Ma quale gioco! (Bibbia e calcio)



Testo della catechesi
Che legame può mai esserci tra il libro più posseduto al mondo (anche se il meno letto!?) e lo sport più famoso? Forse il binomio Bibbia e calcio non è così azzardato. Proviamo a dimostrarlo..

Anzitutto, come e quando è nato il calcio? Se la paternità di questo sport è rivendicata da più parti e risale agli albori delle civiltà, è quella cinese ad offrircene il primo documento, risalente addirittura al 1697 a.C.! Fu infatti l’imperatore Huang-Ti ad inventare il Tsu-Chu, letteralmente “palla di cuoio spinta col piede”. Ma c’è una cosa ancora più antica del calcio.. il gol, affermava Vezio Melegari nel suo Manuale del gol del 1974, «O meglio: lo è nella sua espressione linguistica originaria, il termine inglese goal. Questa magica paroletta – scrisse – ha origini incerte: forse, quando nacque, voleva dire bastone, o palo.. Certamente i britannici la usavano per indicare un limite, un confine, di quelli che si segnano, appunto, con pali o paletti. Verso il 1530 – aggiunse – .. cominciò ad indicare una meta, un traguardo, un punto di arrivo». Per rimanere nel nostro binomio Bibbia e calcio, non è forse alla tanto agognata “terra promessa” che il gol ci rimanda? Ogni “rete” non nasconde simbolicamente quello “spazio” cui il nostro cuore infondo anela? Altra paternità è quella rivendicata dai francesi, che fanno risalire il calcio alla soule o choule, gioco che si disputava saltuariamente, spesso una sola volta l’anno, quando ancora la Francia si chiamava Gallia: «una specie di battaglia attorno a una palla, combattuta da intere popolazioni contro altre popolazioni. Tutto consisteva, infatti, nel far passare la palla sul territorio del villaggio avversario. – aggiunge Melegari – Non c’erano regole e.. ogni violenza era permessa». La soule, tuttavia, sarebbe stata portata in Gallia dai soldati di Giulio Cesare, come ebbe a scrivere Jules Rimet, presidente della FIFA (la federazione di calcio internazionale) dal 1921 al 1954, cui fu dedicata la Coppa del Mondo fino al 1970. Ad avere qualcosa da ridire sono quindi gli italiani, tanto da far scrivere all’enciclopedia Treccani, apparsa nel 1930: «Il gioco del calcio, caduto progressivamente in desuetudine dopo gli splendori del Rinascimento, è di tradizione italiana, e più in particolare fiorentina», poiché è a Firenze che il calcio fu regolamentato. Ma questo sport, come noi lo conosciamo, nasce tuttavia nel 1863 a Londra, con la Football Association of England, la quale optò per la più rivoluzionaria delle regole adottate fino a quel momento: proibire che i giocatori prendessero la palla con le mani! Ma la cosa non andò giù a chi praticava il Rugby, sport che prese il nome da una cittadina inglese in cui avvenne un episodio storico: «Durante una partita di football, un giocatore locale.. William Webb Ellis, afferrò la palla, se la mise sotto il braccio.. e andò a deporla in goal. (questa, prosegue l’autore) Era la risposta a quanti volevano che il football si giocasse soltanto con i piedi». Per gli americani il rugby football continuò ad essere il solo ed unico football, tant’è che il calcio lo chiamano soccer, deformazione volontaria della parola association, quella con cui gli inglesi identificano il calcio, appunto. Association «perché – è ancora Melegari a parlare – il calcio moderno ha preso avvio da un’associazione fondata a Londra in un’osteria, la Freemason’s Tavern», dove il 26 ottobre 1863 undici club fondarono la già citata “associazione” che, tra l’altro, bandiva definitivamente la violenza (?!) dai campi di gioco. Fu invece qualche anno prima, nel 1857, che la prima società ufficiale vide la luce: lo Sheffield. Il Football «entrò (quindi) nelle scuole sotto forma di dribbling game, ovvero “gioco della finta”», cosa che ci permette di rispondere ad una curiosità: perché si gioca in undici? A stabilirlo fu ancora il calcio inglese nel 1870 – prima infatti si giocava in numero variabile tra i 15 e i 27 (!?) – e le ipotesi del perché sono diverse, due su tutte: c’è chi sostiene che si copiò il cricket (che, a differenza del calcio, occupava la stagione estiva), a quel tempo lo sport più popolare in Inghilterra, e chi invece (ipotesi più probabile) lo collega al fatto che nei college le classi erano composte da dieci alunni più il loro professore, che diede vita, forse, al ruolo del portiere (prima inesistente), figura educativa cui spettava il compito di “proteggere” il gruppo.  

Ma torniamo al nostro binomio.. «A partire da “il coraggio, l’altruismo e la fantasia” sottolineati da Francesco De Gregori in una sua nota canzone, per Marco e Tobia Dal Corso la Bibbia e il gioco del calcio presentano (infatti) diversi tratti comuni»: queste sono le parole della quarta di copertina del libro Bibbia e calcio, in cui nel 2014 padre e figlio hanno azzardato l’accostamento, sulla scia del teologo brasiliano protestante Rubem Alves, per il quale «credere nella risurrezione dei corpi è credere che un corpo che gioca merita di vivere eternamente». E «l’eternità – scrive Cristiano Militello nella prefazione del suo primo libro sugli striscioni degli ultras – è il lasso di tempo che intercorre tra l’indicazione dei minuti di recupero da parte del quarto uomo e il fischio finale del direttore di gara, quando la tua squadra sta vincendo per uno a zero». Provocati dal testo dei Dal Corso, proviamo allora a vedere quanto la Sacra Scrittura e il gioco più famoso del mondo hanno in comune. Se gli autori confrontano «l’idea biblica di libertà con la gratuità del gioco, il sogno profetico con l’immaginazione sportiva (e) la “verità plurale” di Dio con il corpo meticcio di giocatori oriundi», noi proviamo ad “allargare il campo”, effettuando giganteschi balzi spaziotemporali tra il testo biblico e le suggestioni che ci offre questo sport.     

