Il figlio del falegname (La Bibbia secondo Carlo Collodi)



Testo della catechesi
«C’era una volta.. – un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato..». Con questo incipit inizia uno dei romanzi per ragazzi più celebri al mondo: Le avventure di Pinocchio, nome la cui origine non è chiarissima, la più probabile rimanda forse all’antico dialetto toscano, che con esso indica il pino domestico, albero dal quale il burattino sarebbe stato tratto. Ma anche in questo caso registriamo un’inesattezza, il burattino è infatti manovrato infilandovi la mano, mentre Pinocchio è in realtà una marionetta, ovvero un pupazzo manovrato coi fili. In questa celebre rilettura del cosiddetto romanzo di formazione, la cui caratteristica principale è la maturazione del protagonista, non è difficile scorgere in controluce la figura di un alter Christus che, stando a certi Vangeli apocrifi, racconta l’infanzia turbolenta di Gesù, facendone un presepe toscano animato, laico e profano solo all’apparenza. Ma su questo torneremo. 

Se di rivisitazioni il racconto di Pinocchio ne ha conosciute tante, a partire dal cinema in quell’ormai lontano 1911, ci limitiamo a citarne tre, a partire dalla sua discutibile versione sovietica rielaborata dallo scrittore e politico Aleksej Nikolaevič Tolstoj, in cui Burattino – questo il nome russo della marionetta – viene realizzato dalle mani non di Geppetto ma di Papà Karl (richiamo evidente a Marx), il Gatto si chiama Basilio (rimando questa volta al santo cui è dedicata la cattedrale di Mosca, come a dire: “occhio ai preti!”), e alla fine non si trasforma in bambino. Questa lettura – afferma il fisico nucleare, filosofo e teologo ucraino Aleksandr Filonenko, è confacente alle esigenze dell’ex Unione Sovietica, essendo legata alla catastrofe antropologica dovuta dal crollo del comunismo, fenomeno sociale che ha generato la domanda di sempre: “chi è nostro padre?”. 

La seconda rilettura che val la pena prendere in esame è cinematografica, del regista messicano Guillermo del Toro che, assieme a Mark Gustafson ha realizzato con la tecnica della stop-motion un piccolo gioiello d’animazione ambientato nel ventennio fascista, durante il quale al vedovo falegname Geppetto muore il figlio Carlo (omaggio a Collodi?), tornato in chiesa a prendere la pigna dimenticata (altra allusione al pino), chiesa sopra la quale cade una bomba, siamo infatti in tempo di guerra. Ubriaco e incapace di elaborare il lutto, l’anziano abbatte l’albero cresciuto grazie alla già citata pigna, seminata accanto alla tomba del figlio. Ancora sotto l’effetto dell’alcool, con quel legno realizza la celebre marionetta. La rivisitazione in questo caso è altrettanto robusta: la fata è sostituita da uno “spirito del bosco” dalle sembianze di un cherubino, cui fa da contraltare Morte, sua sorella e sovrana dell’oltretomba, somigliante invece ad una chimera. Mentre Lucignolo è figlio di un gerarca fascista, l’alterego di Mangiafuoco (ma anche dei due scaltri animali) è il Conte Volpe, che Pinocchio decide di seguire per fare un po’ di soldi da inviare al povero padre, dimostrandosi in tal modo un figlio migliore. Geppetto si mette quindi sulle sue tracce e, con l’aiuto del grillo parlante Sebastian, mentre la marionetta cerca di sabotare uno spettacolo in onore di Mussolini, s’imbarca con un uomo che ricalca perfettamente Achab, il personaggio immaginario di Moby Dick. Scappato dalle grinfie del Conte Volpe, Pinocchio si ritrova insieme a Lucignolo non nel “paese dei balocchi”, ma in una scuola di addestramento militare.. Insomma, la vicenda è anzitutto di paternità e figliolanza che tratta, non a caso si gioca su tre coppie di personaggi: Lucignolo e il padre, Pinocchio e Geppetto, il Conte Volpe e la sua scimmia Spazzatura, che, visto il nome affibbiatole, non può che maltrattare. Sarà proprio quest’ultima a riservare le migliori sorprese. Chiude il novero dei personaggi il parroco del paese da cui parte l’intera storia, che commissiona a Geppetto un Crocifisso, anch’esso di legno (!!). Di cos’altro parla davvero la pellicola di del Toro? Della vita, che, come afferma lui stesso, contempla anche la morte.     

