La salvezza a colori. (La Bibbia secondo Giotto)



Testo della catechesi
Giotto, probabile diminutivo di Ambrogio, Biagio o Agnolo, nasce nel 1267 a Colle di Vespignano (oggi frazione di Vicchio), nella zona collinare del Mugello, vicino a Firenze. Dei genitori conosciamo solo il nome del padre, l’agricoltore Bondone, che quando il figlio ha circa dieci anni, un giorno come tanti lo porta a pascolare il gregge, ma quel giorno – così narra un’accreditata leggenda – sarà diverso da tutti gli altri (come accadde ad un altro celebre pastore, il re Davide!), perché viene notato dal più famoso pittore italiano, Cimabue, mentre sta scarabocchiando su una roccia.. l’artista non ha esitazione: lo vuole nella sua bottega! Il giovanotto non se lo fa ripetere due volte e lo segue. «Quello scarabocchio su un sasso – sottolinea lo storico dell’arte Stefano Zuffi – era l’inizio di una rivoluzione, una delle più decisive nell’arte occidentale: il passaggio dal simbolo alla realtà», e questo perché se «Cimabue considera la pittura come piano disteso in superficie, Giotto invece come una profondità da colmare.. sta nascendo la prospettiva, il sistema di “vedere oltre”, per andare al di là dello schermo». Intorno ai ventitre anni sposa la fiorentina Ciuta di Lapo del Pela, dalla quale avrà otto figli, equamente divisi in maschi e femmine. Qualche anno dopo è ad Assisi per dipingere le volte e parte della navata della basilica superiore di san Francesco, in cui il patrono d’Italia è sepolto da una sessantina d’anni. Nell’anno 1300 è invece a Roma per dipingere la scena che ritrae Bonifacio VIII nell’atto di indire, con la bolla Antiquorum habet fida relatio del 22 febbraio, il primo giubileo della storia cristiana, evento straordinario che fece accorrere nella città eterna (in qualità di pellegrini per lucrare l’indulgenza) il suo maestro Cimabue e Dante Alighieri, che in questo clima spirituale e culturale immagina il suo viaggio ultraterreno, proprio “durante” la Settimana Santa di quell’anno. Nello stesso anno con ogni probabilità si reca a Rimini, dove realizza uno splendido Crocifisso, attualmente conservato nel duomo. Tra il 1303 e il 1305 soggiorna a Padova, periodo in cui viene costruita e decorata la celebre Cappella degli Scrovegni. Forse è in questo momento che incontra Dante.. Nel 1327 si iscrive all’Arte dei Medici e degli Speziali di Firenze, la stessa corporazione di cui faceva parte Dante trent’anni prima. Nel frattempo vede “sistemarsi” diversi figli: Francesco diventa priore della chiesa di San Martino a Vespignano, paese natale del padre, Caterina e Chiara si sposano (la prima con un pittore), mentre Bice diventa terziaria francescana. Nel 1334 è nominato magister et gubernator dell’Opera di Santa Reparata, il cantiere della cattedrale di Firenze. Il 18 giugno getta le fondamenta per il campanile, cui darà il nome. Ma veniamo al focus del nostro tema: quale contributo biblico ci ha lasciato? Nel libro Giotto e Dante. Paradiso per due, il già citato Zuffi mette in parallelo le vite di questi due mostri sacri e precisa come il pittore sia «il primo artista a diventare davvero popolare, nel più pieno senso della parola». Per quanto riguarda la Cappella degli Scrovegni, l’autore non manca di esaltarne il valore: «sono fermamente convinto – scrive – che ogni cittadino italiano abbia il diritto, anzi, il dovere, di visitar(la).. almeno una volta nella vita», ma non esita neppure a polemizzare sull’attuale utilizzo del luogo: «E certamente di potersi fermare più a lungo dello striminzito quarto d’ora attualmente concesso ai visitatori». Come dargli torto? Ma Zuffi non risparmia nemmeno lo stesso artista: «Il