Free solo (Bibbia e solitudine)



Testo della catechesi
C’è una definizione che descrive l’arrampicata in solitaria e senza alcun tipo di assicurazione, distinta da quella libera, si chiama free solo, in cui l’arrampicatore rinuncia a qualsiasi tipo di protezione: dalle corde all’imbragatura. Il rischio è dunque evidente.. Ma cosa c’entra tutto ciò col binomio Bibbia e solitudine? Scopriamolo. 

Non mancano le suggestioni artistiche, su tutte La reproduction interdite, “La riproduzione vietata” di René Magritte conservata a Rotterdam, o la Sera sul viale Karl Johan di Edvard Munch, custodita invece a Bergen. Quest’ultima pone a tema l’alienazione, che l’autore stesso – come annotato più volte nei suoi diari – ha sperimentato. 

Una riflessione molto interessante, sul legame che intercorre tra Sacra Scrittura e la vita senza gli altri, l’ha intrapresa il giornalista Mattia Ferraresi, che inizia così il suo splendido saggio intitolato proprio Solitudine, a parer suo «uno dei mali più insidiosi della nostra epoca», e prosegue: «la solitudine è qualcosa di più complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo. Forse è la condizione che contiene e rappresenta tutti i malesseri del tempo in cui viviamo.. Di solitudine si muore, e in certi laboratori si lavora anche alla pillola per non sentirsi soli». Il fenomeno più celebre e noto a livello giovanile è quello degli hikikomori, nato nella culla dell’isolamento sociale, quel Giappone in cui l’adolescente si autoreclude per starsene solo, fenomeno che altrove assume tuttavia altri nomi ed altre forme: il Neet, sigla inglese che sta per “Not in Education, Employment or Training”, insomma il giovane che non studia, né lavora e nemmeno intende imparare alcun mestiere; quindi l’InCel, «il “celibe involontario” che spera di ottenere qualche forma di conforto associandosi ad altri single frustrati». Solitudine che né la pornografia né la tecnologia possono certamente eliminare, ma al limite solo parzialmente sedare.. forse.  

Ferraresi affronta però il tema mostrandocelo come un fenomeno che non ha confini – si pensi al ministero inglese per la Solitudine! – , ed è sorto in un tempo più o meno identificabile: «Sotto la guida di Alexis de Tocqueville si ripercorrono le origini dell’individualismo che oggi si esprime in molti modi, dal narcisismo esasperato che alimenta i meccanismi dei social media.. alla politica dell’identità, dove ciò che divide le persone precede e supera ciò che le unisce.. (fino a quel) populismo, che pur nelle diverse varianti appare accomunato da una promessa..: “Tu non sei solo”». Nello specifico, il filosofo, politico, storico e magistrato francese «intuisce che, allentando i legami sociali, si opera anche una separazione fra le generazioni, promuovendo una concezione che verrà ereditata dai giovani e poi trasmessa a quelli che verranno dopo, in un ciclo perpetuo». 

Il giornalista sottolinea inoltre come la triade francese liberté, egalité e fraternité sia diventata in men che non si dica una coppia, poiché i rivoluzionari hanno presto abbandonato l’ultima. Come mai? Perché la fraternità universale può essere davvero tale a patto che si riconosca e accetti di avere un Padre comune: tutti fratelli, d’accordo, ma figli di chi? 

Non solo, è con la solitudine liberale che a parer suo si raggiunge l’apice, «la solitudine (infatti) è diventata un allarmante fenomeno di massa proprio quando abbiamo realizzato in massimo grado le nostre aspirazioni di indipendenza». L’acquisto dei beni è andato in qualche modo a compensare la perdita dei legami tradizionali. È stata dunque la modernità a generare il concetto di individuo (letteralmente “indiviso”), il soggetto pensato aldilà e senza i suoi simili. Ancora: «con l’individuo moderno inizia a farsi largo l’idea della solitudine come buona». Risulta evidente che, in tale situazione, la domanda da porsi è cosa sia la libertà.  

