Nel blu dipinto di blu (La Bibbia secondo Chagall)



Testo della catechesi
«Mio Dio! Va bene, tu m’hai dato del talento, perlomeno così si dice. Ma perché non m’hai dato una figura imponente affinché mi temano e mi rispettino? ..il mio volto è troppo dolce. Mi manca una voce rimbombante. Sono disperato». Tale preghiera parte dalla bocca, o meglio dalla penna, di  colui che in ebraico si chiamava Moise Segal, in russo Mark Zacharovič Šagal, o Chagall, come verrà in seguito trascritto alla francese. L’abbiamo tratta dalla sua autobiografia, che inizia con la dedica a genitori, moglie e città natale, e che scrisse in russo tra il 1921 e il 1922. Se in Francia – dove a tradurla sarà la moglie Bella – farà la sua comparsa una decina di anni dopo, l’Italia dovrà aspettare il 1960. 

Siccome il nostro interesse si dirige sulle realizzazioni bibliche di questo incredibile artista, su come cioè il grande codice della cultura occidentale ne abbia caratterizzato buona parte della sua opera, occorre allora chiarire prima di tutto la sua vicenda umana, senza la quale non comprenderemmo appieno la sua arte: chi è Chagall?  

Diamo voce a lui stesso, che nell’incipit della sua autobiografia afferma: «Io non me ne ricordo.. ma proprio al momento della mia nascita.. scoppiò un grande incendio. La città bruciava, il quartiere dei poveri ebrei.. io sono nato morto»; e aggiunge: «Vorrei che gli psicologi non traessero da questo conseguenze disdicevoli. Per favore!». La dedica, si è già detto, è anzitutto per i genitori: «Tutto in mio padre mi pareva enigma e tristezza. Figura inaccessibile»; mentre della madre, già defunta, dirà: «Al cimitero, alla porta, mi lancio. Più leggero di una fiamma, di un’ombra aerea, corro a versare lacrime.. Ecco l’anima mia. Cercatemi qui, eccomi, ecco i miei quadri, la mia nascita.. Ecco il suo ritratto.. Non vi sono, lì dentro, io stesso?». E conclude: «Chi sono io?». È da tale domanda esistenziale, postasi proprio sulla tomba materna, che scaturisce questa autobiografia artistico-simbolica. Mamma che, ancora, sosteneva che Marc fosse nato probabilmente per fare il commesso, non certo il pittore.. Ma lui non se ne rammarica più di tanto: «Se la mia arte non contava niente nella vita dei miei parenti, in compenso la loro vita e le loro creazioni hanno decisamente influenzato la mia arte». Eppure quest’ultima ci mise un po’ a venire a galla, come testimoniano i suoi numerosi e continui slanci: «Diventerò cantante.. – e poi – diventerò violinista.. – quindi – diventerò ballerino.. – infine – diventerò poeta..».

Terzo destinatario della dedica è la sua città natale.. Marc è di origine ebraica chassidica, corrente che mira al rinnovamento spirituale dell’ebraismo ortodosso attraverso la santificazione di un quotidiano che ovunque rivela la volontà di Dio, ragion per cui si contrappone alla più colta tradizione talmudica. Nacque a Lëzna il 7 luglio 1887, vicino a Vitebsk (attualmente 350.000 abitanti a circa 450 km da Mosca), proprio mentre una comunità militare di cosacchi stava attuando un pogrom, termine russo col quale si indica la persecuzione contro alcune minoranze religiose. La città bielorussa di lingua yiddish – quella degli ebrei askenaziti, dell’Europa centro-orientale – al tempo era  parte dell’Impero russo e contava 34.000 ebrei, più della metà degli abitanti complessivi. Una città in cui la vita era, a detta dello stesso Marc, «triste e gaia».  

Primo di nove figli del mercante di aringhe Khatskl e di Feige-Ite, visse un’infanzia travagliata: gli anni trascorsi nello shtetl, il piccolo villaggio ebraico in cui crebbe, segnerà per sempre la sua vita, sia dal punto di vista umano che artistico. Non poteva essere altrimenti.. Shtetl in cui, dopo un percorso scolastico con specializzazione artigianale, intraprese la sua carriera artistica non senza fatica, poiché vietata dalla Torah. Dopo aver lavoricchiato presso due fotografi, nel 1906 iniziò a seguire l’unico pittore di Vitebsk: quel Yehuda Pen che per primo riconobbe il suo talento e nel cui laboratorio rimase due mesi. 

