"Sulla tua rete getterò la Parola". (Bibbia e Internet)



Testo della catechesi
Mentre si trovava «presso il lago di Genèsaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio – il Vangelo di Luca al capitolo quinto ci dice che Gesù – , vide due barche ormeggiate alla sponda», dato che i pescatori proprietari delle stesse «erano scesi e lavavano le reti». Salito su una delle due, quella di Simone, chiede al futuro capo degli apostoli di farla diventare il primo ambone del Nuovo Testamento: da lì iniziò infatti a parlare.. Quand’ebbe finito esortò il proprietario dell’insolito ambone acquatico a tornare al lavoro: stavolta avrebbero pescato, e di brutto! Il pescatore di Cafarnao obbedì senza conoscerlo: «Maestro (ma l’originale greco ha epistátēs, “chi sta sopra”, “capo”), abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Ne valse la pena (e anche la cena!), dato che le reti rischiavano di schiantarsi.. «Signore – proseguì il futuro primo papa della storia – , allontanati da me che sono un peccatore», sentendosi dire dal maestro di non avere paura, perché da quel momento in poi avrebbe dovuto «catturare uomini vivi!», e anche in questo caso è più interessante l’originale greco, che dice zogreo, il quale traduce non solo “catturare”, ma “catturare vivo”, o “tenere in vita”, “risparmiare”. L’allusione è evidente: Gesù gli sta dicendo che il suo compito è diventato quello di parlare a tutti di una salvezza capace di riscattare dal peccato. Delle due barche il gruppetto di pescatori non se ne fece più nulla, infatti «lasciarono tutto e.. seguirono» colui che, con tanta autorità e semplicità, aveva chiesto loro di provarci ancora.

Perché abbiamo iniziato col Vangelo di Luca? «Contemporanei di Steve Jobs e ascoltatori delle storie di Adamo ed Eva? – si domanda Lidia Maggi nell’introduzione di un suo libro, e prosegue – Fruitori di messaggi veloci e pellegrini su strade con tempi biblici di percorrenza? Surfisti tra miriadi di like e impigliati nella rete di storie che non mollano la presa? Viaggiatori leggeri nel mare dell’immaginario virtuale o lottatori con parole fatte carne?». Così la pastora battista dà il via ad una sua opera del 2021, pubblicata con un titolo che può sembrarci assurdo o quanto meno azzardato: Bibbia e web. Navigare nella vita. Possono davvero stare insieme questi due vocaboli? Vediamo..  

La nostra frequentazione del web, che ci chiede un tipo di lettura veloce e superficiale, non ci aiuta ad entrare in contatto con la Sacra Scrittura, la quale invece chiede tempo e un po’ di fatica, offrendoci tuttavia degli aiuti: i primi undici capitoli di Genesi ci offrono infatti una sorta di riepilogo di quanto il lettore incontrerà in quello e nei successivi 72 libri, a partire dal sogno di Dio e dai fallimenti che questo subirà, così come l’alleanza fraterna. La Bibbia non rappresenta forse, come il web, un grande forum in cui ognuno parla di Dio e dell’uomo a suo tempo, a suo modo e attraverso tanti linguaggi e narrazioni diverse?! Una pluralità che tante volte arricchisce, altre invece crea tensione. Se la rete rischia spesso di diventare una gigantesca gogna mediatica per il cattivo di turno, nella Bibbia ecco che Dio perdona quest’ultimo, fatto che può indispettire e non poco i suoi tanti followers. La Sacra Scrittura non è un’antologia di testi, ma un grande dialogo tra le decine di libri che compongono questa inusuale biblioteca interattiva, scritta e commentata lungo la storia da tanti uomini e donne (ahimè troppo poche) che la sua meravigliosa pluralità hanno saputo amplificarla.     

Alla terza edizione del Festival Biblico, tenutosi a Padova nel maggio 2015, Camilla Bottin scrive che si sono radunati diversi esperti per tentare di cucire il rapporto tra web, Bibbia e comunicazione.

Don Marco Sanavio affermò in quell’occasione: «La Parola deve essere usata in tutto il mondo come una sorta di buona guida»; mentre Paul Tighe sosteneva che «È molto importante che la Chiesa non si arresti di fronte alla “difficoltà” digitale»; infine per Jesus Colina: «La separazione tra reale e virtuale non esiste più». 