primo miracolo compiuto da Cristo, tramutare l’acqua in vino – riferendosi ovviamente all’episodio di Cana – , doveva essere molto gradito a Giotto, frequentatore di feste e allegre compagnie». Ah.. Le opere legate al suo “percorso biblico”, se così possiamo dire, se si eccettua la Cappella degli Scrovegni non sono tantissime: cinque volte ritrae la Vergine, sette la Crocifissione, quattro personaggi del Nuovo Testamento (Pietro e Paolo, Giovanni Evangelista e Stefano) e, a parte poco altro, cinque episodi dell’Antico: la benedizione di Isacco e Giacobbe, Esaù respinto da Isacco, Giuseppe calato nel pozzo, il ritrovamento della coppa nel sacco di Beniamino e l’uccisione di Abele. Vien da sé che la nostra attenzione si concentrerà, com’era lecito aspettarsi, sul suo capolavoro: quella chiesetta di Padova commissionatagli da Enrico Scrovegni, ricchissimo banchiere che il 6 febbraio 1300 acquistò l’area dell’antica Arena romana da un certo Manfredo Dalesmanini, nobile decaduto. Il docente fanese Roberto Filippetti, che per molti anni ha insegnato Iconologia e Iconografia cristiana all’Università Europea di Roma, tra i tanti libri d’arte scritti si è cimentato ne Il Vangelo secondo Giotto, in cui sottolinea i tratti essenziali della Cappella degli Scrovegni, anzitutto mostrandocene la visione d’insieme: si tratta di una casa, ma allo stesso tempo di una strada orientata (con un fine dunque ben preciso), ma anche di una nave, quella di Pietro. Non è un caso che la Cappella sia ad una sola “navata”. Si tratta poi di una vera e propria Biblia pauperum – ecco il nostro punto d’interesse! – una “Bibbia per i poveri”. Ma oggi, è il caso di chiedersi, esiste ancora qualche analfabeta? Pochissimi, eppure chi entra nella Cappella degli Scrovegni, come in qualsiasi altro luogo artistico-religioso, è probabile che non disponga (più) delle necessarie “lenti simboliche” per apprezzarne la portata. Filippetti è tra quelli che, in tal senso, ci vengono in soccorso, ad esempio facendoci notare che quanto narrato visivamente è diviso in quattro tempi: se i primi tre (corrispondenti ai registri superiori) sono tutti a colori, l’ultimo è in bianco e nero. Non solo, il primo registro rappresenta una sorta di preistoria di Gesù, mentre il secondo riguarda i “trentatré” anni (ma su questa cifra ci sarebbe da discutere) della sua vita terrena. L’ultimo, infine, inerisce il Triduo Pasquale, l’Ascensione e la Pentecoste. Se volgiamo lo sguardo verso l’alto, invece, ecco dieci lobi o pianeti, i più importanti dei quali sono Maria col Bambino in braccio, simboleggiante la Luna, e il Gesù benedicente che rimanda al Sole, contornati da altri otto pianeti più piccoli: i sette grandi profeti dell’Antico Testamento e Giovanni Battista. A fare da sfondo a questa suggestiva volta ben 700 stelle, ognuna delle quali è formata da raggi ad otto punte. Evidentemente la ricorrenza del numero 8 rimanda all’infinito, all’eternità. Lo studioso di storia dell’arte Giuliano Pisani, nel suo libro La Cappella degli Scrovegni. La rivoluzione di Giotto, precisa anzitutto che nell’area acquistata da Enrico c’era una piccola cappella dell’XI secolo, in cui i cittadini erano soliti compiere un pellegrinaggio in occasione dell’Annunciazione a Maria, il 25 marzo. Non è un caso che proprio in questa data, nel 1303, la Cappella degli Scrovegni fu dedicata, mentre per l’inaugurazione ufficiale si dovette attendere due anni, naturalmente sempre il giorno dell’Annunciazione! È tuttora tradizione, tra l’altro, che in questo giorno, ogni anno, il vescovo della città celebri l’Eucarestia in questo luogo, attualmente consacrato a Santa Maria della Carità. Enrico era nono