Sarto, sarto, sarto (Bibbia e Moda)



Testo della catechesi
Togliamo immediatamente ogni indugio: cosa c’azzeccano la sacra Scrittura e la moda? E poi, a che fine proporre questo improbabile binomio? Una prima risposta ce la fornisce Alberto Fabio Ambrosio, docente di Teologia e Storia delle Religioni in Lussemburgo, il quale ha avuto l’ardire di pubblicare un saggio dal nome già intrigante: Dio tre volte sarto, richiamandosi al Trisaghion, il Dio tre volte santo di Isaia (6,3). Una seconda, invece, ce la dà la Bibbia stessa, percorsa dall’inizio alla fine dal tema simbolico del vestire. Ma procediamo per gradi. Se il termine “abbigliamento” viene fatto coincidere oggi con “moda”, va precisato che quest’ultima è un fenomeno più ampio e complesso, riguarda infatti ogni ambito della società, di cui l’abbigliamento è tuttavia l’aspetto più importante. Se l’etimologia di moda deriva dal latino modus, “modo, maniera, scelta”, un termine affine è stile – ci fa notare il teologo Vito Mancuso – , da stilus: prima di tutto un corpo acuminato conficcato nel terreno per usi agricoli o militari, quindi “palo, piolo, fusto”, e poi lo strumento che serviva per scrivere, lo “stilo”, e da qui il modo di scrivere e di esprimersi. La radice st- , tra l’altro, esprime una situazione di stabilità e stasi, come indicano diverse parole italiane: st-are, st-ato, st-atica, st-ampa, st-atua, st-azione, st-anza, ecc.. Ed eleganza? Ancora una volta deriva dal latino, eligo, “eleggere, scegliere”, da cui anche l’italiano “elezioni”. La persona elegante è insomma quella che sa scegliere. Ma torniamo ad Ambrosio, che sviluppa il suo saggio su tre momenti chiave della Bibbia, rendendo Dio “tre volte sarto”: le foglie di fico genesiache con cui il Creatore copre i progenitori, la tunica di Cristo sorteggiata dai soldati romani e la metafora paolina dell’“indossare il Signore Gesù Cristo” (Rm 13,14; Gal 3,27), ovvero “entrare nella sua vita”. Procediamo dunque con ordine, partendo da Genesi 3, ricordandoci che si tratta di un testo eziologico, che mira cioè a spiegare le cause: all’inizio della storia della Salvezza il Signore confeziona le tuniche di pelle per Adamo ed Eva (per alcuni teologi addirittura la pelle stessa dei due) dopo il peccato d’origine. E questo è il punto fondante di tutta la teologia cristiana tra vestito e religione, o meglio tra essere umano, vestito e Dio. Il biblista don Fabio Rosini sottolinea il nostro continuo intrecciare, ma non più foglie di fico, bensì tutto: l’uomo, ad esempio, quando è in difficoltà cosa fa? Pianifica, intreccia impegni e cose da fare! La necessità di coprire il nostro corpo ha infatti la sua origine nell’aver perso il nostro rapporto originario con Dio, ragion per cui la prima coppia della “storia” si nasconde: prima con le foglie di fico, poi tra gli alberi del giardino.. un’umanità ormai nascosta che ha paura delle relazioni, su tutte di quella col Padre, una relazione non solo rotta, ma anche temuta. Questo edenico coprirci dice in sintesi l’immagine distorta che abbiamo di Lui. Eppure Egli non smette di cercarci: il «Dove sei?» di Genesi 3 non è infatti domanda minacciosa, anzi, nell’originale ebraico è il grido di dolore, quello disperato del genitore in lacrime che ha perso il suo bimbo! «Allora – dice il testo – si aprirono i loro occhi e conobbero di essere nudi» (Gn 3,7): c’è, sempre nell’originale ebraico, il ricorso a un gioco di parole tra ‘aròm (“nudo”) e ‘arùm (“astuto”, riferito al serpente). Non solo, il contrasto tra i versetti 5 («Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male») e 7 («Allora si aprirono i loro occhi e conobbero di essere nudi») è sottolineato dal verbo conoscere. Per tale ragione intrecciarono delle foglie di fico, pianta che nella Scrittura ha diversi significati: spesso indicato come sicomoro, è uno dei frutti