Nella prefazione al libro di Paolo Curtaz, La predicazione online, il rettore della facoltà di Teologia di Lugano, René Roux, precisa immediatamente che quella del celebre valdostano è «una ricerca pionieristica. Sebbene l’Omelia sia all’origine un evento squisitamente orale che suppone una comunicazione dal vivo, si rivela sin dai tempi più antichi l’usanza costante di redigerle per iscritto per dar loro la massima diffusione». L’introduzione è invece animata da una domanda dello stesso Curtaz: «Gesù, oggi, avrebbe utilizzato la rete?», rispondendo affermativamente, poiché il web rappresenta la «nuova agorà in cui poter manifestare le proprie idee». Precisa tuttavia: «Certo: i limiti di tale strumento sono evidenti e non sostituiscono in alcun modo l’esperienza personale di un cammino di fede comunitario, ma non abitare la rete diffondendo la Parola sarebbe davvero una imperdonabile trascuratezza da parte della comunità cristiana».

Chi ha affrontato le possibili derive di questa scelta è stato l’attore teatrale urbinate Matthias Martelli, portando sul palcoscenico Nel nome del Dio Web, diventato poi anche un interessantissimo libro. Quest’ultimo inizia, come la Bibbia, con la #Creazione: «In principio il Dio Web creò il Modem e il Personal Computer. La Rete era informe e deserta, le tenebre ricoprivano gli schermi ancora spenti e lo spirito del Web aleggiava sulle case. Il Dio Web disse: “Sia la luce! E luce fu. Gli schermi si accesero. Egli vide che gli schermi illuminati erano cosa buona. E così avvenne. Il Dio Web separò la Connessione dalla Realtà, e chiamò la Connessione Internet e Realtà quello che si fa quando non si sta su Internet. Gli uomini si connessero. E fu sera e fu mattina: sempre al computer. Primo giorno». La settimana genesiaca di Martelli prosegue sulla scia di questo geniale ed esilarante incipit per poi concludersi, ovviamente, il settimo giorno, in cui «Dio si riposò mettendosi in modalità “Aereo”». Strepitoso!

Di cosa parla esattamente l’autore e, soprattutto, dove vuole arrivare? Don iPhone, questo il nome del protagonista dello spettacolo, è il presbitero «esemplare della nostra Chiesa Chattolica.. coadiuvato dalla “sempre online” Suor Huawei». Cavallo di battaglia nelle “omelie” dell’improbabile prete sono I Dieci Comanda-menti del Dio Web: 1) Non avrai altra vita al di fuori del Web; 2) Non metterai mai “Offline” invano; 3) Ricordati di aggiornare lo Status; 4) Onora l’Algoritmo Santo; 5) Non bannare il padre e la madre; 6) Non postare Selfie mossi; 7) Ricordati di taggare gli amici; 8) Di’ falsa testimonianza, tanto non ti vede nessuno; 9) Desidera più like degli altri; 10) Desidera uno smartphone più nuovo degli altri! Don iPhone per il quale l’inferno equivale a «Rimanere per sempre separati dal Dio Web.. (come) libera scelta.. stato di definitiva auto-esclusione dalla comunità virtuale.. (e la cui) pena principale.. consiste nella disconnessione eterna dalla Sacra Rete». Non è tutto, la professione di fede del vero Webetista inizia con «Credo in un solo Web, Internet Onnipotente, creatore dei Tablet e degli Smartphone, di tutte le cose connesse e cliccabili..», per terminare con «Aspetto la prossima notifica, il prossimo messaggio vocale e vivo la vita virtuale che il Web mi ha regalato. Mi piace».  