Ne Il calcio e l’isola che non c’è l’allenatore Ezio Glerean, che i più appassionati ricorderanno per i “miracoli” fatti con il suo Cittadella anni or sono, è stato capace di sottolineare anzitutto l’aspetto educativo dello sport, del calcio nella fattispecie. È passato alla storia il momento in cui, da mister del settore giovanile, ha deciso una buona volta di filmare non la partita dei suoi ragazzi, ma lo scempio che, nel frattempo, avveniva sugli spalti ad opera dei loro genitori! Arrivato il momento di rivedere la gara infatti, padri e madri si trovarono invece a dover ammirare il loro comportamento diseducativo: «l’incredulità aveva preso il sopravvento». Già, è di educazione che stiamo trattando, etimologicamente quel “tirar fuori”, quell’“allevare” che è proprio anche del pastore, figura chiave nella Sacra Scrittura: «(il pastore) – scrive Glerean – sa che il passo e i tempi sono dati dal gregge, lui deve solo accompagnarlo e lo fa ponendosi dietro.. sa (infatti) che se si mettesse lui davanti, ne perderebbe molte di pecore. Sa pure che non deve avere fretta, è quello il percorso». E prosegue: «un allenatore del settore giovanile, figura che io trovo più appropriato chiamare “maestro di gioco”» deve sapersi mettere da parte. Quell’isola che non c’è di cui parla, probabilmente è un punto d’arrivo, l’approdo cui tendere, insomma quella terra promessa – ancora lei – in cui si giocheranno solo partite “belle” e, soprattutto, in cui ognuno sarà vincitore. È il paradiso che desideriamo, anche quando giochiamo o parliamo di calcio, che a parer di chi scrive rimane una tra le più grandi metafore della vita..

Sempre per rimanere nell’ambito del “pastore”, nella premessa al suo libro intitolato Allenatori, Paolo Morelli scrive: «il trainer migliore è quello che ottiene i risultati attraverso un gioco gradevole. Non ci convincono né i perdenti di successo né quelli che vincono offrendo uno spettacolo deprimente.. (ma) il pericolo maggiore per un allenatore è mettersi in testa di poter incidere più dei giocatori. Il famoso delirio di onnipotenza. In quel caso è consigliabile chiamare subito l’ambulanza». È infondo di un’antica tendenza che stiamo parlando, quella che porta la creatura a volersi sostituire al Creatore, col tempo l’abbiamo chiamata peccato originale.. «Ma il cuore della funzione dell’allenatore – precisa il giornalista e scrittore pompeiano Giancristiano Desiderio – è.. fare innamorare i suoi giocatori del Bello che si manifesta nel gioco. L’allenatore è un Grande Seduttore. Se non lo è, ha sbagliato mestiere». Curioso che le parole Bello, Grande e Seduttore siano da lui scritte con la maiuscola: un seguace di Cristo non può non essere immediatamente rimandato a Lui. A dispetto del suo nome – contrazione di Giovanni (etimologicamente “Dio ha avuto misericordia”) e Cristiano (ovvero “di Cristo”) – chissà se l’autore è credente.. sia come sia, considera l’allenatore colui che «allena i corpi, ma prim’ancora le anime. Da ogni anima deve (infatti) trarre ciò che può dare». E conclude: «Scopo di un buon allenatore di calcio è quello di essere accusato dello stesso capo d’imputazione di Socrate: di diaphthéirai toùs neoùs, di “corrompere i giovani”». Meraviglioso accostamento, aggiungiamo noi – peraltro ben noto – , quello tra Socrate e Gesù: il primo morto, diciamo così, a causa della verità, il secondo in quanto Verità stessa. Il calcio, secondo l’autore è capace di salvare il mondo, nel senso che la salvezza di quest’ultimo consiste a suo parere (e noi ci accodiamo a lui) nell’iniziare ogni volta, nel ri-creare continuamente, proprio come fa Dio, che non si è accontentato di farlo una volta per tutte, ma non cessa di ri-generare ogni essere e cosa. «L’inizio – è ancora Desiderio a parlare – è la “lieta novella”: un bambino è nato fra noi. Il calcio, gioco per bambini che affascina gli adulti, è la quintessenza dell’inizio: ogni azione, ogni singolo passaggio, persino l’azione di contrasto, è un inizio».         

A proposito di bambini, nel 1990, proprio mentre l’Italia ospitava per la seconda volta i Mondiali, nel seminario romano il futuro don Franco Mastrolonardo – l’anima di Pregaudio –  era intento a scrivere una favola proprio sul calcio, gettando in questo modo un ponte tra la sua vita calciofila di prima e quella presbiterale di poi, entrambe, però, caratterizzate da un comune denominatore: la passione educativa per i giovani. La favola, infatti, aveva per protagonista un bambino: Scricciolo, il quale – così inizia la storia – dopo essere stato punito per aver fatto tardi, si sveglia l’indomani con un regalo: un pallone che.. parla! «Cosa ho fatto per meritarti?», gli chiede, «niente!.. il vero dono è sempre gratuito». «Perché sei venuto a casa mia?», prosegue Scricciolo. «Per ora posso dirti che sono venuto per insegnarti a giocare». «Ma.. io so già giocare a pallone..». «Forse tu saprai dare qualche calcio, ma non sai darmi ancora del tu». La favola prosegue fino al momento in cui il ragazzino chiede al suo amico pallone cosa sia un rito: «è ciò che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora da un’altra ora. È un rito la domenica di campionato.. Poi, per ricordarsi quel giorno, chi va alla partita, si conserva il biglietto come segno che ha partecipato a questo evento». Un giorno Ciccio, che già militava come portiere in una squadra di calcio, propose a Scricciolo di aggregarsi.. «Fra i tanti consigli che il pallone gli diede, una frase su tutte gli si stampò bene nella mente: “chi si innalza sarà abbassato, ma chi si abbassa sarà un grande calciatore”» (cfr. Lc 14,11). Ma dopo aver partecipato al primo allenamento, Scricciolo se ne tornò a casa e.. il pallone non c’era più: panico! E adesso? «Era forse necessario che se ne andasse?». «(Nel frattempo il giorno della partita) arriva.. Ora tutto si susseguirà come un rito sacrale. C’è anzitutto l’attesa.. (poi) Si entra nella seconda parte del rito. Il Mister leggerà i nomi di coloro che scenderanno in campo.. silenzio di tomba!». Ma la tanto attesa partita finisce male: 1-0 per gli avversari, e proprio a causa di un erroraccio di Scricciolo che, avvilito, esce dagli spogliatoi senza proferir parola.. ma il Mister lo raggiunge e, al momento opportuno, gli sussurra: «ti vogliamo bene». Scricciolo scoppia in lacrime. «Ma che significato ha quel pallone?». Sarà il Mister a svelarglielo: «È quel qualcosa che dà senso alla  nostra vita, è il mistero che si svela e ci fa capire cosa ci serve per realizzare noi stessi e la nostra vita.. Quel pallone.. sono io, i tuoi amici, Ciccio, le tue sconfitte.. Ora va e adempi la tua missione. Da quel giorno Scricciolo divenne un piccolo grande calciatore». 