L’ultima rivisitazione che prendiamo in esame è Pinocchio alla rovescia, dello psicanalista, educatore, teologo e scrittore, nonché pastore presbiteriano Rubem Alves, che, in Brasile, è stato artefice assieme ad altri della famosa Teologia della liberazione. Pinóquio as avessas, questo il titolo della sua opera nell’originale portoghese, si apre con una citazione del celebre poeta Fernando Pessoa: «Sono l’intervallo tra il mio desiderio e quello che i desideri degli altri hanno fatto di me», frase che funge da chiave di lettura dell’intero libricino. Rubem Alves si serve infatti del racconto di Collodi per muovere una critica feroce all’intero sistema scolastico, che rischia il più delle volte di non far sbocciare l’umano che è in noi. È lui stesso ad affermarlo, motivando così il suo scritto: «Mi sembra che la favola di Pinocchio insegni che i bambini nascono dal legno e che, solo dopo esser andati a scuola, possono diventare veramente bambini. Se non vanno a scuola, corrono il rischio di diventare asini.. Ho pensato, quindi, di scrivere una favola alla rovescia: un bambino che nasce in carne e ossa e che la scuola trasforma in un’altra cosa.. Così è nata questa storia, dedicata ai bambini, ma sono i genitori e i professori che dovranno leggerla». Il perché è presto detto, se infatti i primi sono coloro che fanno progetti sui propri figli – proiettando su di loro aspettative spesso ingiuste – , i secondi ragionano invece in termini di voti e pagelle: «Felipe – il bimbo protagonista del racconto – non capiva che cosa erano i voti e la pagella. Non capiva come fosse possibile che un numero potesse dire quanto e cosa sappia una persona.. “Vuol dire – pensava in cuor suo – che quello che imparo fuori dalla scuola non vale niente là dentro? (e poi) Se io faccio una domanda a un professore e lui non sa la risposta, posso dargli un voto?». Il padre di Felipe non aveva dubbi a riguardo: «È nelle scuole che i bambini smettono di essere bambini che giocano per diventare adulti pronti ad entrare nel mercato del lavoro», eppure il figlio sognava ben altro: «che i professori erano uccelli che insegnavano a volare.. (e a ciascuno) in modo diverso». La realtà purtroppo, lo sappiamo bene, è tutt’altra cosa. Il pedagogista Paolo Vittoria, che del testo ha curato l’edizione italiana, sottolinea: «Felipe porta con sé tracce della coscienza di Pinocchio, dipartita tra ciò che si vuol essere e quello che gli altri si aspettano da noi – ecco Pessoa! – ..se (il bambino) cerca la sua realizzazione nell’essere, il padre.. ambisce all’avere.. il.. diploma.. (ma) Felipe va oltre la conoscenza che la scuola gli confeziona, scuola da cui non è compreso e che.. lo certifica come affetto da “disturbo dell’attenzione”». Quanto vive il protagonista della favola è una fotografia lucidissima dell’attuale modello di scuola, che, prosegue Vittoria, è «oggetto di mercificazione, chimera del mercato, ed è innegabile come questa ideologia, spesso inconsapevolmente veicolata dai genitori, invada in forma dominante la mente degli studenti, portando ansia e frustrazione». Chi lavora in ambito scolastico – mondo meraviglioso quanto poco considerato – sa bene che, gli anni più decisivi della vita sono nelle mani di chi crede che la scuola serva soltanto a trovare lavoro (!?). Convinzione, quest’ultima, che costituisce la pietra tombale del sapere, l’epitaffio sul tumulo dell’educazione! Dunque? «Improvvisamente – le parole sono ancora del Vittoria – si scorge un bivio: una strada porta a essere guardiani di un sistema scolastico precostituito e ordinato in programmi, contenuti, tabelle, voti; un’altra, strettissima e ardua, a essere maestri che insegnano a volare con le proprie ali, ascoltando il ritmo della propria anima. Non ci resta che scegliere».        