È col terzo ed ultimo capitolo, però, che Ferraresi tocca le corde che più ci interessano, là dove dice che «la solitudine si configura come assenza di significato. La sua radice ultima è la mancanza di un’ipotesi credibile intorno al senso dell’esistenza. È questa mancanza – aggiunge – che determina la solitudine come postura, come orientamento fondamentale dell’uomo odierno». Postura resa iconica da Joker, la grandiosa pellicola di Todd Phillips. 

Sospendiamo per un attimo la riflessione di Ferraresi e chiediamoci, con diversi autori, cosa sia la solitudine? «Fin dall’antichità i padri della Chiesa avevano intuito la possibile ambivalenza della solitudine».. è l’incipit de La solitudine: grazia o maledizione?, testo scritto a più mani. Il presbitero psicanalista francese Denis Vasse (1933-2018) chiedendosi cosa sia davvero la solitudine, afferma: «Se essa si definisce in base alla relazione che ho con l’altro in cui m’imbatto o con l’altro che giace nella parte più intima di me stesso.. è il contrario dell’isolamento». È per tale ragione che non può essere compresa al di fuori della relazione con l’altro, addirittura garantendola!   

Il biblista gesuita francese Paul Beauchamp (1924-2001) sottolinea poi come «Gesù (abbia) conosciuto la solitudine voluta e temporanea della preghiera, la solitudine dell’incomprensione e quella dell’agonia». 

Il connazionale vescovo e teologo Jean-Pierre Batut ci richiama alla necessità genesiaca da parte dell’uomo di abbandonare padre e madre (Gn 2,24), perché «Non vi è fedeltà senza rottura; .. comunione con Dio senza accettazione di un certo isolamento dal resto dell’umanità». Gesù crocifisso conoscerà infatti una duplice solitudine: nei confronti dei suoi carnefici e del Padre Celeste. Solo così, scrive, «l’abbandono da parte di Dio può (diventare) abbandono in Dio». 

Il monaco trappista belga Andrè Louf (1929-2010) evidenzia quindi come il deserto non sia un luogo esclusivamente per monaci, pur essendone questi ultimi degli “specialisti”, come attesta l’intera vita di Gesù, che amava ritirarsi, pur oscillando la sua giornata tra deserto e folla. E quando la solitudine profonda e negativa è quella del credente? Louf sostiene che quest’ultimo, siccome «deve di nuovo morire alle proprie idee su Dio.. non può sfuggire all’impressione che Dio sia morto.. frutto della proiezione delle sue paure e dei suoi timori primitivi.. – e aggiunge – Quest’esperienza assomiglia a una vera e propria morte, e la solitudine ne è il crogiolo». 

Il prete anglicano Donald Allchin (1930-2010) mostra come «solo in apparenza il solitario si (trovi) ai margini della società: in realtà egli è al cuore del mondo». Il teologo pone quindi l’accento sul fatto che l’essere umano, più e prima che individuo, sia una persona, fatto di cui si prende coscienza quando ci si rende conto di avere la stessa natura degli altri. 

Il vescovo ortodosso Kallistos Ware (1934-2022) precisa poi come il monachesimo si distingua in tre modi di vivere: l’eremita, che se ne sta da solo; l’esicasta, che vive con uno o pochi fratelli; e il cenobita, che sceglie la comunità, definita dal filosofo canadese Jean Vanier – come recita il titolo di una sua celebre opera – Luogo del perdono e della festa. A queste tre modalità se ne sono aggiunte nella storia altre più estreme: dagli stiliti che vivevano su una colonna ai boskoí del cristianesimo primitivo, i quali se ne stavano con gli animali, come Adamo nel paradiso terrestre. Ware ci ricorda tuttavia che non è possibile starsene soli se prima non si è capaci di stare con gli altri, e lo fa prendendo le mosse dal padre del deserto Evagrio Pontico, il quale affermava: «Quando un monaco vive in comunità.. i demoni lo attaccano indirettamente attraverso le seccature causategli dai fratelli e le diverse tensioni della vita comune; (ma) quando egli parte per il deserto i demoni non si servono più degli uomini come intermediari, ma attaccano direttamente». E aggiunge: «E proprio perché i demoni sono molto più faticosi da sopportare che gli uomini, anche la vita solitaria è molto più dura della vita comune». Non vale forse anche per noi oggi?         