I nomi dei capitoli con i quali suddivide il testo, oltre alla già citata #Creazione e tutti preceduti dall’hashtag (alla lettera “cancelletto-etichetta”), non lasciano dubbi circa la genialità dell’idea: #iSetteSacramind, #Miracoli, #AmoriOnline, #Likeomania, #LezioniDalFuturo, #PapaAmazonPrime (la cui elezione è stata annunciata con un sonoro “Nunzio vobis audium magnum: Habemus tablet!”) e l’ultimo capitolo, intitolato #Eretico. Sì, proprio eretico perché, nonostante la sua manifesta intenzione di smascherare la vastissima gamma di aspetti negativi che racchiude il fenomeno, Martelli è stato anche frainteso e bloccato, come racconta lui stesso: «Ci sono tantissimi cristiani aperti che ridono e riflettono davanti all’idea del “Dio Web”, capendo che la critica è nei confronti dell’abuso delle nuove tecnologie, sacralizzate ed elevate a religione, non alla Chiesa in quanto tale.. (ma) C’è anche chi è riuscito a non capirlo: un gruppo di sacerdoti nel 2015.. è entrato in scena nel bel mezzo del monologo di Don iPhone, interrompendo lo spettacolo con urla del tipo: “Non si può andare avanti, blasfemia!”. La scena è stata davvero surreale..». 

A chi gli chiede com’è nato il tutto risponde: «una mattina mi è caduto per terra lo smartphone mentre scendevo le scale e si è rotto.. Ero di fretta e dovevo contattare diverse persone.. Mi sono sentito perduto, impotente.. Ho pensato.. non ci immaginiamo più la nostra vita senza smartphone. Una dipendenza? Forse qualcosa di più: una Fede. Un culto.. Il Web.. per l’uomo contemporaneo è.. un Dio. È sacro, non si tocca. È sempre con noi. È il nostro nuovo culto.. (e), come Dio, vede tutto, sorveglia tutto.. Lui ti vede, ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso». A differenza di Dio, però, non ci immerge nella realtà piena, anzi, le continue interruzioni, causate dalle notifiche e dal nostro sguardo sempre proteso al cellulare, ci dis-traggono, ci traggono fuori dalla realtà, da ciò che stiamo vivendo nel qui ed ora, insomma ci impediscono di “stare sul pezzo”, rimandandoci sempre “altrove”. Orientati (o meglio dis-orientati) dalla quantità, ci neghiamo la qualità, data dalla capacità di immergerci profondamente nelle cose e nelle relazioni. 

Non è un caso che, sottolinea Martelli, esista il Digital Life coaching, un servizio per curarsi dall’eccessiva iperconnessione, e i dati in merito sono davvero preoccupanti. 

A proposito di iperconnessione e di dati statistici, la psicologa americana Jean Marie Twenge nel 2017 ha dato alle stampe un vero capolavoro: Iperconnessi, in cui emerge che è proprio il rapporto intessuto con la rete a caratterizzare l’ultima generazione, da lei definita iGen, quella dei nati dal 1995 in poi, diventati pertanto adolescenti proprio «quando il primo iPhone fu immesso sul mercato, nel 2007; nel 2010 arrivò l’iPad, e loro frequentavano il liceo. Le i minuscole davanti ai nomi di quei dispositivi stanno per Internet, e la Rete è stata aperta agli usi commerciali proprio nel 1995». Si tratta insomma della prima generazione ad aver sempre avuto l’accesso ad Internet, e per la quale, quindi, pensare un mondo senza il web sarebbe impossibile o quasi. La psicologa, lavorando su dati statistici che partono dagli anni Sessanta (relativi a un’indagine statunitense, ma facilmente estendibile all’intero Occidente), è arrivata a definire otto tendenze – che iniziano tutte con la lettera i (“ai”, secondo la pronuncia inglese) – capaci di caratterizzare non solo la iGeneration, ma l’intera società: immaturità, iperconnessione, incorporeità (alludendo al declino delle interazioni personali sociali), instabilità (mentale), isolamento e disimpegno, incertezza e precarietà (lavorativa), indefinitezza (circa il sesso, i sentimenti e la procreazione) e inclusività (intesa come tendenza ad accettare ogni differenza). La sua lunga indagine ha portato la Twenge a soffermarsi su un particolare: «molti dei grandi cambiamenti avevano visto la luce nel 2011 o nel 2012.. (anni) in cui la maggioranza degli americani aveva cominciato ad utilizzare i telefoni cellulari in grado di connettersi a Internet, quelli che oggi chiamiamo smartphone. La iGeneration è figlia di questo improvviso cambiamento». I dati ci dicono che i giovani della nuova generazione crescono più lentamente che in passato; escono sempre meno da soli e sempre più coi propri genitori; prendono la patente più tardi, studiano e lavorano meno, leggono meno e fanno le prime esperienze sessuali dopo; e tutto ciò in buona parte per il tempo concesso alla Rete. Ma la colpa – se di colpa ha senso parlare – , sia chiaro fin da subito che non è loro, bensì di una molteplicità di fattori culturali. 