Rimanendo nell’ambito educativo, il giornalista Darwin Pastorin, nato a San Paolo del Brasile e figlio di emigranti veronesi, nel 2002 ha scritto Lettera a mio figlio sul calcio in cui, rivolgendosi a ogni figlio, scrive: «il calcio, figlio mio, non è un gioco, è una metafora dell’esistenza, è una sottile guerra psicologica» in cui «i giocatori rappresentavano i numeri che portavano sulle spalle (oggi purtroppo non lo possiamo più affermare, ndr), quei numeri erano lo specchio dei loro vizi e delle loro virtù». «Il più grande campione che ho visto giocare – scrive nel capitolo intitolato Dieguito – è Diego Maradona. Credimi, figlio mio, non esisterà mai più, nei secoli dei secoli (!), un altro come lui. Ha fatto dell’imperfezione la perfezione.. ha trasformato un semplicissimo pallone di cuoio in uno scrigno di bellezza». Parlando invece dell’arbitro, da sempre il ruolo più ingrato che offre questo sport (eppure senza di lui non si potrebbe giocare..), lo descrive come «quell’uomo che corre, corre e corre senza mai poter toccare la palla. Segnare. E poter ricevere, almeno una volta, un applauso sincero. Un applauso lungo. Un applauso da far venire i brividi.. La sua, figlio mio, è una storia pirandelliana. Talmente assurda da non sembrare vera». Fa quindi un ultimo appello a chi questo meraviglioso sport lo gestisce: «questo calcio che si sta facendo del male da solo, cercando di modificare le regole (là dove c’è chi le regole non le rispetta neppure..), di trasformare una palla in una mostruosa macchina per produrre soldi, ma non felicità.. – e conclude – Fermatevi, vi prego, padroni del vapore.. Non rovinate questo giocattolo che ci fa sentire eterni, sbalorditi bambini. Non toglieteci questo miraggio». Il libro termina con un sogno, «un sogno che faccio spesso, figlio mio.. io e te.. improvvisamente siamo dentro uno stadio.. Tu e i figli dei miei amici formate una Nazionale. Una splendida Nazionale multirazziale, la Nazionale della Terra. Giocate contro gli Eroi di sempre. Gaetano Scirea mi fa ciao e Valentino Mazzola si sta già rimboccando le maniche.. Arbitri e guardalinee ricevono l’applauso della folla.. non vorrei svegliarmi.. è soltanto un sogno. Ma perché non provare a crederci? Perché non poter pensare, sin dalla prossima domenica, agli stadi in festa, senza più violenza.. (e) razzismo». 

Nel 2005 il già citato Desiderio ha pubblicato due spassosissimi testi, Platone e il calcio e Socrate in campo, in cui accosta tale sport alla filosofia. Nel primo esordisce con una citazione di Hans Georg Gadamer: «Chi non prende sul serio il gioco è un guastafeste».. insomma nulla è più serio del gioco. Non solo, il magistrato romano conosciuto come Plinio il Giovane, già nel I secolo d.C. riferiva dell’amico Spurinna che, a 77 anni, ancora giocava a calcio per non invecchiare. Tornando al filosofo tedesco, non esita a precisare in Verità e metodo che «il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si produce attraverso i giocatori», che in qualche modo sono trascesi dall’atto del giocare, arte che ci permette in altre parole di saper stare al gioco della vita, sulla quale la Bibbia ha probabilmente la Parola più autorevole, almeno per un cristiano. Parola che passa quindi a Nietzsche, il quale in Così parlò Zarathustra afferma: «Nell’uomo autentico si nasconde un bambino: che vuol giocare», e giocare a calcio, aggiunge Desiderio, «è tornare bambini». E «se non vi convertirete (al gioco?) e non diventerete come i bambini – sentenzia Gesù – , non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Beh, la posta in palio non è di poco conto..  