nonché ultimo figlio di Rinaldo, cui Dante riserverà un posto poco accogliente nel settimo cerchio dei dannati: «uno, che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco», si dice al canto XVII dell’Inferno (vv.64-70). Si sta parlando delle famiglie di usurai, e la scrofa azzurra è lo stemma degli Scrovegni. Piccola parentesi: dove sta davvero il peccato degli usurai? Quelli che oggi chiameremmo “strozzini” non solo guadagnano di fatto senza lavorare, ma soprattutto – fa notare il docente e pedagogista Franco Nembrini – lucrano sul tempo, che appartiene a Dio soltanto! Tornando al vescovo di Padova, al tempo fiorente cittadina di trentamila abitanti, fu molto chiaro, concesse allo Scrovegni di «edificare una piccola chiesa.. soltanto per sé, la moglie, la madre e la famiglia, cui non potesse accedere il popolo». Eppure, già quattro anni dopo, Enrico era riuscito a strappare a papa Benedetto XI l’autorizzazione a trasformarla in edificio aperto al pubblico: eravamo in Italia già allora.. Ma pur sempre cappella di famiglia restava, e un giorno avrebbe ospitato la sua tomba e quella della moglie, ragion per cui il banchiere chiamò ad abbellirla niente po’ po’ di meno che due fenomeni: lo scultore Giovanni Pisano e l’astro nascente Giotto. Cos’aveva quest’ultimo di così diverso dagli altri artisti? Da subito si impose come un «rivoluzionario – afferma il Pisani –, deciso a rompere gli schemi di una tradizione quasi millenaria.. con un linguaggio nuovo, che conferisse al sacro le forme reali, vive, della quotidianità». Lo stesso autore ci aiuta a capire la portata della svolta che Giotto fu capace di dettare, sottolineando come agli inizi del Trecento Padova divenne «la capitale della pittura», facendo accorrere svariati artisti per imparare e copiare: Paolo Uccello, Piero della Francesca e Michelangelo, solo per citare i più noti. È per questa ragione, sempre secondo lo storico dell’arte, che «questo magico luogo dell’arte universale diventa.. una grandiosa sintesi del pensiero filosofico e teologico medievale, che sa interpellare anche noi, uomini di un’epoca tanto diversa e lontana, con un linguaggio sorprendentemente attuale». Ma di quale linguaggio sta parlando? Anzitutto quello dei colori, portatori di una simbologia che forse non conosciamo più.. Tornando alla Sacra Scrittura, che Bibbia dipinge Giotto nella Cappella? Il suo racconto, anzitutto, si svolge secondo la visione di un teologo: se per Pisani si tratta del frate agostiniano Alberto da Padova, per Filippetti invece è il vescovo Altigrado Cattaneo. Più probabile forse la prima ipotesi, dato che la Cappella sembra avere come riferimento sant’Agostino e la sua “terapia dei contrari”, in cui è centrale il ruolo della giustizia, terrena e divina. Questa impostazione sfata tra l’altro diversi luoghi comuni arrivati fino ai giorni nostri, ad esempio il fatto che Enrico Scrovegni avesse voluto costruire la Cappella per espiare i peccati paterni, o la presunta influenza che Dante Alighieri avrebbe avuto su Giotto, il quale fu invece, come detto, guidato da un pensiero agostiniano, a differenza del divin poeta, che seguiva san Tommaso. La narrazione biblica dunque parte dall’alto e, per quanto riguarda gli episodi evangelici, segue la narrazione di Giovanni. Nella lunetta sull’arco trionfale Dio Padre invia l’arcangelo Gabriele per riscattare l’intera umanità. La vicenda si snoda quindi verso il basso a mo’ di spirale discendente, con sei riquadri in cui l’angelo fa visita a Gioacchino ed Anna, futuri genitori di Maria. In tal caso, tuttavia, Giotto si serve del vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo (cap. 2). Culmine di questo