Ma perché preoccuparsi tanto delle caratteristiche di questa generazione? Perché capirla significa capire il futuro – in realtà già il presente! – sotto ogni punto di vista.      

Tornando a Martelli e al suo interessante binomio Dio-Internet, aggiungiamo che la possibilità ininterrotta di accedere alla rete ha generato il preoccupante e ormai diffusissimo fenomeno del phubbing (neologismo nato dalla crasi tra le parole phone, “telefono cellulare”, e snubbing, cioè “trascurare intenzionalmente”), ovvero la tendenza a snobbare il nostro interlocutore “fisico” perché convinti, per dirla con le parole del filosofo e storico Yuval Noah Harari, «che qualcosa di molto più interessante stia con ogni probabilità accadendo altrove». Phubbing forse figlio di due date storiche, ci ricorda lo stesso Martelli: «il 9 gennaio 2007, quando Steve Jobs presenta il primo iPhone a San Francisco.. (e il) 4 febbraio 2004, giorno in cui fu lanciato Facebook». 

La domanda chiave è allora: possiamo oggi fare a meno del dio Internet, essendoci ormai immersi fino al collo? Occorre per forza diventare “Eretici del Dio Web” e parte della “Setta dei Disconnessi”? 

Internet, forse, potrebbe esser meglio compreso se inserito in un orizzonte più ampio, essendo il principale “moltiplicatore”, diciamo così, di quel villaggio globale di cui il sociologo canadese Marshall McLuhan iniziò a parlare negli anni ’60 del secolo scorso. Detto altrimenti, se oggi sappiamo tutto di tutti e in una frazione di secondo, è grazie anche e soprattutto alla rete.  

Nel suo ennesimo libro, intitolato L’etica del viandante, il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti sottolinea, semmai ce ne fosse ancora bisogno, come l’essere umano abbia perso il senso (inteso come direzione e meta) del suo vivere, ma «Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti (pure in Internet!, ndr) e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi». Come fare, dunque, per non naufragare nel mare della vita e in quello della rete? 

Lasciamocelo suggerire dal pastore metodista Peter Ciaccio che, in eVangelo, iGod & Personal Jesus ci dice come, recita il sottotitolo del suo testo, Districarsi tra social, tecnologia e liquidità: «Pochi anni dopo l’intuizione del grande sociologo canadese – precisa Ciaccio – nacque Arpanet, la prima versione americana di rete globale ad uso militare e accademico, che alla fine degli anni 1970 si sarebbe unita alla rete norvegese Norsar per diventare Internet (ovvero la “rete delle reti”)». Ma «ancora per una quindicina d’anni Internet rimase a disposizione di relativamente pochi utenti, finché nel 1991 l’informatico inglese Tim Berners-Lee presso il CERN di Ginevra inventò il World Wide Web, quel “www” che ora è nella vita quotidiana di miliardi di persone». Il ministro protestante precisa quindi che, se in Italia consideriamo come sinonimi net e web, in realtà il primo termine indica «la rete del pescatore e, di conseguenza, la rete di sport come il tennis e la pallavolo, mentre web è anzitutto la ragnatela e, poi, il prodotto della tessitura». 

Internet, dandoci la possibilità di essere non più solo riceventi dell’informazione, ma anche broadcasters, “emittenti”, ci dà spesso l’illusione di vivere una vita comunitaria che, in realtà, non è altro che una “bolla”: «siamo in relazione con tante persone che sono d’accordo con noi e che, dunque, ci danno ragione.. esattamente come uno specchio non potrebbe fare altro che riflettere la nostra immagine.. (appagando in tal modo) il nostro desiderio di comunità». Se è vero che da sempre l’essere umano cerca i propri simili ed evita chi non lo asseconda (nelle multiformi situazioni della vita prima ancora che in rete), la pericolosità della bolla virtuale sta dunque nel suo essere appagante.  