Ne Il catechismo del pallone il filosofo Corrado Gnerre esordisce con una citazione programmatica: «Il calcio è solo un gioco, ma un gioco che aiuta a ricordare all’uomo che la vita non è un gioco.. ma una cosa molto seria». Struttura quindi il suo saggio per punti, ognuno dei quali “dimostrerebbe” quanto il calcio sia uno sport “cattolico”. Un’opera un po’ apologetica, diciamolo subito, ma affascinante. Anzitutto, motivando il fatto che sia l’unico sport in cui è così frequente il pareggio, sottolinea come, «A differenza del calvinismo, nel cattolicesimo non solo Dio vuole tutti santi e quindi non decide parzialmente le sorti delle creature, ma il destino ultraterreno di ognuno è esito della libertà individuale». Poi cattolico perché «è perfino dannoso che i giocatori di una squadra siano tutti campioni», e cita a tal riguardo l’allora cardinal Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, il quale affermava: «Il calcio, in quanto gioco di squadra.. unisce attraverso l’obiettivo comune.. (dove) La libertà vive della regola, della disciplina che impara l’agire congiunto e lo scontro corretto.. e in questo modo arriva ad essere realmente libero». Gnerre cita quindi la Prima Lettera ai Corinzi (12,4-30), in cui san Paolo parla della diversità dei carismi, dei ministeri, di operazioni.. a sottolineare non solo il motto di Alexandre Dumas “uno per tutti, tutti per uno”, reso celebre dal romanzo I tre moschettieri, ma l’importanza della gerarchia: come lo è la Chiesa, così lo è il calcio. Come a dire: “ad ognuno il suo posto”. Altro punto che confermerebbe la cattolicità del calcio, sempre secondo l’autore, è il fatto che sia l’unico sport ad esprimere chiaramente l’identità culturale di un popolo, e a riguardo scomoda perfino Winston Churchill, il quale sosteneva che «Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre». Come dargli torto?! A supporto di questa tesi ecco The Italian job, libro del grande attaccante Gianluca Vialli (1964-2023) che, insieme al giornalista Gabriele Marcotti, nel 2007 si propose di «analizzare quello che agli occhi dei più sembra un gioco molto semplice». Come? Mettendo in luce le analogie, ma soprattutto le differenze, di quei Paesi in cui maggiormente il calcio ha un posto di rilievo, Italia e Inghilterra su tutti. Ma si tratta di uno sport semplice o no? Il football, come lo chiamano gli inglesi, o il soccer, per dirla con gli statunitensi, a parere di Jorge Valdano – campione del mondo nel 1986 con l’Argentina – «è un gioco bellissimo che i mediocri vogliono imbruttire nel nome del pragmatismo ed è un gioco primitivo che i rivoluzionari vogliono violare attraverso metodi ad ogni costo scientifici». Ah.. Che abbia ragione lui? Cosa intende con “gioco primitivo”? Lasciamo rispondere allo zoologo, etologo nonché conduttore britannico Desmond Morris il quale, nella sua opera monumentale La tribù del calcio (la cui prima edizione risale al 1981), riflettendo sul successo di questo sport, constatava che «Nella storia dell’umanità, l’evento seguito da più pubblico.. è stato un semplice gioco, una partita di calcio.. più di un miliardo di persone guarda in TV la finale dei Mondiali di calcio». Si domanda allora: «Se gli alieni dalla loro astronave vedessero una cosa del genere, che spiegazione potrebbero darsene? Cosa descriverebbero sul diario di bordo? Una sorta di danza sacra? Una battaglia rituale? O forse una cerimonia religiosa?». Già, cosa riporterebbero sul loro pianeta, ammesso ovviamente che ne esista uno? La domanda che si pone Morris è in sostanza la seguente: cos’è davvero il calcio? Apparentemente un gioco, che ha nella sua etimologia latina iǒcus il significato di “scherzo, burla”, ma anche uno sport, vocabolo inglese che fa la sua comparsa nel 1532 e deriva dall’abbreviazione del francese desport, nel senso di “svago, divertimento, ricreazione”, anch’essa risalente al latino deportare, “uscire dalla porta”, sottintendendo quella della città. Lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) sosteneva perfino che l’homo ludens precede l’homo faber: il gioco sarebbe in altri termini più antico della cultura. Consideriamo poi che, come ogni altra cosa, anche il calcio divide: chi lo ritiene una stupida perdita di tempo, da una parte, e chi lo assolutizza come unica ragione di vita, dall’altra. Se ha ragione la prima fazione, quella che ogni tanto si erge per affermare che si tratta unicamente di un gioco, come mai tanto successo? «Entrambe le fazioni – è sempre Morris a parlare – trascurano il fatto che, considerato obiettivamente, il calcio rappresenta uno dei comportamenti umani più strani dell’intera società moderna. – e aggiunge – Questo è stato il presupposto da cui è partita la mia ricerca. Da subito è risultato evidente che ogni centro di attività calcistica – ogni società – è organizzata come una piccola tribù (da cui il titolo dell’opera, ndr), con tanto di territorio, anziani, stregoni, eroi, lavoranti e membri di altro genere». L’etologo e zoologo enumera infatti quelli che secondo lui sono “i sette volti del calcio”: anzitutto il suo essere un rituale di caccia (il già citato Melegari faceva notare che «i tedeschi danno all’uomo-gol il nome di Torjäger.. ovvero “cacciatore di porte”»); in secondo luogo una battaglia stilizzata, sorta di guerra in miniatura, non a caso due tra i termini più utilizzati nel calcio nascondo dall’ambito militare: tattica, l’arte di “mettere in ordine” l’esercito, e strategia, il piano d’azione a lungo termine che mira al raggiungimento di un obiettivo preciso; quindi una dimostrazione di status; poi una cerimonia religiosa: «L’erba del campo di calcio è spesso indicato come il “suolo sacro” e lo stadio come il “tempio”, i giocatori più famosi sono “venerati”.. e considerati “giovani dei”; la sala riunioni dei dirigenti è il “sancta sanctorum”, superstizioni e riti magici sono all’ordine del giorno e sugli spalti le masse di ultrà cantano all’unisono cori che a parte la loro volgarità non sono affatto diversi dagli inni sacri cantati da una corale. In effetti – sottolinea in modo del tutto pertinente – alcuni di questi sono proprio inni, presi direttamente dai libretti dalla chiesa». E conclude: «per una buona parte della popolazione (le partite di calcio) hanno effettivamente rimpiazzato le funzioni e le feste di una volta». Insomma, continuare a pensare che tutto ciò sia “solamente un gioco” è come minimo fuorviante. A queste cinque sfaccettature si aggiungono il calcio come droga sociale, business e rappresentazione teatrale. Tornando alla domanda che ci pone Morris, tentiamo allora, sulla sua scia, di semplificarne la risposta, che è triplice: il calcio è anzitutto una guerra normata, alla battaglia sono infatti state inserite delle regole “per non farsi male”: il sociologo Alessandro Dal Lago (1947-2022) evidenzia infatti che se i giocatori in campo si fronteggiano come fossero due eserciti, sugli spalti tale “violenza” viene ritualizzata (Descrizione di una battaglia), facendo di questo sport anche una paraliturgia religiosa. Sentenzia pertanto Giancristiano Desiderio nel suo primo libro: «Se il calcio è la metafora della vita e se la vita è la metafora del calcio è perché in entrambi i campi vige la legge della lotta – e aggiunge – Ma la lotta o confronto è solo la conseguenza immediata del vero carattere che accomuna calcio e vita: la pluralità. Senza pluralità non c’è vita umana, non c’è linguaggio, dialogo, azione». Ma «chi pretende di possedere il gioco (fuor di metafora ogni totalitarismo) – tuona questa volta nel secondo testo – e di sapere in modo assoluto e definitivo cosa sia il gioco (qui la critica è ad ogni fondamentalismo, religioso e non, ovvero a chiunque creda di avere la “verità in tasca”, e smetta di cercarla), mostra solo di non saper giocare e di essere un pericolo per sé e per la partita». È lo stesso autore a dirci infine che il calcio è un’opera d’arte dinamica: «una bella azione o un bel gol (mettono) al mondo una rappresentazione che è apprezzata dal pubblico come un’opera compiuta in sé». E aggiunge: «Il gioco è diventato uno spettacolo. La sua vera natura si mostra (infatti solo) agli occhi di chi guarda». Quest’ultimo tipo di risposta conferma il fatto che spesso i calciofili si dividano in “risultatisti” ed esteti: se i primi sono unicamente interessati al risultato – l’importante è vincere la battaglia, non importa in che modo – i secondi pretendono che ciò accada nella forma del bello – che l’arte ricerca –, sottolineano cioè il come avviene la vittoria, perché anch’essi, ovviamente, mirano a quello.    