Il saggio lo conclude il già citato Louf, che sentenzia: «da qualunque lato la si osservi, l’esito della solitudine cristiana è una pienezza di comunione; è una solitudine sempre plurale..».  

Torniamo allora alla Bibbia, la quale parla di diversi tipi di solitudine: del deserto, del cuore, della preghiera, quella del profeta e quella del giusto.. Dio non è chiuso in sé stesso ma trinitario, intima relazione delle tre Persone. In Genesi si dice espressamente che «Non è bene che l’uomo sia solo», ragion per cui il Creatore fa una scelta: «Gli farò un aiuto, adatto a lui» (Gn 2,18). Nel poderoso Dizionario di teologia biblica, alla voce solitudine, Maurice Prat e Xavier Leon Dufour precisano che si tratta di «un male che viene dal peccato; (ma che) tuttavia può diventare fonte di comunione e di fecondità, se è unita alla solitudine redentrice di Gesù Cristo». È un male perché espone all’opera dei malvagi il povero come lo straniero, la vedova come l’orfano: per questo tali categorie sono dal Signore particolarmente protette. Non solo, «in attesa che sia rivelato il senso della verginità, Dio invita a rimediare a questa vergogna con la legge del levirato» (Dt 25,5-10). Il Creatore non vuole dunque che le sue creature siano sole, per questo invia suo figlio, l’Emmanuele, il “Dio con noi” (Is 7,14), capace di assumere su di sé la solitudine umana morendo come il chicco che, in tal modo, non rimane solo, ma porta frutto (Gv 12,24). È il Cristo-pastore che va a cercare la pecora rimasta sola. Gesù che, infine, ci ha lasciato il suo Spirito affinché non rimaniamo orfani, fino al giorno in cui tale solitudine sarà definitivamente colmata, perché saremo riuniti tra noi e con lui nello spazio e nel tempo. 

La vicenda biblica mette a fuoco il tema soprattutto nell’episodio di Babele, raccontato per troppo tempo – sostiene il già citato Ferraresi – al contrario. Un mito che a parer suo può segnare l’inizio dell’incomunicabilità e della solitudine, a patto però che venga letto in senso inverso: «È durante la costruzione della torre che gli uomini sono davvero soli, non dopo l’intervento castigatore di Dio. La divisione delle lingue è il momento in cui comincia una vera comunicazione». Il giornalista attinge da un’intuizione del filosofo milanese Silvano Petrosino, il quale sottolinea come, ad un certo punto, la costruzione della Torre, di per sé positiva e unificante, abbia preso il sopravvento: «Dimenticarsi di sé e dell’altro: questo è il prezzo altissimo che la costruzione esige. Gli uomini la edificano insieme, parlando la stessa lingua, ma non lavorano di concerto.. Il loro è un fare senza costruire, un parlare senza dire, un sentire senza ascoltare. Questa è la profonda solitudine di Babele». Perché allora Dio “scende” a dividere? Perché la costruzione ha avuto il sopravvento sui costruttori, i quali si sono dimenticati di sé stessi. È in tal modo che, paradossalmente, la diversità di lingue diventa lo strumento per riprendere quella comunicazione che si era interrotta. In tal senso «la divisione delle lingue è l’antidoto alla solitudine, non il suo trionfo».        