Tornando al Pinocchio originale, ancora non abbiamo parlato del suo autore.. è il caso di farlo. Nato a Firenze nel 1826 e cresciuto in una cultura profondamente cattolica, Carlo Lorenzini – vero cognome dello pseudonimo Collodi, paese in cui era nata la madre – studia nel collegio dei padri Scolopi. Nel 1848 si arruola come volontario nella Prima guerra d’indipendenza e, undici anni dopo, combatte la Seconda. Il clima risorgimentale, gravido di anticlericalismo, lo influenza, ma la delusione è dietro l’angolo: avverte che lo Stato per cui aveva combattuto non era quello da lui sognato, decide allora di dedicarsi al mondo infantile scrivendo storie per bambini, perché gli adulti – pensa – ormai sono incorreggibili. Così il 7 luglio 1881 esce sul Giornale per i bambini la prima puntata della Storia di un burattino, mentre il 27 ottobre vede le stampe l’ottava ed ultima, che si conclude con la morte di Pinocchio.. ma la redazione del giornale viene subissata di lettere di protesta, inviate da bambini di tutta Italia. L’editore Martini dice a Collodi che la storia deve andare avanti. Eppure il protagonista è morto! «E tu fallo risorgere!». E così avviene.. 

Lasciamo adesso che, a consegnarci la più interessante chiave di lettura biblica, focus del nostro interesse, siano il cardinal Giacomo Biffi (1928-2015) e, sulla sua scia, l’insegnante e pedagogista milanese Francesco Nembrini, detto Franco. Se il cardinale riconobbe lucidamente nella storia di Pinocchio l’unica voce in cui tutti gli italiani (e non solo, come testimoniano le oltre 200 traduzioni) potessero riconoscersi, Nembrini ci aiuta ad attualizzare il famoso romanzo. Cominciamo col primo. In un articolo del 10 luglio 2013 apparso sul quotidiano cattolico Avvenire, Filippo Rizzi scrisse: «Quest’anno ricorre un importante anniversario, dall’alto valore simbolico per la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio.. anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale». Biffi infatti pubblicò nell’ormai lontano 1977 Contro Maestro Ciliegia, nato in realtà il 7 dicembre del 1935, giorno in cui suo padre – il porporato aveva al tempo sette anni – gli regalò un’edizione economica de Le avventure di Pinocchio, testo per lui così decisivo da rileggerlo come un vero «capolavoro teologico e di introspezione». Se la sua tesi di dottorato intitolata Colpa e libertà nella condizione umana era altamente debitrice a Collodi, solo anni dopo potrà diffonderla come una storia capace di veicolare la Rivelazione cristiana: «Contiene (infatti) un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura». E aggiunge: «Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba.. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero». Indirizzato ai ragazzi di quel tempo, tratta ampiamente il tema della libertà. E conclude: «In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero».