ciclo, relativo ai nonni materni di Dio, è il loro incontro alla Porta Aurea di Gerusalemme, la cui architettura evoca con ogni probabilità l’arco di Augusto e il ponte di Tiberio, i due monumenti principali di quella Rimini in cui Giotto era stato pochi anni prima, chiamato dalla comunità francescana della futura “capitale del turismo”, che con Padova condividerà anche e soprattutto la figura di uno tra i più illustri francescani, Antonio da Lisbona. Alla Porta Aurea, si diceva, mentre Gioacchino ed Anna si baciano – formando visivamente quell’“unica carne” (cfr. Gn 2,24) di genesiaca memoria – , l’artista introduce una donna avvolta da un mantello nero, prefigurazione della sofferenza che toccherà alla Madre del Signore. Nel registro superiore della parete nord ecco quindi la casa di Anna, dopo di che Maria viene presentata al Tempio. Siamo sempre nella narrazione dello Pseudo-Matteo (questa volta al capitolo 6), che ci porta, attraverso l’elezione di Giuseppe quale suo sposo – con l’episodio del ramoscello o bastone, poi ripreso da diversi artisti – alle nozze dei due. La storia prosegue sull’arco trionfale della Cappella, con l’Annunciazione che vede Gabriele da una parte e Maria dall’altra, entrambi inginocchiati. La Vergine, a braccia conserte e con un libro in mano, è in abito rosso ricamato d’oro, che da questo momento in poi non svestirà più! Il secondo registro della parete sud occupa invece le storie di Gesù, caratterizzato da adesso in poi dal suo nimbo “crucifero”. La famosissima adorazione dei Magi è griffata da una stella inusuale: si tratta con ogni probabilità della cometa di Halley, che l’artista aveva visto passare coi suoi occhi tra il settembre e l’ottobre del 1301. Nella stessa scena compaiono due dromedari, «i soli animali presenti nella Cappella.. – precisa il già citato Pisani – che Giotto non ha mai visto di persona e che deve necessariamente ritrarre con un po’ di fantasia.. il ciuffetto sulla testa e gli occhioni azzurri restano una (sua) simpatica invenzione». Drammatica è al contrario la scena che ritrae la strage degli innocenti, un cumulo di corpicini nudi sui quali grava lo sguardo lacrimante delle rispettive madri.. Il secondo registro della parete nord ci mostra quindi Gesù tra i dottori del Tempio, il suo battesimo, in cui è immerso completamente nudo nel Giordano, mentre un gruppetto di angeli gli reggono le vesti: una tunica rossa ad indicarne l’umanità e regalità, e il manto blu (colore che compare per la prima volta) ad evidenziarne la divinità. Non a caso il nuovo patto divino-umano è collegato da Giotto al primo quadrilobo (nell’architettura gotica quel motivo ornamentale costituito da “quattro lobi”, appunto, a croce, inscritti in un quadrato) che narra il Brit milà, il “patto della circoncisione” riportato in Genesi (17,10-12). Nell’affrescare la scena di Cana, «Giotto ritrae lo sposo (che il Pisani identifica col futuro evangelista Giovanni) a sinistra tra Gesù e Andrea; la sposa è al centro, tra la madre dello sposo e la Madonna». Quanto alla sposa, lo stesso autore afferma: «Chi sia questa giovane non è dato sapere, ma la Legenda aurea (l’opera medievale del vescovo Jacopo da Varazze, ndr) la identifica con Maria Maddalena, che dopo l’abbandono nel giorno delle nozze si sarebbe data a una vita dissipata, prima di essere redenta da Gesù». Dopo la morte e risurrezione di quest’ultimo la giovane avrebbe quindi seguito la Madonna per il resto della vita. Ma il gioco simbolico più interessante è numerologico, precisamente legato al 6, come sesto è il giorno dall’inizio della vita pubblica di Gesù, ma il sesto è anche e soprattutto quello in cui l’essere umano è