Compagni di viaggio: Primo Levi (11 Gennaio)



Primo Levi (11 Gennaio)
L’11 gennaio 1945, ragion per cui lo ricordiamo proprio oggi, si ammalò di scarlattina, nel luogo e nel momento peggiori del suo passaggio su questa Terra, Primo Levi, che della propria vita affermava: 

«Il mio mestiere è un altro, io sono un chimico, ma la mia esistenza è stata segnata da due fatti fondamentali: il primo è la prigionia ad Auschwitz, la seconda di aver scritto delle mia prigionia ad Auschwitz».

Il chimico e scrittore ebreo Primo Levi nasce il 31 luglio 1919 a Torino, al civico 75 di Corso re Umberto, appartamento nel quale abiterà tutta la vita. Se la passione per la scienza e la letteratura gli sarà trasmessa dal padre Cesare, ebreo praticante, una buona penna lo diventerà, suo malgrado.. a partire dal quel 13 dicembre 1943 in cui, in quanto partigiano, verrà arrestato dai fascisti in Valle d’Aosta e indirizzato nel campo di raccolta di Fossoli (dove nel ’47, a guerra ormai terminata, don Zeno Saltini darà vita al sogno di Nomadelfia), e da qui deportato un paio di mesi dopo in quel di Auschwitz.  

Cos’altro sappiamo di lui, prima della sua triste avventura in Polonia?
Nel 1937 prese la maturità classica, mentre quattro anni dopo si laureò in chimica. Babbo Cesare, costretto come lui a iscriversi al partito fascista, si ammalò di tumore, e Primo cominciò a lavorare inizialmente nella periferia torinese, quindi a Milano, dove conobbe ambienti antifascisti: entrò nel Partito d’Azione clandestino e l’8 settembre del ’43 riparò in Valle d’Aosta dove, come detto, fu arrestato. Stipato su un treno merci assieme ad altri 649 ebrei, il 22 febbraio 1944 partì per il più celebre dei campi di concentramento dove, identificato col numero 174517, rimase fino alla liberazione, operata dai russi in quel 27 gennaio 1945, data fortemente simbolica che dal 2005 costituisce la Giornata della Memoria.  

Come riuscì a sopravvivere? 
Se dei 650 partiti solo in venti rimasero in vita, a parer suo fu grazie a circostanze e incontri fortunati, su tutti – nel suo caso – quello col muratore Lorenzo Perrone: «mi ha portato ogni giorno una gavetta di zuppa. Lui faceva una specie di colletta, andava in giro dai suoi compagni di baracca: raccoglieva gli avanzi di cucina, le cose che loro stessi rubacchiavano in giro, e raccoglieva tutto e me lo portava». “Tacca”, così era soprannominato Perrone, perché vero e proprio attaccabrighe, salva Primo Levi «non solo concretamente – sottolinea lo storico Carlo Greppi – , ma anche perché gli ricorda che persino in quell’inferno in terra che era Auschwitz, esiste una radicale possibilità di bene, che lui incarna». Eppure, tornato in Italia, il Tacca si lascerà morire, diversamente da Primo.  

Cosa fece Levi una volta tornato dal suo inferno?
Rimpatriato, nel 1947 sposò Lucia Morpurgo (1920-2009), ma quanto accadutogli lo aveva ormai profondamente segnato, non poteva non testimoniarlo: decise allora di scrivere Se questo è un uomo, opera oggi celebre, eppure inizialmente rifiutata da diverse case editrici. Delle 2500 copie stampate dal piccolo editore De Silva, solo 1500 furono vendute. Deluso, Primo scelse di buttarsi sulla chimica. Nel ’48 divenne padre per la prima volta e nel ’57 per la seconda, in entrambi i casi i nomi dei figli resero omaggio al muratore che lo aveva salvato: Lisa Lorenza e Renzo. Nel 1958 Einaudi, uno dei tanti editori che gli aveva voltato le spalle, decise finalmente di pubblicare Se questo è un uomo, che questa volta riscosse enorme successo! 

Di cosa parla esattamente?
Scritto tra la fine del ’45 e l’inizio del ’47, dunque a fatti appena avvenuti, è il resoconto lucido e quasi cronachistico di quanto da lui registrato con tutti e cinque i sensi. Il titolo lo estrae dalle prime righe dell’incipit: «Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case – ammonisce subito i lettori – , Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo..». Considerate cioè se, in base a quanto vi narrerò, rimane ancora qualcosa di umano.. Ma se di capolavoro si tratta, è in primis per aver mostrato che dietro tali atrocità si nasconde infondo un meccanismo: «A molti, individui o popoli – scrive nell’introduzione – , può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”». È insomma la paura dell’altro, certo unita a circostanze particolari, che può generare in ogni momento, ieri come oggi, quanto tristemente avvenuto.  