Nell’introduzione alla sua biografia intitolata non a caso La bellezza non ha prezzo, il celebre allenatore Zdeněk Zeman precisa immediatamente: «Ho sempre seguito la bellezza nelle varie forme che la vita può offrire.. Tutto ciò che ho fatto è stato mosso dal concetto di bellezza e dal sentirmi appagato nel trovarla o anche solo nel cercarla.. Mettendo sempre da parte la mera convenienza, l’aspetto utilitaristico, il mediocre tornaconto, il quieto vivere». 

Tornando alle sottolineature di Morris, nel suo Storia del calcio il docente francese Paul Dietschy afferma: «l’area sportiva potrebbe essere descritta come un tempio verso il quale convergono i fedeli/tifosi abbigliati con costumi rituali. Questi ultimi parteciperebbero al grande sacrificio della partita di cui arbitri e giocatori sarebbero allo stesso tempo gli officianti e le vittime», e prosegue: «Ma il calcio ha perso del tutto il rapporto con la trascendenza o l’ordine cosmico. Certo, a volte i giocatori si fanno il segno della croce  entrando in campo o tendono i palmi delle mani pregando Allah, ma non fanno quei gesti che a titolo individuale, sperando che il loro Dio li aiuti a realizzare una prestazione di prim’ordine e li protegga dal farsi male, non certo per legare la partita ad un rituale sacro». A proposito del binomio calcio e superstizione, nella prefazione del già citato Il catechismo del pallone, Giovanni Trapattoni afferma: «Giocando al calcio e poi allenando tante squadre.. ho sempre pensato che questo sport potesse.. insegnare molto. Se è lo sport più amato del mondo, un motivo deve pur esserci. Ho infatti sempre pensato che nulla accade per caso. È un insegnamento che mi porto dietro.. dalla mia storia, dalla fede dei miei genitori, dalla mia terra». Storia che, forse non tutti sanno, comprende una sorella suora, Romilda, morta nel 2013, che – è ancora lui a parlare – «A proposito della benedetta.. acqua santa.. soleva dirmi: “Guarda, Gianni, che questa ti fortifica.. ovviamente non ti assicura la vittoria”.. parole come queste.. sono il segno manifesto di quanto ognuno di noi.. abbia bisogno di affidarsi.. ad un’Appartenenza più grande.. con la “A” maiuscola».   

Ma torniamo allo storico del calcio Paul Dietschy, il quale ci ricorda che in passato «i giochi con il pallone praticati in Francia e in Inghilterra.. (spesso avevano luogo) durante i periodi sacri – attorno a Natale, nel giorno dei Re o nel ciclo di Carnevale, in particolare in occasione del Martedì Grasso. Lo stesso accadeva a Firenze alla fine del XV secolo». A parer suo è con l’ippodromo – nello specifico le corse dei carri e dei cavalli che si svolgevano al Circo Massimo di Roma – che si può stabilire l’analogia più prossima tra il pallone e le competizioni antiche. Ecco dove nasce l’invito a darsi all’ippica! Ovviamente stiamo scherzando..

Anche l’antropologo francese Marc Augé, noto ai più per aver introdotto il neologismo nonluogo (indicante quegli spazi non identitari, né relazionali, né tantomeno storici) nel 2016 si è interessato a questo sport realizzando un piccolo saggio intitolato Football, Il calcio come fenomeno religioso. In esso afferma: «Al termine di ricerche ancora parziali, gli etnologi esiterebbero a formulare la loro ipotesi centrale: i Terrestri praticano una religione unica e senza dèi». Soffermandosi poi sulle diverse origini delle squadre, sottolinea come anche «Le chiese.. (siano) all’origine di un certo numero di club calcistici, poiché i sacerdoti più giovani avevano praticato lo sport e credevano nelle sue virtù morali e fisiche. Due tra i più vecchi club inglesi professionistici, Aston Villa e Bolton Wanderers, hanno un’origine di questo tipo». La sua tesi arriva in pratica a sostenere che il calcio funzioni come un fenomeno religioso e, nell’ultimo capitolo, scrive: «almeno in Occidente.. La questione del senso ha ancora la meglio su quella della salvezza.. (dato che) La maggior parte degli occidentali attinge quotidianamente la forza di vivere da quella che definirei volentieri la sacralità laica. La Rivoluzione francese.. aveva creduto che servissero degli dèi per fare una religione. La storia ci mostra progressivamente.. che non è affatto così». E prosegue: «(negli stadi) si compiono ancora dei grandi rituali, dei gesti ripetitivi che sono anche delle iniziazioni.. (perché) Il rituale ripete ma inaugura, dischiude l’attesa». Ma ciò che fa più riflettere è l’affermazione che siamo chiamati a rileggere in forma di domanda: «È probabilmente caratteristico di un’epoca e di una società che questi frammenti di tempo (ovvero le partite di calcio) bastino alla nostra felicità». È davvero così? Riesce questo sport a surrogare il nostro desiderio di infinito? Forse lo fa nel breve periodo, ma sul lungo ci sia permesso almeno di dubitare. La conclusione del saggio è ancor più lapidaria: «Forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa». 