Del suo primo e più influente precettore, che gli pareva saltato fuori da un suo quadro o scappato da un circo, afferma: «Con le verghe di betulla in mano esaminava attentamente il mio corpo, come se io fossi una Bibbia». Testo sacro che ogni sabato andava a studiare, spedito dalla madre, proprio dal suo «piccolo rabbi». Fu in un collegio in cui non accettavano gli ebrei (ma la madre allungò cinquanta rubli al professore “giusto”) che Marc iniziò a balbettare: «Uno sciopero – si chiese – , o che altro?», ma al tempo stesso cominciò ad “inebriarsi di disegno”, disciplina che lo faceva sentire al settimo cielo: «mi mancava solo un trono». Fu al quinto anno tuttavia che sentì pronunciare una parola meravigliosa, certo già udita prima, che però non lo aveva mai colpito: artista, vocabolo che gli fece balenare la possibilità concreta di deragliare da quei binari che altri, il suo mondo adulto, avevano già preparato per lui.. Per questo convinse la mamma a portarlo da Pen. 

Nel 1907 si trasferì a San Pietroburgo, in cui poteva risiedere unicamente nella zona destinata dallo zar per gli ebrei, lui che si definiva senz’esitazione un’artista di sinistra e che aderì alla mobilitazione anti-zar. Pietroburgo che poté raggiungere con i ventisette rubli ricevuti dal padre, i soli che ricevette per la sua istruzione artistica. In questa nuova città a guidarlo fu invece Nikolaj Konstantinovič Rerich. Ma la Scuola per la Protezione delle Belle Arti non era il suo posto: «Per i miei professori – scrive – i disegni che facevo erano sgorbi senza senso», ragion per cui si diresse in quella di Léon Bakst, che ebbe il merito di aprirgli gli orizzonti artistici e non solo, facendogli conoscere l’arte di Gauguin e Cézanne. Ma anche qui emerse la sua incapacità ad imparare: «non è possibile istruirmi.. Non afferro se non attraverso l’istinto». Inoltre occorreva prima di tutto mangiare, ragion per cui accettò di mantenersi dipingendo insegne per negozi. Lo attendeva Parigi, non prima però di esser tornato nella sua città natale: «Ma avevo l’impressione che se restavo ancora a Vitebsk mi sarei coperto di peli e di muschio. Vagavo nelle strade, cercavo e pregavo». 

È proprio nel 1909 che, in una delle sue tante “cappatine” al paese natale, incontrò il terzo destinatario della sua dedica: la futura moglie Bella Rosenfeld, con la quale si sposerà nel 1915, per diventare poi padre di Ida. Nel 1920 si trasferì a Mosca, dove il governo gli chiese di fare da mentore ai bambini orfani di guerra, che amava profondamente e chiamava «piccoli sventurati». Tre anni dopo poté finalmente lasciare la Russia e, dopo un breve soggiorno a Berlino, approdò a Parigi mosso da una proposta irrinunciabile: conoscere il celebre mercante d’arte Ambroise Vollard. È in questo periodo che pubblicò le sue memorie in yiddish, trascritte inizialmente in russo e poi tradotte in francese, come già accennato, dalla moglie Bella. Gli vennero inoltre commissionate alcune illustrazioni, in primis acqueforti (termine col quale, dal 1500, si indica quel particolare procedimento per stampare) soprattutto bibliche, quindi diverse tavole pubblicate sulla rivista Verve, da molti considerata la più bella del mondo, sia per i contenuti offerti sia per gli artisti che fu capace di coinvolgere, tra i quali Matisse, Miro e Picasso, oltre ovviamente a Chagall. 

L’impatto della capitale transalpina fu tale che «nessuna accademia avrebbe potuto darmi – è ancora lui a parlare – tutto ciò che ho scoperto mordendo le mostre di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei». A Parigi condusse una vita ritirata a Montparnasse, in un edificio che durante l’esposizione universale del 1900 – quella, tanto per intenderci, durante la quale venne presentato il cinematografo dei fratelli Lumière – era stato il Padiglione dei vini. È al Louvre che, nello specifico, si sentiva maggiormente a suo agio, un luogo capace di fargli incontrare “amici” «scomparsi da gran tempo». 