caratteristici della terra promessa (Dt 8,8; Nm 13,23), le cui foglie, grandi e avvolgenti, diventano naturale protezione e coprono i genitali (in greco antico, infatti, sykon stava a significare sia il frutto del fico che lo scroto). Fico, ancora, che è una delle piante più citate nell’Antico Testamento, legata ai concetti di prosperità, gioia, ristoro e pace. Anche nel Nuovo Testamento compare più volte: Zaccheo sale su un sicomoro per vedere Gesù (Lc 19,4), il quale ricorda a Natanaele di averlo visto per la prima volta sotto un fico (Gv 1,48). È la “tunica senza cuciture” del Cristo crocifisso, poi, il chitôn áraphos, ad essere sorteggiata dai legionari romani (Gv 19,23), a differenza delle vesti (himation), di cui fecero quattro parti, rimando forse non troppo forzato ai quattro punti cardinali. La stessa esistenza terrena di Gesù, come la nostra, sta dentro due tuniche, concetto questo ben espresso dall’iconografia orientale, dove le bende del Neonato rimandano a quelle del Risorto. I suoi «teli (Lc 24,12).. posati là, e il suo sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte (Gv 20,7-8)», non sono forse i primi testimoni della Risurrezione? E di quelle vesti ognuno di noi è chiamato a ri-vestirsi, secondo la già citata metafora paolina, che dice letteralmente «indossate il Signore Gesù Cristo» (Rm 13,14), in greco endýein, quell’“indiarsi” che non può non ricordarci Dante, il quale fu capace, sottolinea Alessandro D’Avenia in una introduzione alla Divina Commedia, di «descrivere il suo amore per Beatrice, e quindi per Dio, con una serie di gradazioni verbali che purtroppo abbiamo perso: innamorarsi, intuarsi, inmiarsi, infuturarsi, incielarsi, indiarsi, insemprarsi.. Parole che, se le recuperassimo, probabilmente ci aiuterebbero a reimparare ad amare davvero..». Il vestito è insomma un elemento che ricorre nei momenti chiave della rivelazione, fino alla veste degli eletti dell’Apocalisse: «Beati coloro che lavano le loro vesti (escatologiche, ma anche quelle del battesimo): avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città» (22,14). Cioè: chi avrà seguito Cristo ritornerà all’innocenza dei primi tempi. Puntualizziamo però, forse è il caso, la differenza tra vestito e abito.. Vestito è il participio passato di vestire, dal latino vestem (veste), dalla radice vas, “circondare, coprire, inviluppare”, mentre veste assume una connotazione maggiormente liturgica (pensiamo ai vari camice o alba, pianeta, casula, dalmatica, piviale, ecc..). Abito è invece più complesso e polisemico: l’habĭtus (da habere, “comportarsi”) è ciò che si ha, derivato appunto dal verbo avere, in primis come qualità acquisita. Abitare traduce poi “stare dentro”, e la casa è in fondo il nostro secondo abito. Significativa, in tal senso, l’etimologia della parola cappella, da cappa, il mantello di cui san Martino ha rivestito il povero, conservata in quel luogo che divenne pertanto la prima cappella al mondo. Ma del «vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6,28-29). Eppure esso – afferma Ambrosio – è il mio “primo altro”, la prima estensione di mia madre, strumento con cui ciascuno intraprende un dialogo profondo con sé stesso, ne sia conscio o meno. Ci aiuta pertanto nella costruzione del nostro sé. Dunque l’abito, contrariamente a quanto si dice, fa il monaco? Per certi aspetti sì: è infatti il primo modo in cui comunichiamo, e non comunicare – affermava già negli anni Sessanta del secolo scorso lo psicologo austriaco Paul Watzlawick – è impossibile. E questo ci rimanda inevitabilmente di nuovo alla moda, nata secondo il sociologo Vanni Codeluppi grazie alla democratizzazione dell’Occidente: «Se (infatti) sino alla fine del Medioevo il modo di vestire delle persone è rimasto pressoché immutato, ciò è avvenuto perché la società era statica e il passato rappresentava il valore