Tra le tante suggestioni consegnateci da Augé val la pena soffermarsi almeno su una: gli stadi, a suo dire sorta di nuove chiese, alcune delle quali purtroppo, almeno in Italia – segno dei tempi! – stanno cambiando “patrono”, come il San Paolo di Napoli, diventato Maradona. Se al San Vito di Cosenza si è aggiunto il nome del bomber rossoblù Gigi Marulla e al San Filippo di Messina quello del grande mister Franco Scoglio, resiste per ora il San Nicola di Bari, patrono del capoluogo pugliese. Fanno storia a sé San Siro e il Sant’Elia, impianti così denominati perché situati negli omonimi quartieri di Milano e Cagliari. In Inghilterra invece abbiamo il St. James’ Park, lo stadio del Newcastle dedicato a San Giacomo, oltre al Southampton che dal 2001 gioca al St. Mary’s Stadium e il Birmingham City che dal 1906 ha dedicato le “mura amiche” a Sant’Andrea. Se il patronato pallonaro più celebre di Spagna è il San Mamés di Bilbao, quello francese è legato invece al nome di Saint Symphorien, impianto del Metz. Nel 2022 il giornalista de La Gazzetta dello Sport Paolo Avanti ha pubblicato l’interessante volumetto Stadi del mondo, in cui ha messo a frutto la sua passione per gli impianti calcistici, selezionandoli in quelli da vedere almeno una volta, quelli mondiali, quelli che non esistono più, gli extracalcistici e i più particolari, riservando infine un capitolo al “signore degli stadi”, l’architetto scozzese Archibald Leitch, l’inventore dello stadio moderno. Quel che più ci interessa è tuttavia la sua funzione parareligiosa: non è un caso che, solo per fare un esempio, all’esterno dello stadio Riviera delle Palme, in cui gioca la Sambenedettese, giganteggi la scritta “Il tempio del tifo”. Quel tempio in cui, diversamente da quanto avveniva in quello biblico di Gerusalemme, ci si reca per i più disparati motivi, tra i quali celebrare la propria “fede” (biblicamente classificabile come idolatrica) e assistere ad uno spettacolo, la cui violenza – rispetto a quanto avveniva ad esempio al Colosseo, che di molti stadi richiama tra l’altro la forma ovale – è stata ritualizzata e regolamentata, salvo poi vederla sfociare in atti deprecabili commessi dai tanto discussi ultras, parola quest’ultima derivata dal francese ultra-royaliste, “ultra realista”, dal latino ultra, “oltre, più in là”, i sostenitori più “irriducibili” della monarchia assoluta durante la Seconda Restaurazione (1815-1830). Se del fenomeno si è detto e scritto tanto, uno dei testi più interessanti rimane Ultrà, psicologia del tifoso violento, in cui il docente di Psicologia clinica all’Università di Padova Alessandro Salvini, nel 2004 scriveva: «Lo sforzo dello sport di controllare in modo simbolico e rituale l’aggressività competitiva, culminerà in un’ideologia pedagogica di cui il barone de Coubertin fondando le olimpiadi moderne, sarà il massimo interprete»; sottolineando poi come «Etica protestante da un lato e filosofia socialdarwinista dall’altro, costituiranno il fondamento morale dell’agonismo moderno: parabola e concezione dell’esistenza, eroica e selettiva, generosa di sé e morigerata, corretta e affidabile nel perseguire la vittoria, ma comunque fondata sulla necessità di trasformare l’altro in un “avversario”; qualcuno da umiliare per l’affermazione di sé e la stima sociale». La suggestione è carica: nello sport è di avversario che si parla, letteralmente “colui che mi è volto contro” – ovvero l’elemento necessario per un confronto che è anzitutto con me stesso! –  e mai di nemico. È nella logica continua di opposizione tra attacco e difesa «che l’avversario – sostiene il già citato Desiderio – diventa per l’altra squadra (ossia per il suo avversario) il negativo da superare.. Le due squadre stanno insieme e cadono insieme. Ecco perché l’avversario è l’altro ma non è il Nemico». Scusate, non si sta forse parlando della vita, in cui ci “giochiamo” il vero volto dell’altro, del fratello e del compagno? Eppure, nel calcio come nella vita, amare l’altro è difficile, tant’è che la violenza, purtroppo, fa parte del “gioco”, e se la cosa può scandalizzarci, è perché è la violenza in quanto tale che ci disturba. Violenza di cui non è esente neppure la Bibbia, che, parlando oltre che di Dio anche dell’uomo, non può non presentarla, talvolta in modo davvero cruento, nonostante la liturgia sia ben attenta a sottrarcela dagli occhi (o meglio dagli orecchi) per non scandalizzare le anime più sensibili. Potremmo in tal senso paragonare gli ultras agli zeloti, coloro per i quali, nella Sacra Scrittura, era necessario rivoltarsi contro l’occupante pagano (cfr. At 5,35ss), facendo uso anche della violenza se necessario, contro i presunti eretici. La radice della parola greca zèlos traduce infatti “essere caldo, andare in ebollizione”, rende infatti l’ebraico qin’ah, la cui radice designa il rossore che contraddistingue l’uomo passionale. Tornando per un attimo a De Coubertin, il plurimenzionato Desiderio tiene a precisare che «il senso autentico del (suo) motto.. è: partecipare è vincere.. Il modello calcistico della vittoria a tutti i costi, del successo immediato, del risultato per il risultato ha prodotto (infatti) un oblio del senso dell’essere del calcio: il Gioco». Un ultimo elemento degno di nota: ciò che contraddistingue il vero ultrà è il suo attaccamento “alla maglia” anche e soprattutto in trasferta, non a caso il motto di una delle più note tifoserie pugliesi è “del Bari seguaci”. “Ti seguirò ovunque andrai” o “non sarai mai sola” sono infatti gli slogan più gettonati del mondo ultrà. È interessante notare allora, sempre per rimanere nel parallelismo biblico, che i cristiani, prima ancora di essere definiti tali erano chiamati “quelli della Via” (cfr. At 9,2), ovvero della strada tracciata dal maestro Gesù. È lui che seguivano: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada» gli dice lo scriba nel Vangelo di Matteo (8,19). Il dilemma vitale è infondo sempre lo stesso: chi seguire?       