Il suo caos interiore, se così possiamo chiamarlo, lo trasferiva senz’indugio all’esterno, al punto che chi si recava nel suo atelier doveva attendere a lungo, per dargli il tempo di rivestirsi, poiché lavorava nudo: «non tollero i vestiti, non ci tengo a vestirmi e mi vesto senza nessun gusto». Possibile un atteggiamento tale da un artista? Evidentemente sì..  

Ad un certo punto della sua vita incontra il gran rabbino Schneersohn, che tutti andavano a consultare.. di lui scrive: «avrei voluto chiedergli se il popolo israelita è davvero l’eletto del Signore, come sta scritto nella Bibbia. E avrei voluto sapere inoltre quel che pensava del Cristo, la cui figura bionda già da tempo mi turbava». Di chi sta parlando esattamente? Del Gesù “nordico” mostratoci da buona parte dell’universo cinematografico? 

Forse val la pena tornare per un attimo alla sua Scuola di Belle Arti, che fondò per poi diventarne direttore, reclutando diversi insegnanti ebrei, compreso il suo primo maestro Pen, ma quello che si mostrava come il suo più zelante allievo e lo venerava con una devozione tale da scambiarlo per il Messia, «quando fu promosso professore – ricorda Chagall – , passò dalla parte degli avversari, coprendomi di insulti e di canzonature». Né più e né meno di quel che è successo al vero Messia.. Deluso dal comportamento di tanti che si dicevano suoi amici, arriverà a diffidare di tutti, realizzando che «nessuno è profeta in patria» e arrivando a dire: «Che Dio solo mi aiuti a versare lacrime autentiche davanti ai miei quadri! Lì resteranno le mie rughe, il mio pallore, lì resterà per sempre impressa la mia anima fluida», parola quest’ultima assai cara ad un altro celebre ebreo: il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman. È insomma all’interno di questa delusione che nacque la sua autobiografia. 

Eppure fu un grande ottimista, al punto da far coniare a Majakovskij, di cui non fu certo amico, il neologismo “chagallare”, nel senso di “avanzare, progredire” (nonostante tutto). 

Per penetrare appieno quello che era il suo libro preferito sin da piccolo – la Bibbia, sulla quale torneremo – decise, insieme alla famiglia, di recarsi direttamente in Palestina, Egitto e Siria. In quegli anni, respirando prima di altri quanto stava accadendo in Europa, o meglio in Germania (premonizione sintetizzata ne La caduta dell’angelo, opera che iniziò nel 1923 ma finì solo nel 1947), scrisse ad un giovane intellettuale ebreo: «Mi appresto a fare i Profeti.. (ma) penso che il male abbia preso il sopravvento. Bisogna opporsi. In questa nostra epoca si sta diffondendo la tendenza a sfuggire verso un’altra dimensione». Nel 1937 divenne cittadino francese, ma a causa dell’occupazione nazista e delle assurde “leggi” messe in atto nei confronti degli Ebrei si vide costretto a riparare a Marsiglia, per fuggire quindi verso Spagna e Portogallo, per dirigersi nel 1941 negli Stati Uniti, proprio quel 22 giugno in cui il delirio hitleriano occupava la sua patria. 

Nel “nuovo mondo” fu aiutato dal figlio di Matisse ad esporre le sue opere, ma il 2 settembre del 1944, a causa di un’infezione virale, morì il suo soggetto preferito, la moglie Bella. Il trauma fu per lui enorme, al punto da impedirgli di dipingere per dieci lunghi mesi. A salvarlo fu la figlia, che non solo lo spronò a ricominciare, ma gli presentò una donna canadese separata dal marito, Virginia Haggard McNeil, che diventerà sua compagna e con la quale darà alla luce David. 

Terminato l’esilio statunitense scelse di tornare in Europa nella quale, dopo qualche spostamento, decise di stabilirsi definitivamente: in Provenza terminerà la sua relazione con Virginia per cedere il passo alle sue seconde nozze, sposando Valentina Brodsky, di origini ebree e russe come lui, che diventerà la sua nuova musa ispiratrice.   

Appassionato di teatro e danza, verso la fine degli anni ’50 si diede alla realizzazione di vetrate per alcuni importanti luoghi di culto: il battistero di una chiesa ad Assy, la cattedrale di Metz, la sinagoga di un ospedale a Gerusalemme, il duomo di Reims, una chiesa di Magonza e altre ancora. Non solo, la sua poliedricità fu tale da fargli progettare un affresco per il nuovo parlamento israeliano, alcuni arazzi a sfondo biblico per una sede universitaria e un mosaico per il comune di Chicago.  