Passiamo al secondo, quel Franco Nembrini che sostiene che “Le” avventure di Pinocchio siano in realtà la storia di ognuno di noi, ragion per cui ne fa un meraviglioso commento intitolato “La” avventura di Pinocchio, al singolare, commento che esordisce sottolineando subito un aspetto biblico: «C’era una volta» è l’incipit di Pinocchio, come l’«In principio» è quello di Genesi e del Vangelo di Giovanni. Passa quindi in rassegna i diversi personaggi più importanti, partendo da maestro Ciliegia che «è figura dell’uomo razionalista di oggi, la cui pretesa è quella di “capire” tutto, senza lasciarsi scalfire dal mistero!». Quindi Geppetto – che non esita un istante a identificare con Dio – diminutivo tra l’altro di Giuseppe, il falegname per antonomasia. Il grillo parlante è considerato come quella “immagine e somiglianza” che grida in noi, che possiamo chiamare coscienza, ma nel senso pieno del termine, non solo come “giudice morale”. Poi Mangiafuoco, personaggio che ci rimanda al già citato tema della libertà. Quindi il Gatto e la Volpe, coppia proverbiale che pone un altro tema, quello del male. E quando Pinocchio sta per lasciarci la pelle.. ecco la Fata Turchina, segno che Dio non fa mai mancare, neanche al peggiore degli uomini, la sua ultima possibilità. Fatina che, commentava già Biffi, non è altro che la Chiesa, ritenuta in ogni tempo «estinta da un pezzo». «E il potere mediatore che hanno le donne sugli uomini – è sempre Nembrini a parlare – è ben noto: da Maria nei Vangeli alla Beatrice dantesca». Pinocchio, che ad un certo punto sta per morire, vivrà solo se berrà l’amara medicina, che tuttavia non gli piace.. ecco i sacramenti! E Lucignolo, dove lo mettiamo? Pinocchio «fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo», che ha un’evidente parentela con Lucifero, non a caso lo porta agli inferi. Si fa trascinare da lui perché non pensa con la sua testa. Il carro che porta al Paese dei balocchi è un’evidente caricatura del Paradiso nonché prefigurazione dell’Inferno, oltre che simbolo di quella massa dalla quale non sappiamo separarci, per paura di esserne esclusi, soprattutto da adolescenti. Quanto alle tematiche trattate, su tutte compare il peccato originale: «..finito di fargli i piedi, (Geppetto) sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso»: ecco l’ingratitudine, che sperimentiamo tutti, a partire da Dio Padre, che ci ha creati per sentirsi dire “no grazie, la tua proposta non mi interessa, quindi me ne vado”. Ma abbandonato Geppetto, il burattino comincia ad avere fame; il richiamo col “figliol prodigo” è evidente! Detto altrimenti: a noi spetta a chi appartenere, a Geppetto o a Mangiafuoco? Fuor di metafora, o a Dio o agli idoli, che si mostreranno di volta in volta come i nostri padroni di turno. «Finalmente sul far del giorno (Pinocchio, dopo che gli erano andati a fuoco i piedi) si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta». Il Signore non smette mai di cercarci: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me», dice l’Apocalisse (3,20). L’abbecedario rappresenta quindi il fatto che Dio non smette di scommettere ancora su di noi, dandoci ogni volta l’ennesima possibilità:  Geppetto gli regala infatti questo libro – simbolo della ragione – che il falegname si è potuto acquistare solo dopo aver venduto la sua casacca. Ma anche stavolta Pinocchio ci casca, e si ritrova nel teatrino delle marionette. La vicenda prosegue tra alti e bassi, fino al momento in cui il nostro eroe viene impiccato dal Gatto e la Volpe alla Quercia grande, che Collodi scrive con la “Q” maiuscola.. perché? È un segnale: l’Albero cosmico, quello che in tutte le tradizioni religiose – evidenzia lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade – rappresenta quell’axis mundi che, per i cristiani, è evidentemente la Croce. Una volta appeso, Pinocchio riecheggia Gesù: «O babbo mio, se tu fossi qui», tradotto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). È in questo momento che – siamo al capitolo XV del romanzo – Collodi appone la scritta “FINE”, ma i suoi piccoli lettori, come già detto, non sono affatto d’accordo: inondano il Giornale per i bambini di lettere di protesta, fino a che il direttore Martini è costretto a richiamare Lorenzini: «La storia deve continuare».. «Ma Pinocchio è morto».. «E tu fallo risorgere!». Il bambino – fa notare il già citato Nembrini – non accetta che Pinocchio possa morire.. perché l’adulto sì? Non è una domanda da poco, anzi. Così, al di là delle intenzioni dell’autore, ecco una storia che ha al suo centro morte e risurrezione. Come non citare, allora, il famoso pescecane, nel cui ventre Pinocchio si ritrova inghiottito, come il profeta Giona lo è stato dal grande pesce. E all’interno della gigantesca creatura la marionetta ritrova l’amato babbo, il quale lo ha già perdonato.

Che dire poi del finale, in cui Pinocchio “mette il giudizio” e inizia a comportarsi per-bene, infatti, risvegliatosi dopo un sogno si ritrova «un ragazzo come tutti gli altri». La Chiesa, fa notare in conclusione Nembrini, chiama questa esperienza “risurrezione della carne”, che non sappiamo cosa e come sarà, ma forse ciò che saremo lo stiamo già sperimentando ora..  

Dall’incipit «C’era una volta» passiamo così all’explicit, all’ultima parola del romanzo, quel «perbene!» che ci ricorda che, tutta la nostra vita, non è altro che un cammino in cui siamo chiamati a sperimentare il nostro essere stati creati “per-il-bene”.

Riepilogando: il romanzo di Collodi, forse credente – come ebbe a dire un giorno alla madre – , ma non certo “uomo di fede”, dice una volta di più che la Bibbia è stata, è, e con ogni probabilità sarà – pur se sotto altre vesti, diverse da quelle confezionate dal Lorenzini – quel codice che più di ogni altro è stato capace di fondare la cultura occidentale, al punto da far realizzare a Carlo Collodi un suo perfetto “travestimento”, se così possiamo dire, il quale, senza che l’autore se ne sia nemmeno reso conto, non fa altro che parlarci di quel Gesù di Nazareth di cui il testo sacro parla da cima a fondo, dalla creazione al suo ritorno, da una vita “di legno” a una vita “di carne”, quella che Egli stesso si è degnato di assumere per redimerci..      

 

Recita
Cristian Messina

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