"Tendi la mano e toglila dal cappello!" (Bibbia e disabilità)



Testo della catechesi
Se l’essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, dove sta la sua disabilità? Perché la permette? Queste e altre gigantesche domande non smetteremo mai di porcele.. Forse, sulla scia di quanto afferma papa Francesco, occorrerebbe passare dal “perché” al “per chi”, e non per aggirare la questione, ma per affrontarla in modo propositivo. 

Se in campo linguistico siamo giustamente chiamati ad una certa attenzione, occorre sottolineare che il termine più diffuso, almeno in Italia, è ancora  handicappato (pronunciato all’italiana) o portatore di handicap, termine che mutuiamo dall’inglese to handicap e che proviene con ogni probabilità dalle corse dei cavalli: si dava al giumento più forte una penalizzazione, un handicap per poter equilibrare la gara. Il gergo ippico lo avrebbe tuttavia mutuato a sua volta dal gioco d’azzardo noto come hand in cap, “mano nel cappello”, risalente forse XIV secolo e consistente nel nascondere la posta in gioco con la mano, inserita appunto all’interno di un cappello. Se nella sua accezione medico-sociale handicap è stato legittimato in Italia fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, oggi il termine fa problema, per cui si è passati a disabile o diversamente abile. 

La Bibbia affronta il tema? Se sì, in che modo? Proviamo a vederlo.. 

«Nelle pagine della Scrittura – si chiede don Gianni Marmorini nel suo libro sul quale torneremo – si incontrano personaggi di tutte le tipologie umane..: bambini, vecchi, uomini e donne di ogni età, sani e malati di tutti i tipi.. re e regine, profeti e santi, prostitute e assassini, vedove, orfani, stranieri, demoni e angeli.. Possibile che non ci sia un volto e un posto anche per i diversamente abili dell’umanità?». E prosegue: «Numerosi sono i disabili fisici che si incontrano nelle pagine della Bibbia.. ma sembrano inesistenti altri generi di disabilità, quelli psichici.. nessun depresso.. autistico.. Down, nessun ritardato mentale. Potrebbe sembrare che non esistano».

Nell’Antico Testamento salta subito all’attenzione un passo del Levitico: «Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne dicendo: Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe, che abbia qualche deformità, potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio.. né un cieco, né uno zoppo, né uno sfregiato né un deforme, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o i testicoli schiacciati”» (Lv 21,16-20). Non solo, tale divieto valeva anche per gli animali: non era accettata nessuna menomazione. Questa durissima pagina biblica porta senza dubbio l’eco di un sentire filosofico greco, figlio dell’ideale kalòs kai agathòs, “bello e buono”, come attesta Platone nella Repubblica, convinto che il compito della giustizia e della medicina fosse quello di curare i cittadini sani, fisicamente e psichicamente: «quanto agli altri, lascino morire gli individui che sono portatori di tare fisiche e addirittura sopprimano di propria mano quelli che hanno malattie psichiche ereditate e incurabili». Ma la ragione è anche un’altra: l’imperfezione, al pari della malattia, sono una conseguenza indiretta del peccato e pertanto non potevano avvicinarsi al Dio perfettamente santo. Ma che c’azzecca tutto ciò con Gesù e il suo Vangelo? Lui che i malati e i disabili li andava a cercare e li guariva? C’entra eccome: proprio Gesù, l’uomo perfetto, ha scelto di diventare esso stesso imperfezione, per ricondurre alla perfezione tutti e ciascuno! 

Tornando al Primo Testamento, un’indagine molto interessante l’ha condotta il già citato presbitero toscano Gianni Marmorini, che nel suo libro Isacco. Il figlio imperfetto, ipotizza che il patriarca fosse affetto da sindrome di Down o da autismo.

Nel primo capitolo del libro Marmorini evidenzia subito che la Genesi, dunque l’intera Bibbia, inizia non a caso con la lettera bet, «la seconda dell’alfabeto ebraico, il cui valore numerico è due». Perché proprio con questa lettera? Per rispondere cita una bella storia tratta da un midrash, uno dei metodi con cui la tradizione rabbinica indaga la Sacra Scrittura: «Fra le 22 lettere dell’alfabeto ebraico – così comincia la storia – , c’era una grande attesa: ognuna sperava di essere scelta per diventare la prima lettera della Torah. Tutte erano in lizza.. ma su tutte si imponeva la alef, la prima.. la numero uno, che incarna la perfezione.. È la lettera che indica lo stesso Dio. Ma, con grande sorpresa di tutte, Dio scelse la bet, la seconda lettera. All’inizio della sua storia con l’umanità, Dio non scelse la perfezione ma l’imperfezione». Una storiella che in sostanza dice come la Bibbia parli dei “numeri due”, dei gregari, di chi non è all’altezza e dunque non t’aspetteresti mai! «Isacco.. – prosegue l’autore – Un nome che inizia con la.. yod, che in ebraico è indizio dell’imperfetto verbale, tradotto spesso con il tempo futuro. Un nome che potrebbe avere il sapore dell’ironia, ma per tutti gli anawim (come la Scrittura chiama gli “affondati”, i “premuti in basso”, gli “abbassati”, i “sotto-messi”, i “resi curvi”, gli “oppressi da pesi eccessivi”, gli “schiacciati”, i “calpestati”, e via dicendo.. ndr) ha quello della speranza. La yod è la lettera più piccola dell’alfabeto, e forse anche questo è un segno». Marmorini non avanza certezze circa la disabilità del figlio di Abramo, ma la ipotizza se non altro «per salvare la Bibbia da una dimenticanza che potrebbe essere imperdonabile». Non esita quindi ad affermare che «Isacco è stato indispensabile e determinante, anche se completamente trascurabile. Secondo il nostro metro di valore, Isacco è un nulla. Ma è proprio il nulla di Isacco che ha permesso alla storia della salvezza di non interrompersi e di proseguire il suo percorso». Ma quali sono in concreto le motivazioni che spingono l’autore a ipotizzare una disabilità psichica di Isacco? Nello specifico nessuna, ma uno sguardo d’insieme sul personaggio non può che destare più di un dubbio: nasce da genitori molto anziani, che sono tra l’altro fratello e sorella da parte di padre; il suo nome traduce “colui che ride”; alla sua nascita il padre non parla né esprime sentimenti, mentre la madre afferma: «Dio ha riso di me, chiunque lo saprà riderà di me»; Sara è tra l’altro preoccupata per la successione ereditaria; non meno di quanto lo sia Abramo dopo la morte della moglie: con chi sarebbe rimasto un figlio “così”? E le situazioni dubbie potrebbero andare avanti, tanto da far dire al presbitero toscano: «Perché è così difficile pensare e accettare quello che appare tanto evidente?». E conclude: «La possibilità che Isacco fosse disabile obbligherebbe a una trasformazione radicale del nostro pensare Dio, l’essere umano e la storia della salvezza.. offrirebbe anche una nuova chiave di lettura del racconto di Genesi 22, da molti considerato come la pagina più difficile di tutto l’Antico Testamento». Così, dopo aver riletto in modo alternativo il cosiddetto “sacrificio (o legatura) di Isacco”, racconto commentato da tanti e in tanti modi, Marmorini conclude: «Abramo non riesce a credere che un figlio disabile gli avrebbe dato una discendenza numerosa come le stelle del cielo.. In fondo, quello che voleva fare Abramo è esattamente quello che hanno fatto Adamo ed Eva, Caino e gli abitanti di Babele, prima di lui: il rifiuto dell’imperfezione».

