Compagni di viaggio: Franco Basaglia (11 Marzo)



Franco Basaglia (11Marzo)
Un giorno, a Gorizia, lo psichiatra Franco Basaglia vede un uomo, uno che fino a poco tempo prima era considerato un matto, lo sente prendere la parola in assemblea: «Non è vero che i medici hanno aperto le porte dell’ospedale. Basaglia ha solo messo la chiave nella toppa: noi siamo stati capaci di farla girare». Con la legge n. 180 del 13 maggio del 1978,  Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, meglio conosciuta come legge Basaglia, in quell’anno l’Italia assiste alla chiusura dei manicomi, il primo dei quali (dal greco manì-a, “pazzia” e komìon, “ospedale”)  venne fondato dal medico francese Philippe Pinel (1745-1826) nel 1793, con l’intenzione di liberare i folli dalle prigioni, poiché il malato di mente non può essere equiparato al delinquente. La 180 e la 194 (sull’interruzione volontaria della gravidanza) chiudono un decennio di riforme che, nel bene o nel male, sulla loro opportunità e sul giudizio morale, cambieranno il volto del Paese. Solo per citarne alcune: nel 1971 quella sulle lavoratrici madri; un anno dopo sull’obiezione di coscienza al servizio militare; nel 1975 la fissazione a 18 anni per la maggiore età; due anni più tardi quella sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro.. provvedimenti che non hanno paragoni nell’intera storia repubblicana!   

Cosa sappiamo di Basaglia?
La fotografa milanese Carla Cerati lo ricorda con una bella “istantanea”: «l’ho visto più come un rivoluzionario che come un medico.. Era capace di togliersi calze e scarpe di fronte a tutti sul tappeto del salotto in casa di amici per provare un paio di calze che gli avevano appena regalato». Veneziano classe 1924, nato l’11 marzo – ragion per cui lo ricordiamo proprio oggi – secondo di tre figli di una famiglia medio borghese, ottiene la maturità classica al liceo Foscarini, anni in cui conosce Hugo Pratt (inventore nel 1967 del fumetto Corto Maltese), andando poi a studiare a Padova, dove frequenta un gruppo di studenti antifascisti: entrato nella Resistenza viene arrestato nel novembre del ’44. Dopo la seconda guerra mondiale entra nel Partito Socialista Italiano e si laurea. Specializzatosi nel 1953 in malattie nervose e mentali, nello stesso anno sposò la scrittrice Franca Ongaro (1928-2005), con la quale ebbe i figli Enrico e Alberta. Franca per lui fu non solo moglie, ma compagna di mille avventure. I suoi tanti libri – L’utopia della realtà; L’istituzione negata; Che cos’è la psichiatria?; La nave che affonda, e altri ancora – li ha scritti insieme a lei. 

Com’è nata la sua utopia, se così possiamo definirla?
Nell’introduzione a Franco Basaglia, il dottore dei matti, il giornalista Oreste Pivetta afferma: «Tra Gorizia e Trieste, Franco Basaglia, guidando un gruppo di giovani psichiatri, realizzò, sperimentandola giorno per giorno, una radicale riforma dell’istituto manicomiale, dopo aver denunciato l’orrore della segregazione e dei mezzi coercitivi comunemente utilizzati o di presunti sistemi di cura (massiccio in quegli anni l’uso dell’elettroshock, imposto con nauseante violenza). Fu una riforma ispirata.. soprattutto dal riconoscimento dei diritti del malato, della sua identità, della sua appartenenza alla società civile, contro l’annullamento della sua personalità, contro l’emarginazione, che negavano qualsiasi possibilità terapeutica». Ma il tratto più distintivo di quest’avventura fu anzitutto l’eliminazione di ogni barriera, simbolica prima ancora che fisica. Scrive lo stesso Pivetta: «Basaglia rifiuta il camice bianco. Rifiuta quell’abito che lo distingue dai ricoverati, che lo allontana e che lui considera il simbolo di un potere. Come se l’agente carcerario abbandonasse la divisa e vestisse i panni del galeotto.. a Gorizia.. – prosegue – Cedono le distanze. È il primo atto. Poi spariranno i letti di contenzione, le grate, le inferriate, i cancelli.. la “distanza” (infatti) impedisce qualsiasi terapia». 