Il 7 luglio 1973, giorno del suo compleanno, venne inaugurato nei pressi di Nizza il Museo nazionale – primo dedicato ad un artista vivente – che raccoglie le sue opere bibliche: diciassette dipinti narranti il Genesi, l’Esodo e il Cantico dei Cantici. 

Riponiamoci allora la domanda: chi è Marc Chagall?

Anzitutto figlio di tre culture: russa, ebraica e francese, come ben sintetizzato soprattutto dal celebre Autoritratto con sette dita, oggi conservato ad Amsterdam: in esso rappresenta infatti la Francia (attraverso la torre Eiffel), la Russia (simboleggiata dalla chiesa ortodossa) e l’ebraismo. Da cosa deduciamo quest’ultima appartenenza? Proprio dalle dita, sul cui numero si sono avanzate diverse ipotesi. Noi ne azzardiamo un paio, tra l’altro legate fra loro: o un rimando alla menorah, il candelabro a sette bracci in cui quello centrale rappresenta il sabato, oppure una ripresa della settimana genesiaca, costituita appunto da sette giorni, simbolo della perfezione, cioè della compiutezza, come a dire che, alla stregua di quanto compiuto da Dio, quello dell’artista è un atto altrettanto creatore. Non solo, la sua triplice anima dice anche che l’arte non ha patria.      

Quanto al suo stile, riprende l’arte dell’icona, in cui la sovrapposizione di piani diversi dà vita a più eventi che diventano uno solo. E ancora, il rifiuto della prospettiva, l’allungamento delle figure e il suo prediligere la frontalità dei soggetti sono evidenti richiami all’arte bizantina. Ma Chagall era ebreo, costretto dunque a confrontarsi col divieto di rappresentare Dio, al quale così si rivolse: «sono tuo figlio.. Tu mi hai riempito le mani di colori, di pennelli e io non so come dipingerti». Ricorrerà allora alla Sua rappresentazione attraverso simboli: il rotolo della Torah, il tetragramma, la menorah, la mano, gli angeli, la nuvola, ecc.. Distante dall’impressionismo e dal cubismo, concepiva l’arte come un vero e proprio stato d’animo, e «l’anima di tutti – diceva – è santa, di tutti i bipedi in tutti i punti della terra». Il suo rifiuto a lasciarsi etichettare da ogni movimento d’avanguardia fu in ogni caso tale da non accettare neppure il surrealismo, corrente in cui diversi già lo inserivano: «Chagall – scrive il critico d’arte Domenico Piraina – non voleva estraniarsi dalla realtà ma considerare una realtà più grande di quella immediatamente visibile. Non si trattava di una pittura surreale ma.. “metafisica”», come già sottolineato da Marc stesso quando affermava: «Ciò che mi ha sempre attratto è l’aspetto invisibile, (quello) cosiddetto illogico della forma e dello spirito, senza la quale la verità esteriore per me non è completa».   

Piccolo e curioso aneddoto: le celebri parole «Poi d’improvviso venivo dal vento rapito e incominciavo a volare nel cielo infinito», scritte da Franco Migliacci e rese famose da Domenico Modugno in quel febbraio del ’58 che gli valse il primo posto al festival di Sanremo, furono ispirate proprio dalle opere del nostro Chagall! 

Il suo rapporto con la realtà, in primis con sé stesso, con gli altri e con Dio lo possiamo quindi sintetizzare in alcune più o meno celebri citazioni. Di sé stesso diceva: «via via che diventavo grande, la paura s’impadroniva di me»; oppure: «Non sono modesto? Cederò la modestia a mia nonna; mi annoia. Disprezzatemi, se vi pare»; e ancora: «Non sopporto le grida acute dei bambini. Sono spaventose! Insomma, non sono un padre. Si dirà che sono un mostro. Sto perdendo la stima della gente». Quanto al rapporto col prossimo: «non capisco gli uomini più di quanto capisca i miei quadri» e «questi tempi privi di religione e manchevoli anche di poesia non assomigliano forse a un corpo senz’anima?», si chiedeva in un articolo del 1933. Rivolto infine al suo Signore: «Se Tu esisti, rendimi azzurro, focoso, lunare, nascondimi nell’altare con la Torah, fa’ qualcosa, Dio, in nome di noi, di me». 

Ma veniamo finalmente al cuore del nostro interesse, ovvero il rapporto tra Chagall e la Bibbia..