supremo, il modello di riferimento per tutti i comportamenti. È stato proprio con la disgregazione della cultura medievale – prosegue – e lo sviluppo del Rinascimento che il mutamento è diventato un valore socialmente ambito e la società ha incominciato a muoversi orientandosi in maniera crescente verso il futuro». Moda che si è diffusa per imitazione, come sostenne già nel Settecento il medico Bernard Mandeville: gli individui hanno bisogno di imitarsi e, allo stesso tempo, superarsi a vicenda, e iniziarono a farlo prendendo a modello ciò che si indossava a corte. Il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel poi, nel 1895 ha spiegato meglio che la moda nasce dal continuo confronto tra le due spinte dell’animo umano: l’imitazione e la differenziazione, appunto. La moda, comparsa dunque a partire dalla fine del Medioevo (dall’aristocrazia e dalla monarchia, per poi raggiungere il popolo), si è andata differenziando nei due sessi, che fino al XIV secolo indossavano entrambi ampie tuniche e lunghi mantelli. Tale differenziazione ha innescato una dialettica di tipo seduttivo, uno dei più potenti motori per lo sviluppo della moda stessa. A far da contraltare, rimescolando cioè la differenza sessuale, ecco tuttavia due capi d’abbigliamento divenuti ultimamente d’uso comune: i jeans e la t-shirt. Altra interessante teoria è poi quella sviluppata dall’economista e sociologo tedesco Werner Sombart, il quale afferma che la moda ha una vocazione al consumo dei beni di lusso, e nasce dal desiderio di placare il senso di morte portato con sé dalla società moderna, attraverso il passaggio da una vita prettamente comunitaria (che in passato era il riferimento) ad una individualista (in cui il riferimento è invece il singolo). L’individuo (dal latino individŭus, “indivisibile”) è insomma “solo” davanti alla morte e alla brevità della vita, e vuole pertanto sperimentare su questa terra tutti i piaceri possibili. «Uno stimolo particolarmente importante allo sviluppo della moda – sottolinea il già citato Codeluppi – è venuto anche dalla Chiesa cattolica.. (la quale) ha diffuso la sensibilità per i rituali e le cerimonie. Ma – aggiunge – lo sfoggio di tale sfarzosità da parte della Chiesa ha raggiunto spesso livelli eccessivi e ha determinato critiche e reazioni, poi sfociate nella Riforma protestante dei luterani e dei calvinisti.. Con la Controriforma la Chiesa (cattolica).. ha trovato puntualmente un riflesso nelle fogge degli abiti, divenute decisamente più austere». Se oggi noi occidentali siamo insomma più tristi nel vestire, soprattutto se paragonati agli africani, è colpa – o merito, dipende dai punti di vista – di Lutero. Genesi a parte, senza ricorrere agli eccessi, come quello della sposa del decimo presidente delle Filippine, Imelda Marcos, famosa per le sue 2.700 paia di scarpe! – per quali ragioni diamo tanta importanza a ciò che indossiamo? Lo psicanalista inglese John Carl Flügel affermava nel 1939 che il vestito ha tre funzioni: protezione (aspetto fisico), pudore (aspetto spirituale) e ornamento (aspetto psicologico-artistico). Secondo l’etnografo e semiologo russo Pëtr Bogatyrëv poi, le persone indossano quattro tipi fondamentali di abito: per tutti i giorni, festivo, solenne (ovvero le grandi occasioni) e rituale (ad esempio l’abito nuziale). Ognuna di esse assolve a più funzioni: pratica, estetica, magica, di appartenenza (territoriale, di classe, ecc..), e via dicendo. I colori, invece, che posto occupano in tutto ciò? Lasciamo che a dircelo sia il più grande esperto al mondo, lo storico e antropologo francese Michel Pastoureau, che nel suo illuminante saggio Il piccolo libro dei colori afferma: «I colori rispecchiano.. i mutamenti sociali, ideologici e religiosi, ma restano anche prigionieri dei mutamenti tecnici e scientifici. Ciò comporta gusti nuovi