Quanto al fenomeno delle fake news che girano in rete, o ancor meglio alla facilità con la quale la realtà può essere distorta o travisata, Ciaccio evidenzia il seguente paradosso: «nella crisi dichiarata delle religioni consolidate nei secoli, in una società dove appare sempre più difficile raccontare la Buona Notizia della Risurrezione di Gesù Cristo dai morti, colpisce quanto sia facile far credere a qualunque altra cosa, perfino a eventi ben più sorprendenti di quelli narrati nella Bibbia».       

Il docente nonché monaco benedettino Giorgio Bonaccorso, in un congresso del 2015 sul binomio Liturgia ed Evangelizzazione, sottolineava come l’esperienza del rito e dell’ascolto biblico (a patto che sia ascolto, e non lettura asettica e solitaria di un foglietto!) siano simili a quelle di Internet e dei nuovi media in genere perché immersive: la Sacra Scrittura e la rete favoriscono cioè un metodo che è appunto di immersione, non di descrizione, tipico invece della dottrina.    

Fatta questa lunga carrellata di autori, proviamo allora a tirare le somme chiamando nuovamente in causa Lidia Maggi: «Nessuno mette in discussione il fascino del web: è, di fatto, il nostro mondo. Certo, come ogni mondo, insieme al fascino presenta delle insidie; mostra paesaggi ormai familiari ed altri in cui ci si sente spiazzati. Ma anche se lamenti si alzano da quel mondo, è impossibile disertarlo. Non così per la Bibbia, ritenuta dai più scenario di altre epoche. La sua lingua straniera è parlata da una minoranza, alla stregua di un linguaggio interno, comprensibile solo ai membri della setta. Gli altri non capiscono questo idioma. Sorry, I don’t speak Bible! E anche l’insistenza sulla storia degli effetti, frutto della narrazione biblica, ovvero quei capolavori artistici e letterari, incomprensibili senza il codice biblico – come la Divina Commedia di Dante o il ciclo pittorico michelangiolesco della Sistina – non sembra sufficiente a riaccendere la curiosità per le Scritture». Quanto sottolineato dalla pastora battista, val la pena ribadirlo, è il preciso intento di questa rubrica di Pregaudio, non a caso intitolata In effetti.

Ma lasciamole ancora la parola: «All’inizio del secolo scorso, il teologo riformato svizzero Karl Barth provava a strappare la Bibbia dalla gabbia religiosa al grido di: “Bibbia e giornale”. Le Scritture antiche venivamo chiamate a misurarsi con i giornali, che nella modernità raccontano il mondo e, in un certo senso, ne plasmano l’anima, orientando lo sguardo e suscitando certe aspettative (in questo senso, il filosofo Hegel parlava del giornale come della preghiera del mattino dell’uomo moderno). Oggi, all’alba del nuovo millennio – ecco il punto! – , è necessario rimodulare quella sfida al grido di: “Bibbia e web”. Un grido di battaglia, nel senso che il confronto, se non vuole essere solo di facciata, domanda una lotta impegnativa, un coinvolgimento profondo per giungere a un’intelligenza di questo nostro mondo caratterizzato da internet come anche della Bibbia, strappata al suo ruolo settario e marginale e ricompresa come sapienza di vita». E, anche in questo caso, la Maggi ci aiuta a ridare senso alla presente rubrica, che ha l’arduo intento di sdoganare quei 73 libri (66 secondo il computo protestante) per offrirli al grande pubblico, web compreso. Ma la pastora si domanda: «E come il web sfida e rilegge la sapienza biblica? Qual è l’apporto nutritivo che questo tipo di terreno infonde al seme della narrazione biblica? Sarà pure un azzardo, ma il confronto tra Bibbia e internet, per quanto solo evocativo, ha molto da dire a proposito di come abitiamo il mondo, di come navighiamo nel mare della vita». Come non essere d’accordo con lei? Amen! Anzi, Mi piace!

Recita
Cristian Messina

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