Chi invece l’imperfezione l’ha voluta accogliere e far brillare sono gli autori del progetto Divine creature, una mostra fotografica che «nasce dall’esigenza di portare in piena luce un aspetto forse trascurato del messaggio evangelico.. lo speciale rapporto che lega Gesù alla disabilità». Una mostra che ha avuto il coraggio di far «interpretare a ragazzi portatori di handicap e ad alcuni genitori di figli disabili dieci quadri della storia  dell’arte sacra, a fondamento e sintesi del messaggio evangelico stesso». Il meraviglioso tentativo è stato insomma quello di identificare l’Amante e l’amato, Gesù e l’umanità da lui sposata, in primis quella ferita: nel corpo, nella mente e nello spirito. Ma «la diversità – ci ammonisce Antonio Natali, uno degli autori – esiste più che altro in un contesto di rapporti umani miopi, prima ancora che egoistici.. I gradi di disabilità (tra l’atro).. sono.. infiniti; a cominciare da quelli a tal segno bassi da non esser neppure inclusi fra le menomazioni. Basterebbe che ognuno pensasse alle sue difficoltà esistenziali, alle sue nevrosi, alle sue fisime, per avvedersi che, se una sola di esse (anche la più piccola) trovasse ostacoli insormontabili nella società in cui vive, sarebbe lui pure un “disabile”; e un “disabile” grave». «Sono un uomo con una disabilità evidente – diceva il compositore Ezio Bosso – in mezzo a tanti uomini con una disabilità che non si vede».

Tornando al progetto Divine creature, le quindici persone dello staff tecnico hanno ridato vita a celebri tele, riscrivendole appunto con la luce: l’Annunciata di Palermo di Antonello da Messina; l’Annunciazione di Caravaggio; l’Adorazione del Bambino di Gherardo delle Notti; l’Angiolino musicante di Rosso Fiorentino; Il bacio di Giuda di Giuseppe Montanari; l’Ecce Homo di Lodovico Cardi; Cristo e il Cireneo di Tiziano; il Lamento sul Cristo morto del Mantegna; il Trasporto di Cristo al sepolcro di Antonio Ciseri e una Cena di Emmaus, ancora del Caravaggio. Il progetto è diventato quindi un libro fotografico, che termina con l’interessante storia che il corpo umano ha attraversato lungo il cammino della diversità: Andrea Mannucci, autore del capitolo, ci dice che la prima raffigurazione di un disabile, un servo poliomielitico nella fattispecie, apparve sulla stele egizia di Rem, elemento che tornerà in seguito nel famoso Codice di Hammurabi, preoccupato di difendere i deboli e i menomati. Se lo spartano Licurgo e i romani dopo di lui stabilirono che i bambini non corrispondenti ai “giusti” canoni estetici dovevano essere gettati da una rupe, «il Medioevo cristiano non fu da meno.. perché la Chiesa medievale enfatizzava la figura dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, così perfetto e assoluto nei suoi canoni morali, estetici, esistenziali, definendo così, di conseguenza, quell’inevitabile paradigma teologico, ma anche politico e sociale, che il “deforme” era un’inaccettabile eccezione da escludere alla vista dei “sani”». Se un duro colpo, in termini linguistici, lo diede il dottor John Langdon Down col suo termine “mongolismo”, che marchiò per tantissimo tempo gli affetti da Trisomia 21, il Terzo Reich e le sue assurde leggi infersero il colpo di grazia ad ogni tipo di diversità, punita con l’annientamento. 

«Non fare caso a me – diceva la pittrice messicana Frida Kahlo – Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini»: donaci, Signore, di saper cogliere la diversità, ogni diversità, sempre come orizzonte verso il quale ci chiami, mai come il confine oltre il quale non riusciamo più a seguirti..  

                 

Recita
Cristian Messina

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