Il testo sacro di ebrei e cristiani affascinò Chagall fin da bambino, ma scelse di entrarci solo più tardi, fino a che l’editore francese Ambroise Vollard gli commissionò una serie di tavole bibliche. Dal 1930 inizia dunque quel progetto che gli occuperà la seconda parte della sua vita: l’illustrazione della Bibbia che, per realizzare come si deve, lo porta ad intraprendere un viaggio “di formazione” in Palestina, Egitto e Siria, per completarlo poi rendendo omaggio a Rembrandt e El Greco, visitando Olanda e Spagna. I soggetti da lui prediletti sono i patriarchi e i profeti, ma il suo sguardo, a parere dello storico e critico d’arte Meyer Shapiro, è anzitutto politico, a partire da quanto, come ebreo, ha dovuto subire sotto il profilo umano. Che un autore così celebre abbia scelto di approcciare il testo sacro, sottolineiamolo, non è affatto scontato, anzi! Forse è la naturale conseguenza della libertà intellettuale e artistica che Chagall ha sempre coltivato. La Bibbia dipinta da Marc non evoca però qualcosa di avvenuto nel lontano passato, bensì quello che lui viveva tutti i giorni, fin dall’infanzia, ed è proprio per renderli attuali che i suoi personaggi (dal violinista delle feste nuziali allo scriba, passando per i patriarchi e profeti biblici) li situa in una dimensione atemporale ed eterna. Lasciamoci allora interrogare e stupire da alcune sue opere, a partire da L’autista sacro, la cui immagine nacque capovolta: inizialmente l’“autista” era infatti un poeta seduto alla scrivania che, ebbro, gettava la testa all’indietro.. ma a Chagall venne in mente di ribaltare l’immagine, ritenendola più efficace.. così il poeta divenne un messaggero celeste! Quindi Omaggio ad Apollinaire, opera in cui, dedicata al poeta omonimo, Marc utilizza come in altre tele il cerchio a mo’ di figura geometrica “mistica”, a sottolineare l’importanza di quanto rappresentato, il cerchio simboleggia infatti quella perfezione – data dalla mancanza di spigoli – che rinvia a Dio, concetto questo utilizzato già dall’aureola, cerchio col quale, appunto, il santo o la santa di turno è reso partecipe della vita divina. Ma l’opera parla soprattutto della coppia e della “prima” coppia, proiettata proprio in quel cerchio che dice anche terra e cosmo, come si evince dalla suddivisione quadripartita della figura geometrica, in cui compaiono cromaticamente i quattro elementi: fuoco, acqua, terra e cielo. Se quanto detto rimanda allo spazio, ecco che i numeri all’interno del cerchio (i quali sembrano indicare il quadrante di un orologio) ci parlano del tempo. Più o meno nello stesso anno Chagall dipinge anche Adamo ed Eva. La prima licenza che l’autore si concede in questo quadro è la mancata presenza del serpente, nascosto tuttavia nelle linee sinuose del corpo della progenitrice. Se in Omaggio ad Apollinaire era il cerchio la figura geometrica dominante, qui è invece il triangolo (che rimanda ai genitali femminili), sia posizionato al centro sia disseminato nel formare i corpi dei due. Coeva alle opere già considerate è anche Golgotha, oggi esposta al MoMA di New York. Scomparsa la croce e con essa la sofferenza di cui è portatrice, il Cristo di Golgotha si inscrive in un disco solare che facilmente richiama il celebre Uomo vitruviano di Leonardo. Il fatto che rimanga sospeso in aria rimanda quindi alla sua futura risurrezione e ascesa al cielo. Eppure questa tela è un evidente richiamo alla redenzione da quanto accaduto in Eden.. da cosa lo deduciamo? Dal fatto che il disco rosso in primo piano si trasforma nel frutto genesiaco, là dove il remo del pescatore sovrastante è in realtà il picciolo del frutto stesso. Il Cristo redime insomma l’intera umanità resa schiava dalla morte. Eppure «Chagall non accoglie alla lettera il racconto evangelico – sottolinea lo storico dell’arte Michele Dantini – ma lo avvicina come un mistero o una fiaba per iniziati. Non lo rappresenta fedelmente: ne estrapola invece una conoscenza universale».  