Aldilà di ogni discorso morale?
«Vorremmo.. invitare il lettore a riflettere – scrive al termine dell’ottavo capitolo – , che cosa potessero significare in Lager le nostre parole “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato.. quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato».  

Come conclude un libro così duro?
Raccontando fino a quel 27 gennaio del ’45 quanto stava vivendo. Ma la pagina forse più straziante è quella del giorno prima: «L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a termine dai tedeschi disfatti». E prosegue: «È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce». 

Dopo Se questo è un uomo cos’altro pubblicò?  
L’insperato successo gli fece scrivere nel ’62 La tregua, e in seguito altri testi. Tre anni dopo ebbe il coraggio di tornare ad Auschwitz, e nel 1975 andò in pensione come chimico, dedicandosi a tempo pieno alla scrittura e agli incontri nelle scuole. Nel 1982 venne dato alle stampe Se non ora, quando?, titolo mutuato dal noto aforisma del rabbino Hillel, che riscosse enorme successo. Dopo essere tornato una seconda volta ad Oświęcim, nel 1986 riaprì alla vicenda della Shoah con la sua opera più importante: I sommersi e i salvati. 

Di cosa tratta?
Il titolo è quello di un capitolo di Se questo è un uomo, ma il libro nasce dalle meditazioni che il suo primo capolavoro ha generato in lui e in chi lo ha letto. Non solo: se nel primo testo sottolineava l’umanità dei detenuti, nell’ultimo evidenzia quella dei guardiani. Ma il cuore dello scritto è il medesimo, come scrive nella conclusione del libro: «È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile.. seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire». Parole che spiegano ampiamente perché ogni anno, dal 2005, si celebri la Giornata della Memoria. Ma ricordare non basta..  

Come e quando morì?
Il suo corpo esanime venne trovato l’11 aprile 1987 nella tromba delle scale del palazzo in cui aveva sempre vissuto. Nonostante le ipotesi di vertigini, di cui Levi pure soffriva, la causa pare abbastanza chiara: si trattò di suicidio, fenomeno che ne I sommersi e i salvati descrive molto bene.. «il suicidio è dell’uomo e non dell’animale, è cioè un atto meditato, una scelta non istintiva, non naturale.. (ma) nella maggior parte dei casi.. nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è venuta ad attenuare». Levi soffriva fin da giovane di depressione, e nel 1987, per via di una cura alla prostata, gli erano stati tolti gli antidepressivi, ma la vera ragione, semmai una ragione possa esserci in chi arriva a togliersi la vita, sta forse nel senso di vergogna che provava per essere sopravvissuto: perché proprio lui? Era stato più meritevole di altri? In un capitolo de I sommersi e i salvati, intitolato non a caso La vergogna, scrive in proposito: «È.. l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi.. abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo..».

Temeva insomma di aver preso ingiustamente il posto di qualcun altro?
Proprio così. Prosegue infatti: «L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto.. ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere.. mi inquieta.. non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri». Riteneva in pratica che l’autentica testimonianza, sulla scia dei primi cristiani, fosse quella di chi aveva versato il proprio sangue, non di chi era scampato. Il suo corpo è tuttora sepolto nella sezione ebraica del Cimitero monumentale di Torino.

Levi credeva in Dio?
No. La propria vita, trascorsa nella totale indifferenza del divino, conobbe il radicarsi del suo ateismo in seguito ad Auschwitz: «Oggi io penso che – scrive in Se questo è un uomo – , se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi». Eppure disse di invidiare i credenti, e credeva fermamente nell’essere umano: «Io penso che valga la pena di scommettere sull’uomo.. Se non ci fosse questa fiducia nell’uomo – significa fiducia nei giovani in sostanza – non varrebbe la pena di preservare la nostra specie».

«Signore Gesù, salito sulla croce per scendere negli abissi dell’inferno, Auschwitz compreso, ti affidiamo sia le vittime sia i carnefici del punto più basso che l’umanità, da te sposata, abbia mai toccato». 

 

Recita
Stefano Rocchetta, Cristian Messina

Musica di sottofondo
Libreria suoni di Garage Band
A.Fulero. Forest Lullaby. Raccolta audio di YouTube
www.soundscrate.com

Gli interventi originali di Primo Levi sono tratti da:
Eranocento. Primo Levi. YouTube
La storia di Lorenzo Perrone. Rai News


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