Si diceva dell’elettroshock, in cosa consiste?
Ciò che di peggiore offre il manicomio è senza dubbio la terapia elettroconvulsivante (TEC), meglio conosciuta come elettroshock, tecnica basata sull’induzione di convulsioni nel paziente trasmettendogli corrente elettrica attraverso il cervello. Inventata dai neurologi Ugo Cerletti e Lucio Bini,  fu testata per la prima volta nel 1938. Il non utilizzo di questa terapia, oltre che di mezzi contenitivi e altre forme discutibili, hanno appiccicato a Basaglia l’etichetta di antipsichiatra: «Io non ho mai detto che la malattia mentale non esiste: io critico il concetto di malattia mentale, non nego la follia, la follia è una situazione umana. Il problema è come affrontare questa follia.. come rispondere a questo bisogno». 

Già, cos’è davvero la follia, e chi sono concretamente i folli?
In italiano tra i termini più utilizzati compare matto, la cui etimologia è molto dibattuta: i più la inseriscono nella grande famiglia di parole accomunate dalla sequenza matt, dal latino volgare mattus, alterazione di madidus, “bagnato” (da cui il nostro “madido”), oppure da maccus, “stupido, sciocco”, per alcuni il nome proprio di una maschera teatrale, quella del babbeo mangione. Ad ogni modo il matto è colui che si muove appunto tra il babbeo, il furioso e il debole, disegnando i contorni di una libertà tutta da definire e, forse per questo, disturbante. «I pazzi – etimo questa volta derivante dal greco pathos, “sofferenza”, o dalla radice latina pact-, da cui pattume, per cui il pazzo sarebbe il “sudicio” – vengono considerati castigati o ispirati dagli dei – prosegue il Pivetta – e quindi giudicati ora pericolosi ora sapienti sotto mentite apparenze. Li si può temere, ma si può averne pietà, li si incatena, ma si può pensare anche alla loro libertà». A conferma di ciò il fatto che nell’Ottocento, quando gli psichiatri congedavano un paziente, nella prognosi apponevano, prima della loro firma, la sigla DC, deo concedente. In altre parole il malato sarebbe stato in grado di tornare nella comunità civile solo quando Dio avesse concesso alla malattia di lasciarlo. «Io penso che la follia e tutte le malattie – disse Basaglia a San Paolo del Brasile a chi gli chiedeva se la follia fosse soltanto un prodotto sociale – siano espressione delle contraddizioni del nostro corpo, e dicendo corpo, dico corpo organico e sociale. La malattia, essendo una contraddizione che si verifica in un contesto sociale, non è solo un prodotto sociale, ma una interazione tra tutti i livelli di cui noi siamo composti: biologico, sociale, psicologico..». 

Allora, in senso contrario, sarebbe il caso di chiedersi anche cosa sia la normalità..
Basaglia stesso si chiedeva anzitutto se la pazzia fosse davvero una malattia, o non piuttosto «una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo». Quanto alla normalità, «In natura – diceva il poliedrico Hermann Hesse – non esiste nulla di così perfido, selvaggio e crudele come la gente normale». «Ciascuno di noi – gli faceva eco.. Umberto! – ogni tanto è cretino, imbecille, stupido o matto. Diciamo che la persona normale è quella che mescola in misura ragionevole tutte queste componenti, questi tipi ideali». A detta dello psicanalista, psichiatra e filosofo francese Jacques Lacan invece, «Un soggetto normale è essenzialmente uno che si mette nella posizione di non prendere sul serio la maggior parte del proprio discorso interiore». La normalità è inoltre «conformità alle aspettative collettive», per dirla con lo scrittore e filosofo statunitense Robert Maynard Pirsig. L’aspetto forse più decisivo, anche se un po’ filosofico, è tuttavia un altro, come già sottolineato da Oscar Wilde in uno dei suoi celebri aforismi: «Visto da vicino, nessuno è normale», affermazione poi ripresa e fatta propria da Franco. 