L’anno dopo è la volta de La donna incinta, conservato invece ad Amsterdam. La donna ritratta, commenta nuovamente Dantini, «è posta sotto tutela della luna, con riferimento al ciclo della fertilità. La luna è infatti macchiata di sangue mestruale.. il bambino (invece) evoca il Cristo-Re della tradizione. In posizione eretta e già adulta». Del 1917 è Le porte del cimitero, esposto a Parigi, tela caratterizzata da una luminosa giornata, che sembra preannunciare l’imminente risurrezione, come testimoniano le iscrizioni prese dal libro di Ezechiele, nella sua celebre profezia delle ossa aride: «ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio usciere dalle vostre tombe.. o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (37,12-14). All’incirca nello stesso periodo realizza quindi Apparizione, opera dove Marc, o meglio il suo alterego, è nel proprio studio di Vitebsk (anche se l’architettura esterna lascia pensare si tratti di Parigi), quando un angelo interviene, forse per colmare la sua attesa – ben rappresentata dalla tela ancora bianca che l’artista stenta ad iniziare – o forse per intimargli di dipingere, non lo sappiamo. Lasciamo allora che ad interpretarlo sia il già citato Dantini: «Nella cella-atelier del monaco-dandy di Chagall, alter ego profano di Maria, lo spazio tridimensionale della geometria euclidea accenna a curvarsi e collassare nel gorgo mistico della “quarta dimensione”. – E aggiunge – Non “assistiamo” a una scena che Chagall vuole farci credere effettivamente accaduta.. penetriamo invece nella mente del pittore e prendiamo parte al processo creativo. Questo è descritto come un’Annunciazione». Nel medesimo anno ecco La passeggiata, esposto a San Pietroburgo, opera in cui il simbolismo biblico è secondario, eppur presente: Marc e Bella sono i nuovi Adamo ed Eva che, attraverso il loro vincolo nuziale, possono ora ricomporre la divisione genesiaca. Terminiamo con quella che da molti viene ritenuto il suo capolavoro assoluto, la Crocifissione bianca, oggi conservata a Chicago: opera che parla anzitutto di Shoah, “sterminio” che dà occasione a Chagall di citare un male più grande, quello che riguarda ognuno di noi. Il 1938, anno in cui venne realizzata, è terribile per l’intera Europa, che con la tristemente celebre “Notte dei Cristalli” berlinese, lanciata dal ministro della propaganda nazista Goebbels, lasciò duemila morti, cifra purtroppo esigua se si pensa ai milioni che la seguiranno.. È in quell’anno che Marc dipinge l’opera in una Parigi occupata dai tedeschi che, in quanto ebreo, braccavano pure lui, che si trovò pertanto ad agire come i badhanim, quegli ebrei cioè che andavano tra la gente a rasserenarla. Come? Raccontando storie, mentre lui lo faceva col pennello. Prendendo spunto con ogni probabilità dalla “Crocifissione Gialla” di Gauguin (opera del 1889, che Chagall riproporrà in chiave personale nel 1943), sceglie il Cristo crocifisso come soggetto per rendere presente il dolore universale che sta toccando l’intera umanità, appunto. Il dipinto ha uno schema circolare che, partendo dalla croce, si dirama al resto della tela, sorta di vortice che coinvolge tutti.  Quella luce divina che illumina Gesù, “luce del Mondo” – eppure anzitutto ebreo, un rabbino illuminato (motivo per cui al classico perizoma gli preferisce il Tallìt, lo scialle ebraico della preghiera) – si riflette sull’umanità come grande occasione di salvezza. Questa prima opera d’arte interreligiosa – e la sua grandezza varrebbe già per questo – è dunque un gigantesco simbolo di speranza, come l’ha definita papa Francesco, che non ha esitato ad eleggerla a suo quadro preferito ancor prima di diventare pontefice. 

Chagall morirà alla veneranda età di 97 anni, nella sua residenza di Saint-Paul-de-Vence, luogo che ospita tuttora le sue spoglie mortali, all’interno di un’umile tomba sulla quale curiosi e ammiratori, come da tradizione ebraica, lasciano una pietra. Nel 1993, a fargli compagnia lo raggiungerà il corpo della seconda moglie. «Chagall – conclude meravigliosamente il già citato Piraina – lascerà questa terra il 28 marzo 1985, sazio di anni come i suoi amati patriarchi biblici, dopo aver molto visto, molto sentito e molto amato, rapito dal vento e librandosi “nel cielo infinito”, accompagnato da tutti i suoi personaggi, umani e animali, che aveva creato nella sua lunga e appassionata esistenza». 

 

Recita
Cristian Messina

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