e, necessariamente, attribuzioni simboliche diverse». Quanto alla sacra Scrittura precisa che «I testi biblici antichi in ebraico, in aramaico e in greco usano pochi termini per i colori: saranno le traduzioni in latino e poi in lingua moderna ad aggiungerli. Laddove l’ebraico dice “ricco”, il latino tradurrà “rosso”. Per “sporco”, dirà “grigio” o “nero”; “smagliante” diventerà “porpora”..». Se prendiamo in esame ad esempio il colore blu, oggi simbolo dell’Europa e dell’Occidente intero, «(nella Bibbia per lui) c’è poco posto.. Il XII e il XIII secolo riabiliteranno e promuoveranno il blu.. (e) la Vergine diventa l’agente principale (della sua) promozione». E ancora: «Mentre nel Medioevo il blu era adottato di preferenza dalle donne (a causa della Vergine), e il rosso dagli uomini (segno del potere e della guerra), (poi) le cose s’invertono.. azzurro per i neonati maschi, rosa per le femminucce..». Tornando alla moda, e ai nostri giorni, va sottolineato come negli anni Sessanta i giovani siano diventati un gruppo sociale egemone, sia a livello culturale sia nei consumi, sfruttando l’ascesa dei media di massa. «Tutti i consumatori, pertanto – è ancora Codeluppi a parlare –, hanno incominciato a immaginarsi come giovani, allegri, spensierati e alla continua ricerca di forme d’evasione»: probabilmente una forma indiretta per far fronte all’eterno nemico, la morte. L’abito, insomma, da segno di distinzione sociale si è trasformato in strumento di appagamento ludico, come dimostra la scalata da parte degli abiti “sportivi”: circa l’80% delle calzature sportive viene impiegato, in Italia, semplicemente per camminare durante la giornata. L’etimologia della parola sport non è pertanto casuale: dal francese antico desport, a sua volta dal latino deportare, “uscire fuori porta”, nel senso di “divertimento”. Quanto alla “moda di strada”, è interessante notare come l’abbigliamento abbia accompagnato la nascita delle prime subculture giovanili: i mods, i punk, gli skinheads, l’hip hop, il grunge, gli yuppies e via dicendo, fino ai paninari, nati a Milano nei primi anni Ottanta attorno al bar Il panino di piazza Liberty, in cui il primo nucleo si ritrovava, ad appena cento metri dal Duomo. La moda rivendica insomma la sua legittimità perché vuol apportare novità in campo sociale: ma il novum, la novità, perno assoluto della moda, è la categoria fondante della teologia cristiana! La moda illude di creare personalità uniche, che però sono vestite tutte allo stesso modo!? Moda che, infine, dice anche – attraverso il suo continuo mutamento e ricerca – un’inquietudine tesa alla perfezione che è quasi escatologica, per dirla in teologhese. Lo stilista o il moderno fashion designer, non imitano infondo l’atto del Creatore? Forse non a caso in italiano utilizziamo l’espressione “vestirci da Dio”! La Bibbia, cioè la Parola di Dio, è il testo cristiano per eccellenza, e testo deriva dal latino textus, participio passato di texěre, “tessere, intrecciare”. Il libro è insomma il “vestito” della Parola. Vestirsi e svestirsi equivale da una parte a velare, da cui il termine nozze, quelle mistiche cui siamo tutti chiamati, dall’altra a s-velare, da cui ri-velazione, l’ultimo libro della Bibbia. L’Apocalisse, “ri-velazione”, toglie infatti il vestito alla storia della Salvezza. «È intorno ad un testo, tessuto – conclude Ambrosio – , che si dipana la storia della Salvezza e che si conclude in vesti abbandonate in una tomba, nell’attesa di vestire l’abito dell’eternità». Per poi aggiungere: «Chissà, forse anche alla moda, in preda ad una ricerca spasmodica di novità, potrebbe capitare sempre di più di voler andare dietro quello specchio (cfr. 1Cor 13,12), verso l’origine della Novità». 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
musiche di Lorenzo Tempesti 
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