A proposito di filosofico, è vero che lo psichiatra veniva scherzosamente preso in giro per questa sua passione? 
Sì, è vero, “il filosofo”, così lo chiamava ironicamente il professor Battista Belloni. Lettore di Jaspers, Heidegger, Minkowski, Merleau-Ponty e altri ancora, Basaglia fu amico di Sartre, di cui era un grande estimatore. In uno dei loro incontri, il primo dei quali nel 1972, Franco ricorda a Sartre una sua frase che lo ha segnato: «Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte». Nel 1978 si vedranno invece per l’ultima volta, a Parigi, col maestro francese ormai cieco. Quest’ultimo morirà il 15 aprile di due anni più tardi, appena quattro mesi e mezzo prima di Franco. Ma l’intera visione del mondo dello psichiatra "friulano" era anzitutto filosofica, eppur concretissima, bipartita nello specifico, tanto da sintetizzarsi in un detto calabrese a lui caro e più volte citato: “chi non ha non è”, a sottolineare il limite dettato dalla povertà, ragion per cui «il manicomio diventa l’inferno dei poveri, che siano malati o non lo siano.. ben sapendo, come Basaglia non nasconde, che la pericolosità esiste, ma è dettata dalle situazioni, da tanti fattori che vanno rimossi». Il manicomio, insomma, ha un unico vero obiettivo: «proteggere chi sta fuori». Ma da cosa, davvero? Eppure, tutto quanto Basaglia è stato capace di fare lo ritiene frutto di una scelta precisa: «Abbiamo messo l’ottimismo della volontà al posto del pessimismo della ragione».

Filosofo sì, sognatore insomma no..
Era tutto fuorché una persona con la testa fra le nuvole, e questo a partire dalla sua personale esperienza: «varcando la soglia di Gorizia – scrive ancora Pivetta – ha la sensazione di rivivere i giorni della galera, e intuisce che nel manicomio, come dietro le sbarre di Santa Maria Maggiore, un’offesa totale sia recata alla libertà e alla dignità dell’uomo, e che quindi il primo passo.. sia restituire libertà e dignità, sapendo che non basta aprire un varco nella cella, ma che occorre sottrarre l’uomo alla miseria cui lo ha costretto la divisione in classi della società..». Da Gorizia passerà a Trieste, il cui manicomio chiude, togliendo di mezzo mura, sbarre e catene, strumenti fisico-simbolici che negano anzitutto l’incontro. Se oggi la solitudine è il peggiore dei mali, come ben evidenziato tra gli altri dal bellissimo saggio di Mattia Ferraresi, intitolato appunto Solitudine, il manicomio e ciò che rappresentava, almeno fino al 1978, era forse l’altro lato della stessa triste medaglia. Franco è un intellettuale a tutto tondo, mai piegato alle logiche del potere,  «costruisce teoria praticando i malati, il dolore, è un rivoluzionario perché non rinuncia a sperare che la storia possa prendere un’altra piega.. Quando entra nel manicomio di Gorizia, Basaglia crede nella libertà, che sente come il valore più forte, e vuole restituirla ai matti, liberandoli prima di tutto dalla merda (anche la loro) che nella miseria dei cameroni li circonda».  

C’è stato un altro Basaglia, ovvero chi ha in qualche modo agito da rivoluzionario, pur battendo altre strade? 
Il 10 agosto 1922 don Pasquale Uva, chiamato Zi’ Terrone sia perché contadino d’origine sia  perché si definiva “operaio della vigna del Signore”, prendendo a modello l’opera del Cottolengo gettò il seme per la futura Casa della divina provvidenza, un villaggio postmanicomiale che doveva fungere da ponte tra il manicomio, appunto, e il ritorno alla vita “normale”, sorta di accompagnamento graduale che agiva attraverso il lavoro e il gioco. Morto il presbitero pugliese però (dichiarato Venerabile dalla Chiesa cattolica nel 2012), morì anche la sua grandiosa opera. 