Ferraresi termina il suo saggio con la celebre domanda che Giacomo Leopardi si pone nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «Ed io chi sono?». Perché ricorre al poeta, spesso dipinto frettolosamente come «l’ingobbito cantore di un sepolcrale pessimismo»? Perché lo ritiene l’opposto dei costruttori di Babele: se il recanatese si pone una domanda che necessita di tempo e di relazione, i manovali della Torre tentano di risolvere questa domanda progettando e costruendo, accontentandosi di rispondere alle domande penultime. Venendo ai giorni nostri, il giornalista evidenzia infine come, nel tentativo di rispondere alle grandi domande, ci si sia accontentati di ridurre le aspettative atrofizzando il desiderio. Ma lasciamo che sia lui stesso a dirlo: «il dialogo diventa scambio di informazioni, l’amore si risolve in tolleranza, l’amicizia in cordialità, la ricerca della bellezza scivola nell’edonismo, la cura è assimilata alla sopportazione, l’intimità a brevi momenti di godimento, la condivisione in sharing, la carità è elemosina, la solidarietà gratificazione di sé, l’amor proprio si riduce a narcisismo.. Anche la comunione si degrada in connessione.. che della comunione è la parodia triste».    

Che fare, dunque? Il monaco benedettino tedesco Anselm Grün nel 2013 ha dato alle stampe Silenzio e solitudine nel ritmo della vita, che inizia così: «Molti, oggi, si lamentano della solitudine e dell’essere soli. Abitano in grandi città in mezzo a tanta gente. Eppure si sentono soli». Nell’introduzione non esita ad affermare che un modo per fuggire la solitudine possa essere rappresentato persino dalla devozione! Allora, che fare? Anzitutto accettarla, unico modo per renderla feconda, quindi rivolgersi sempre al Signore, in modo da poter cantare con Jovanotti: «Io lo so che non sono solo, anche quando sono solo. Io lo so che non sono solo, e rido e piango, e mi fondo con il cielo e con il fango» (da 1’25” a 1’37”, Fango, tratto dall’album Safari del 2008). Grün precisa quindi, mutuando dal mistico Meister Eckhart, come la separatezza – ovvero l’essere liberi dal mondo – sia «la premessa necessaria affinché Dio venga a noi». Molto interessante è la lettura che il benedettino fa della vita dei single, chiamati a gestire sapientemente e responsabilmente il proprio tempo. Come? Pianificando il più possibile, domenica compresa. Con questo intende il non farsi vincere dal tempo che scorre ma, anzi, scegliere come lo si vuole vivere, al fine di gustarne ogni attimo, perché «Per restare vivo ho bisogno di un ritmo».. perché «I rituali creano patria».. perché «La testa vuole sempre il nuovo, il cuore vuole sempre le stesse cose». Circa la solitudine avvertita da parte dei credenti, nei confronti di Dio, Grün sostiene derivi dall’incapacità di percepire anzitutto se stessi, causa della vera solitudine. La possibilità di stare soli passa allora, oltre che dalla preghiera, dalla lettura, dalla musica, dai film, anche dal guardare la tv, a patto che tutto ciò non avvenga in modo automatico e passivo. L’obiettivo è insomma quello di condurre una vita creativa, indipendentemente da ciò che si fa. Perfino il dolce far niente può giovare, godendo «di poterci, semplicemente, essere, così come sono. Non devo dimostrare a nessuno il mio valore, nemmeno a Dio e tanto meno a me stesso». Una pigrizia però “attiva”, non dettata cioè dal voler “ammazzare il tempo”. La solitudine non è dunque, se mai non si fosse capito, mera questione fisica: «ogni giorno esistono degli attimi in cui siamo da soli con noi stessi. Bisogna approfittare anche di questi.. poi ci sono i lunghi periodi di solitudine che sperimentano soprattutto i single e gli anziani. E c’è la solitudine in mezzo al trambusto della nostra vita.. all’interno del matrimonio.. del capo che si è assunto una responsabilità e la solitudine di chi non si sente capito dall’ambiente che lo circonda.. (per questo) è necessaria l’arte di saper star bene da soli con se stessi, una capacità che va appresa».         

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
F.Chopin. Nocturne in C sharp minor 'Lento con gran espressione', B. 49 (Op. posth.). Diritti Creative Commons
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