Ultras che, non dimentichiamolo, sono capaci non solo di mettersi in moto per opere di beneficienza di ogni tipo (aspetto sul quale purtroppo i media tacciono..) ma anche di un’ironia sopraffina, come ha testimoniato più volte il comico Cristiano Militello, il quale, nei diversi libri intitolati simpaticamente Giulietta è ‘na zoccola (richiamo ad uno striscione esposto dai tifosi del Napoli contro gli acerrimi avversari del Verona) ci ricorda che gli stessi partenopei scrissero fuori dal cimitero di Poggioreale, all’indomani del primo scudetto targato 1987, “Nun sapete che vi siete persi”, o che, come scrissero i salernitani agli avellinesi nella stagione 2003/04 parafrasando il Vangelo di Matteo (20,16), “Gli ultimi saranno.. irpini”. Se i cosentini accolsero i tifosi di Reggio Calabria nel ’95/96 con un bel “Dio non salvi la Reggina”, i romanisti dieci anni dopo si spinsero oltre: “E l’ottavo giorno Dio creò Totti” (cfr. Gn 2,1-3). Mentre sul muro di un campetto di Bari leggiamo “L’uomo nasce libero.. la vita lo rende stopper!”, su quello della clinica in cui era ricoverato Maradona (1960-2020) i supporters del Boca Juniors scrissero “Dio, guarisci l’altro dio”. Come non chiudere allora con la curva del Milan che, riferendosi al loro attaccante argentino, in una trasferta di Bologna esposero un bel “Sia lodato Gesù Crespo”?! Insomma, calcio e religione non di rado vanno a braccetto, talvolta però in modo drammatico, come testimoniato dal giornalista bolognese Matteo Marani qualche anno fa nel suo Dallo scudetto ad Auschwitz, facendo conoscere la storia di Arpad Weisz, l’allenatore più giovane, coi suoi 34 anni, ad aver vinto uno scudetto, capace tra l’altro di innovare il calcio italiano come pochi. Ma «il momento più bello della sua vita.. dista appena nove mesi dalla fuga dall’Italia, meno di quattro anni dall’inferno di Auschwitz, meno di sei mesi dalla fine di tutto»: il giocatore ungherese, poi allenatore di varie squadre tra le quali il mitico Bologna degli anni ’30, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, il 2 agosto 1942 venne arrestato dalla Gestapo e il 31 gennaio di due anni dopo troverà la morte ad Auschwitz. Aveva 47 anni.   

Religione, ancora, chiamata in causa dal giornalista de La Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi e da don Marco Pozza, che il 2 gennaio 2021 hanno intervistato papa Francesco, dando vita a un documento che considerano un’“Enciclica laica” sullo sport. Esprimendosi sulle molteplici sfaccettature di questo fenomeno, il discendente petrino ha toccato diversi temi, partendo da quello della lealtà: «Prendere le scorciatoie – ha detto il pontefice – è una delle tentazioni con cui spesso abbiamo a che fare nella vita.. Penso.. a chi va in montagna: la tentazione di cercare scorciatoie per giungere prima alla vetta.. nasconde inevitabilmente un lato tragico.. Il gioco e lo sport in genere sono belli quando si rispettano le regole». A parlato poi dell’impegno e, richiamandosi alla parabola dei talenti (Mt 25,14-30), ha affermato: «Nello sport non basta avere talento per vincere: occorre custodirlo, plasmarlo, allenarlo, viverlo come l’occasione per inseguire e manifestare il meglio di noi. La parabola di Matteo ci insegna che Gesù è un allenatore esigente: se sotterri il talento, non fai più parte della sua squadra. Dunque avere talento è un privilegio ma anche e soprattutto una responsabilità». Quanto al sacrificio, termine che lo sport condivide con la religione, così si è espresso: «A nessuno piace fare fatica.. Se, però, nella fatica riesci a trovare un significato, allora il suo giogo si fa più lieve. L’atleta è un po’ come il santo: conosce la fatica ma non gli pesa perché, nella fatica, è capace di intravedere oltre.. senza motivazione, infatti, non si può affrontare il sacrificio.. (che) richiede disciplina perché possa diventare successo». Alla domanda sullo spirito di gruppo ha risposto: «nessuno si salva da solo.. (ma) solamente come squadra.. Gli sport di squadra assomigliano ad un’orchestra: ciascuno dà il meglio di sé per quanto gli compete sotto la sapiente direzione del maestro d’orchestra». Sport che, ha ricordato, è anche ascesi: «(la quale) è un po’ come abitare nelle periferie: ti permette di vedere e comprendere meglio il centro: estraniandosi dal mondo per immergersi ancora meglio. Nell’antichità il soldato era un asceta: infatti è l’esercizio a rendere asceti (la parola deriva dal greco áskēsis, “esercizio”, ndr )». Ma lo sport in generale e il calcio nella fattispecie è anche di riscatto che trattano: «è per questo che lo sport è pieno di gente che, col sudore della fronte, ha battuto chi era nato con il talento in tasca. I poveri hanno sete di riscatto: offri loro un libro, un paio di scarpette, una palla e si mostrano capaci di gesta impensabili». «Da bambino, – prosegue il discendente di Pietro – con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasòmetro. Ho memoria, in modo particolare, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse.. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri.. Io non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un “pata dura”, letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta.. per me una grande scuola. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte». Ci sia permesso a questo punto un azzardato paragone biblico: «dopo che il paradiso è stato chiuso, – si legge nel Dizionario di Teologia Biblica curato dal gesuita francese Xavier Leon Dufour (1912-2007) – l’uomo non comunica più familiarmente con Dio. È il culto a stabilire una relazione tra i due mondi, quello divino e quello terreno: così Giacobbe aveva riconosciuto in Bethel “la porta del cielo” (Gn 28,17)».. e se, inconsciamente, i calciofili intravvedessero in quella da calcio un tentativo profano di pre-gustare un assaggio di paradiso?   