creato. Sei sono le giare, in cui sant’Agostino vedrà simbolicamente adombrate le età del mondo: da Adamo a Noè, da questi ad Abramo, dal “padre dei credenti” al re Davide, quindi l’era della cattività babilonese, poi quella di Giovanni “il Battista”, infine la sesta, quella di Cristo. Il quadrilobo che precede le nozze di Cana vede Mosè nell’atto di far scaturire l’acqua dalla roccia, quella dell’Antica alleanza, pronta a diventare vino, quello di Cana, per l’appunto, della Nuova ed eterna alleanza. Il quadrilobo che narra la creazione dell’uomo ci mostra Dio Padre con le stesse sembianze di Gesù, momento che anticipa, attraverso lo sfiorarsi delle mani del Creatore e di Adamo, l’iconico gesto di Michelangelo nella Cappella Sistina. Nella cacciata dei mercanti dal Tempio, Gesù è decisamente umano: con la mano sinistra ne afferra uno, mentre la destra è levata nell’atto (quasi?) di sferrargli un pugno! Destra con la quale il malcapitato, invece, tenta di parare il colpo.. Siccome questa scena è anticipatrice della sconfitta di Satana – poiché Cristo sta per inaugurare il nuovo Tempio, cioè il suo stesso corpo –  , ecco che il quadrilobo corrispondente mostra l’arcangelo Michele infilare una lancia nell’occhio del nemico di Dio, come anticipato nel libro del profeta Daniele (cfr. 12,1-3) e descritto nell’Apocalisse (Ap 12,7-9). Con questa “scena horror” Giotto allude probabilmente alla cecità di coloro che, pur vedendo, non sanno ri-conoscere Cristo. Nell’arco trionfale della Cappella spicca poi Giuda, il cui tradimento traspare anzitutto dal cromatismo della scena: tiene nella mano sinistra (biblicamente quella “negativa”) il sacchetto con i trenta denari, avvolto completamente da un mantello giallo – il colore del tradimento, ritenuto cioè un falso oro, quello invece della divinità – con in testa un nimbo nero (l’opposto dell’aureola), come nero è il demone che alle sue spalle lo afferra. A questa scena, sul lato opposto dell’arco, fa da contraltare la Visitazione. Nel terzo registro della parete sud ecco le storie di Gesù: sia l’Ultima cena che la lavanda dei piedi hanno luogo sotto un gazebo, sormontato da un aquila che tiene nel becco un serpente, a simboleggiare la lotta tra il bene e il male che si sta svolgendo, il tutto mentre l’Iscariota è ancora facilmente distinguibile dal mantello giallo, stesso indumento che indossa pure nella celebre scena in cui bacia il suo Signore, indicato alle sue spalle da Caifa, davanti al quale Gesù si presenta poco dopo, all’interno di una stanza illuminata dalla torcia di un personaggio dalle vesti lacerate, probabilmente per via del parapiglia avvenuto qualche momento prima. Segue la scena del Cristo innocente deriso, proprio sotto il riquadro della strage degli innocenti. Nel terzo registro della parete nord abbiamo quindi l’ascesa al Golgota, cui segue la Crocifissione, collegata al quadrilobo col serpente di bronzo che, descritto nel libro dei Numeri (21,5-9), è evidente prefigurazione del Cristo crocifisso. Val la pena, a questo punto, soffermarsi su questa scena.. Gesù, morto, è avvolto dal volteggiare di dieci angeli, tre dei quali ne raccolgono il sangue, che fuoriesce dalle mani e dal costato. Il santo legno spezza nettamente in due la raffigurazione: alla sinistra di Cristo (ricordiamolo, biblicamente il lato “negativo”) i soldati si stanno giocando a sorte la sua tunica rossa; alla destra (per converso, il lato “positivo”) la Madre di Dio – in completo blu, il colore di quella divinità che ha accolto col suo fiat – è sorretta nello straziante dolore da Maria di Clèofa e da Giovanni. Interessante che tra i “cattivi” spicchi un’eccezione: quel centurione romano (cui la tradizione ha dato il nome di Longino) capace di comprendere davanti a chi si stia trovando davvero, ragion per cui è contraddistinto dall’aureola. Sotto la croce un’apertura rivela il teschio e le ossa di Adamo, quel primo essere umano che simboleggia ognuno di noi, riscattato dal sangue che gli cola dall’alto. Ci sia permesso di indugiare sulla veste che le guardie si stanno giocando a sorte: a Giotto piaceva rappresentare in vari modi il diavolo, spesso in modo ambiguo e sfuggente, per qualcuno, tuttavia, in questo caso è stato davvero sibillino, andando a nasconderlo addirittura – questa è la tesi di alcuni, fra i quali il nostro don Franco Mastrolonardo –  nelle pieghe della veste, proprio dentro l’apertura in cui si infila la testa. Che dire.. se le cose stanno davvero così, la fantasia non gli mancava! Passando al Cristo morto del riquadro successivo, è pianto da dieci angeli in cielo e da altrettante donne (visibili) in terra, su tutte Maria, la madre che, fin dal giorno della sua nascita, incrocerà lo sguardo del Figlio, questa volta dalle palpebre semichiuse.. Il centro della scena è occupato però non da Gesù, ma da Giovanni e dalle sue braccia allargate, postura simile che più tardi assumerà, in forma altrettanto plastica, uno dei due di Emmaus nel dipinto del Caravaggio conservato a Londra. La cosa più interessante tuttavia è forse un’altra, ovvero quella linea diagonale che dal cadavere del Figlio di Dio porta dritta dritta alla sommità di una rupe, sulla quale è piantato un albero, a prima vista rinsecchito ma, come fa ben notare il Pisani, che nasconde nelle punte dei suoi rami delle «gemme pronte a schiudersi», foriere di speranza che «la morte di Cristo è solo apparente», come conferma il quadrilobo corrispettivo, in cui il pesce inghiotte Giona, che vi resta «tre giorni e tre notti» (2,1). È il “terzo giorno” che Gesù risuscita da morte, e Giotto, seguendo il Vangelo di Giovanni, «fa della Maddalena l’unica testimone della Resurrezione». Se la destra del Risorto è occupata a tenere a distanza l’apostola apostolorum, la sinistra regge la bandiera con su scritto un esplicito “Victor mortis”. Quale quadrilobo aspettarsi per “commentare” l’evento più importante della storia? Una leone che, davanti ai suoi tre figli, risuscita quello nato già morto soffiandogli sul musetto, dopo che la madre lo aveva vegliato per tre giorni. Da dove trae quest’immagine Giotto? Dal Fisiologo, uno scritto composto tra il II e il IV secolo che diventerà il riferimento dei bestiari medievali. Quindi l’Ascensione mostra un Gesù in bianche vesti circondato dalla mandorla di luce, cui fanno da corona due gruppi di angeli che, scortando alcuni uomini, li fanno ascendere al cielo assieme a Cristo. Tale ascesa non poteva non essere affiancata da un quadrilobo riportante Elia che, sul celebre carro di fuoco, sparisce dalla vista del suo discepolo Eliseo (2Re 2,11-13). L’episodio della Pentecoste – che sottolinea l’assenza di Giuda Iscariota, suicidatosi nel “Campo di sangue” – ha invece il quadrilobo con JHWH che, sempre con le fattezze di Gesù, dona a Mosè le tavole della Legge. Pentecoste in cui l’unica figura rivolta verso lo spettatore è Pietro, quasi a dirci che adesso spetta a noi proseguire su quella strada.. Nel quarto registro, il più vicino al terreno, Giotto contrappone a destra e a sinistra della Cappella, vizi e virtù: «Fin qui Giotto – precisa il pluricitato Pisani – ha illustrato la Rivelazione divina: ora l’uomo sa ed è di fronte alla scelta del bene e del male, del suo destino terreno ed ultraterreno (è il concetto fondamentale di libero arbitrio)». I vizi tuttavia non sono quelli capitali, con