo forse intravederla.. Dipinto in oltre 50 versioni, così l’autore ne narra la genesi nei suoi diari: «Camminavo per strada con due amici – un credente a questo punto potrebbe, con l’immaginazione, tornare alla scena lucana di Emmaus – Il sole era al tramonto e cominciai a sentirmi avvolto da un senso di malinconia. A un tratto il cielo si fece rosso sangue.. I miei amici continuarono a camminare. Io rimasi inchiodato in piedi, tremante per la paura e udii un grido forte e infinito trafiggere la natura». E questa volta il rimando è alla Lettera ai Romani (8,22): «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi». Questo urlo che “trafigge la natura”, dice insomma la sofferenza della creazione di cui l’uomo è parte, e la coinvolge in quello che è il suo destino fin dalle origini (e qui torniamo nuovamente al secondo e terzo capitolo di Genesi), dato che l’ha in qualche modo pervertita, come possiamo già da tempo constatare attraverso il cambiamento climatico e l’inquinamento da noi prodotto; non solo: l’essere umano ha spesso visto nella natura Dio stesso, perpetrando in tal senso la logica idolatrica. Il cristiano vive allora nella speranza che non solo lui, ma la natura stessa sia liberata dalla schiavitù del peccato – cui Munch abbiamo visto più volte far riferimento – in attesa della rivelazione definitiva della gloria di Dio, del suo “esserci” pienamente. Ma torniamo al pittore norvegese e lasciamolo continuare: «Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi.. Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare... Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come se fossero cariche di sangue, ho fatto urlare i colori. Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io». Suor Maria Gloria Riva, appassionata d’arte e di Sacra Scrittura, sottolinea in merito alla celebre tela: «..Tutto è in preda a un relativismo assoluto, agghiacciante dove l’uomo perde la sua identità.. Gli artisti, anche i più lontani da Dio e dal Mistero, hanno una percezione forte del futuro che ci attende. A volte hanno persino il dono della profezia: nascosto tra le pieghe della loro arte si cela un annuncio.. benché irriconoscibili, siamo noi quella maschera urlante che non trova altro sbocco della fuga in avanti. Quell’uomo non ha un volto ben definito: non è uomo, né donna.. (ma è) in attesa di definire la sua identità.. Quest’essere umano grida per me, per te che mi leggi, per noi. Che risponderemo?». Già, cosa rispondiamo? La stessa Riva paragona poi L’urlo di Munch a Il Volto di Rouault.. perché? Partendo dal Mandylion di Edessa, quel telo che, ritraendo il volto di Cristo (che alcuni studiosi identificano con la Sindone di Torino) è archetipo di tutte le raffigurazioni di Gesù – nonché della nostra, essendo fatti a sua immagine – suor Maria Gloria arriva fino al pittore francese, che ad un certo punto della sua vita si è imbattuto nel volto dell’uomo della Sindone subendone il fascino. «Il lino della Veronica – afferma la Riva – divenne il leitmotiv della (sua) pittura..», per poi precisare: «È suggestivo raffrontare questo dipinto con quello dell’Urlo di Munch. Nelle due tele corrono gli stessi colori.. (e) tutto sembra precipitare nel caos e nell’anonimato.. Un uomo, direbbe papa Benedetto XVI, caduto nel relativismo assoluto. È proprio su questo orizzonte informe che sorge la bellezza di Cristo. Nell’opera di Georges Rouault gli stessi colori usati da Munch si addensano, si ricompongono, aumentano di spessore e vigore, rivelando il volto di Cristo. Un volto in cui si raccoglie dunque ogni grido, anche quello dell’uomo di Munch». Spettacolo! Nel 2016 un articolo di José Tolentino Mendonça, apparso sul quotidiano cattolico Avvenire, afferma: «Pensiamo al bambino. Quando si sente abbandonato nel buio della notte non gli rimane che il grido. E il grido è la forma fragile e intensa con cui la sua vita parte alla ricerca di altre vite che possano soccorrerla. Il grido è un appello, una supplica, una richiesta, una sorta di preghiera.. Si sente gettato fuori, esposto alla vita, che non sa controllare. Allora grida. Impareremo poi che, per quanto ciò possa costare, anche noi nasciamo in questo grido che vuole contrastare l’abbandono, questo grido che sarà soccorso dall’amore degli altri che gli danno un significato, ossia trasformandolo in chiamata, in desiderio di presenza, in irrecusabile appello». Mendonça accosta dunque l’esperienza iniziale, che ognuno di noi ha fatto, col quadro di Munch, ricordandoci che fu inserito in un ciclo di sei tele che non a caso s’intitolava Studio per una serie evocativa chiamata Amore.. E prosegue: «se quel quadro è divenuto così emblematico, è perché.. schiude a tutti noi, illuminandolo, il senso tragico dell’esistenza. In quell’immagine sono condensati tutti gli urli umani, quelli emessi così come quelli soffocati.. Gesù morì emettendo un duplice grido». Se Marco e Matteo “gli fanno dire” «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», richiamando l’incipit del Salmo 22(21), Luca gli mette invece sulle labbra «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», rimando questa volta al Salmo 31(30).  Quando le persone gridano, diceva Gandhi, è perché i rispettivi cuori sono distanti tra loro.. a differenza degli innamorati, che sussurrano, anzi, talvolta neppure si parlano, bastando loro uno sguardo. Se urliamo, Signore, è perché abbiamo paura. Ma di cosa? Probabilmente di rimanere soli, eppure con Te soli non lo siamo mai. Allora, se ogni tanto ci senti gridare, abbi pazienza..

 

Recita
Cristian Messina

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