Torniamo a papa Francesco: «Lo sport.. è divertimento: penso alle coreografie negli stadi di calcio.. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di “appartenere” ad una squadra. “Appartenere” è ammettere che da soli non è così bello vivere.. È curioso, poi, che qualcuno leghi la memoria di qualcosa con lo sport.. L’anno.. dei Mondiali.. è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di “fede sportiva”». Interrogato sul ruolo del Mister, afferma: «Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore.. le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravvedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare.. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia». Alla domanda se sia utile un sano agonismo, il papa risponde: «Mi vengono in mente due passaggi scritti da san Paolo.. Il primo: “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?” (1Cor 9,24).. È un bellissimo invito a.. non guardare il mondo dalla finestra di casa. Il secondo passaggio.. è quando Paolo, parlando all’amico Filemone, è come se gli confidasse il suo segreto: “Corro perché conquistato” (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: c’è sempre una qualche bellezza che, come una calamita, attrae a sé chi intraprende una sfida. S’inizia sempre perché c’è qualcosa che ci affascina». «Ad ognuno – conclude il vescovo di Roma – Dio ha dato un campo, un pezzo di terra nel quale giocarsi la vita: senza allenamento, però, anche il più talentuoso rimane una schiappa (si dice così?). Ecco: per me allenarmi.. è chiedere ogni giorno a Dio “Che cosa vuoi che io faccia, che cosa vuoi della mia vita? Domandare a Gesù, confrontarsi con Lui come con un allenatore». 

Che dire poi, passando alla simbologia, di quella adottata da alcune squadre? Solo per rimanere in ambito italiano, se le due milanesi hanno il diavolo e il serpente (rimando più o meno esplicito, anche se probabilmente non voluto, a Genesi 3), la più antica d’Italia (il Genoa) e il Perugia, hanno il grifone, animale leggendario che, col corpo di leone e la testa d’aquila, ha un rimando cristologico, velato fino a un certo punto: Gesù è infatti Dio (animale “celeste”) fattosi uomo (animale “terrestre”) affinché noi diventassimo come Lui! La sua chiamata è pertanto per ciascun essere umano, e in ogni momento, può giungere infatti anche in extremis o, per dirla ancora una volta in gergo calcistico, in “zona Cesarini”, «locuzione nata il 13 dicembre 1931 a Torino, in occasione di un incontro vinto dall’Italia sull’Ungheria per 3-2. La rete decisiva venne realizzata.. da Renato Cesarini, l’estroso attaccante italo-argentino.. che giocava nella Juventus (di cui in seguito fu anche allenatore)», che a trenta secondi dalla fine della partita insaccò alla sinistra del portiere. 

Tornando agli ultras, se il musicista e musicologo, docente universitario e pedagogo varesino Gino Stefani (1929-2019) ha ricoperto un ruolo di prim’ordine nel post-concilio nell’ambito della musica liturgica – chi va a Messa ed è più attempato ha senz’altro nelle orecchie i vari Noi canteremo gloria a te, Mistero della cena, Quanta sete nel mio cuore e Te lodiamo, o Trinità – uno dei suoi pezzi più celebri rimane legato ai funerali: Io credo risorgerò, testo che, scritto nel 1966, ricalca il libro di Giobbe (19,25-27). Liturgista e semiotico, docente e terapista, uomo di scienza e credente, il miracolo più grosso da lui compiuto è stato tuttavia il fatto di esser riuscito a farlo diventare uno degli inni più amati dalla curva del Verona, tra le più facinorose del panorama italiano e non solo. Sentire lo spicchio del Bentegodi che tuona «Io credo: risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore! Prima che io nascessi, mio Dio, Tu mi conosci.. hai vinto, mi hai liberato, dalle tenebre eterne.. rimani in me, Signore, rimani oltre la morte..» è letteralmente da brividi!  Interessante inoltre che, tra le parole più gettonate dei cori ultrà figurino amore, morte, combattere, sempre, mai, seguire, insieme, fedeltà e via dicendo.. sicuramente tra le più frequenti anche delle quasi ottocentomila che compongono la Bibbia, si calcola infatti che, a seconda delle lingue in cui viene tradotta, il numero di vocaboli oscilli tra 773.692 e 783.137.   

Concludiamo allora con le parole ormai abusate del filosofo Giancristiano Desiderio: «Il calcio è un esercizio spirituale se siamo disposti a riconoscere che in gioco con il pallone c’è anche la nostra esperienza del mondo.. Giocare senza conoscere se stessi e i propri limiti (in fin dei conti accettare di essere creature e non il Creatore! ndr).. è non umano. Ecco perché comprendere l’esperienza del gioco del calcio aiuta a capire la condizione umana». Se la Sacra Scrittura è quel grande libro attraverso il quale Dio ci educa – letteralmente ci “tira fuori” dalla nostra condizione di peccatori chiamandoci ad essere “come Lui” (seppure non Lui) – , il gioco del calcio cerca tra alti e bassi di fare altrettanto, perché «Giocare significa educarsi.. (ma) anche.. educare».

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Arrangiamento di Gabriele Fabbri

Il mio amico pallone di Francesco Mastrolonardo è scaricabile gratuitamente in formato digitale su Amazon (Kindle)

Scarica la nostra App su