l’eccezione di ira e invidia, ma il contrario delle virtù (cardinali e teologali), collocate proprio dalla parte opposta. Ecco allora fronteggiarsi – in una sorta di cammino terapeutico per chi vi entra – stoltezza e prudenza, incostanza e fortezza, ira e temperanza, ingiustizia e giustizia, sfiducia e fiducia, invidia e carità, disperazione e speranza. Chi sta per uscire dalla Cappella (oggi purtroppo si entra e si esce dalla stessa porta) rimane senza fiato: davanti gli si para il maestoso Giudizio Universale, la cui centralità spetta alla mandorla col Cristo Giudice, sopra il quale la trifora (simbolo della Trinità) permette alla luce naturale di entrare dall’esterno. Piccola parentesi: se per secoli si è pensato che le figure all’interno della mandorla rappresentassero i simboli dei quattro evangelisti (leone, bue, angelo e aquila), Giuliano Pisani ha fatto notare nel 2007 che si tratta invece di altro: di figure che, con la loro doppia natura umano-animale (orsa col pesce, centauro, aquila e leone), evocano anzitutto quella umano-divina del Figlio di Dio, ma sono anche la rappresentazione allegorica del battesimo, dell’immortalità, della vittoria sulla morte e della giustizia. Quest’ultima è infatti, secondo l’autore, il cuore della Cappella, la chiave per entrarci pienamente. Ai lati della grande finestra trilobata due angeli, uno per parte, con alle spalle i portali della Gerusalemme celeste, arrotolano il cielo, sorta di pergamena dello spazio-tempo in cui ha luogo la Storia della Salvezza. Si tratta di un richiamo al capitolo sesto dell’Apocalisse (6,14). Sotto la mandorla, proprio sopra la porta principale, il legno della croce, affianco alla quale Enrico Scrovegni genuflette mentre consegna alla Madonna un modellino della Cappella, sorretta da un religioso, che il Pisani identifica col teologo Alberto da Padova. In basso, dalle tombe escono tutti i defunti che, risvegliati dallo squillo delle trombe dei quattro angeli, attendono il giudizio. Se la sinistra sotto al Cristo è dominata da una concezione dell’Inferno ovviamente medievale (in cui Lucifero inghiotte persone, Giuda è impiccato e la corruzione della Chiesa non viene risparmiata), in quella destra troviamo la processione degli eletti. Chiudiamo allora con un vecchio libro di Giuseppe Fanciulli, pubblicato negli anni ’40 del secolo scorso, La novella di Giotto. Illustrata da Giotto: «Sognò, l’ultima notte, che uno dei suoi angeli, quello dipinto a Padova, nell’Adorazione dei Magi, era venuto a prenderlo. Spuntava l’alba dell’8 gennaio 1337; e Giotto se ne andava con l’Angelo, a raggiungere Dante». Il poeta e il pittore che si ricongiungono, “in cielo come in terra”: nel Palazzo del Bargello di Firenze, fa notare lo Zuffi, il 6 novembre 1315 sul primo viene emessa una condanna a morte, mentre «una ventina d’anni più tardi – ironia (amarissima!) della sorte – , sulle pareti della cappella del medesimo palazzo Giotto e i suoi assistenti inseriranno il ritratto di Dante fra i beati che affollano il Giudizio universale». Dov’è seppellito Giotto? In teoria nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, un privilegio singolarissimo, ma la sua tomba è in realtà dispersa, o meglio riutilizzata per altre sepolture già nel XV secolo. Nel 1972 però, nel corso di scavi archeologici, sotto il pavimento del Duomo fu rinvenuta la sepoltura di un uomo che lasciava pensare a Giotto, ma la certezza che sia proprio lui non ce l’abbiamo.. pazienza!   

   

       

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Cristian Messina

Musica di sottofondo
J.S.Bach. Fugue No.21. www.pixabay.com.

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