Se di libri sulla malattia mentale ne sono stati scritti tanti, la cinematografia come si è espressa a riguardo?
La prima celebre pellicola è datata 1948, Fossa dei serpenti di Anatole Litvak, seguita vent’anni dopo da Diario di una schizofrenia di Nelo Risi; del 1971 è invece Family Life di Ken Loach, mentre l’anno successivo è quello di Matti da slegare di Silvano Agosti. Il film più famoso rimane tuttavia Qualcuno volò sul nido del cuculo, diretto da Milos Forman nel 1975, con uno strepitoso Jack Nicholson. Facendo un lungo balzo nel tempo, nel 2000 ecco La seconda ombra sempre di Silvano Agosti, con l’attore Remo Girone nei panni di Basaglia. Tre anni più tardi è la volta de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, mentre nel 2008 va in scena il bellissimo Si può fare con Claudio Bisio (a suo dire la propria miglior interpretazione), film diretto da Giulio Manfredonia il cui titolo riprende una nota citazione di Gene Wilder in Frankenstein Junior, di Mel Brooks. Impossibile infine non citare la miniserie C’era una volta la città dei matti, che Marco Turco  ha diretto nel 2010 dando il ruolo di Basaglia a Fabrizio Gifuni. Ma è nel lontano 1967 che la televisione italiana entra per la prima volta in un manicomio, con I giardini di Abele di Sergio Zavoli. In quest’occasione, alla domanda se quell’ospedale rappresenti anzitutto una denuncia civile, Basaglia risponde categorico: «..senz’altro.. nessuna terapia.. può dare un giovamento a persone costrette in condizione di sudditanza, di cattività nei confronti di chi lo dovrebbe curare». Quando il giornalista e politico gli chiede poi chi sia il malato di mente, lo psichiatra risponde in maniera ancora più netta: «Non lo so e non lo sa nessuno. Bisogna avvicinarsi alla malattia e avvicinarsi soprattutto al malato». È quest’ultimo ad interessarlo, ben più della malattia! 

Ma oggi, potremmo chiederci, che strade ha preso la malattia mentale? O meglio, che legame c’è tra quest’ultima e le interazioni sociali? 
Nel 1998 lo psichiatra giapponese Saitō Tamaki ha attirato su di sé le luci della ribalta grazie al libro Hikikomori, adolescenza senza fine, col quale ha coniato appunto il termine hikikomori (letteralmente “stare in disparte” o “ritirarsi dentro di sé”) e, soprattutto, ha descritto quel fenomeno che vede sempre più adolescenti auto reclusi nella propria stanza, ragazzini che riducono in maniera drastica i rapporti col mondo esterno. Il medico nipponico ritiene che l’abbandono dei legami sociali sia un tratto dell’esperienza umana che precede la malattia mentale, ma che col fenomeno da lui descritto abbia raggiunto proporzioni prima neppure immaginabili. Lo dipinge insomma come un grido di dolore scambiato per un’epidemia da curare a suon di farmaci. Il medico di origine indiana scelto dai presidenti americani Obama, Trump e Biden come surgeon general, ovvero l’autorità chiamata a dettare le regole circa la salute pubblica, è  Vivek Hallegere Murthy, il quale afferma: «siamo una società che rifiuta di essere governata dalla paura, che è la malattia da cui siamo affetti oggi, ma che sceglie invece di alzarsi, di unire le forze per costruire una società informata e ispirata dall’amore. La scelta che abbiamo davanti – sentenzia – è fra l’amore e la paura». Basaglia sarebbe probabilmente d’accordo, ritenendo i manicomi una scelta dettata dalla paura.  

In che senso?
«Avevo imparato.. – affermava – che la ricerca da parte degli uomini di scienza è sempre stata orientata sulla causa della malattia, mai sul significato.. Agli occhi del medico, il malato nel momento in cui non risponde alla cura è sempre colpevole della malattia di cui soffre, poiché mette in crisi gli schemi di riferimento che sono l’unica sicurezza del terapeuta». Lui stesso era convinto di essere stato indirizzato verso il manicomio in quanto refrattario all’addestramento! 

Come e quando morì Franco?
Il 15 maggio 1980, all’età di 56 anni, si trova a Berlino in occasione della giornata della salute, conclude il suo discorso e si sente male.. non gli era mai capitato. Muore in un pomeriggio veneziano di tre mesi dopo, il 29 agosto, aggredito da un tumore che aveva iniziato a manifestarsi dal naso e gli era arrivato al cervello. Appena 27 giorni prima, il 2 agosto, una bomba nella sala d’attesa della stazione di Bologna aveva ucciso 86 persone, mentre il 27 giugno il Dc9 Italia era stato abbattuto sul mare di Ustica. Senza dimenticare che, quattro giorni prima dell’approvazione della legge 180, l’Italia si era svegliata con l’assassinio di Aldo Moro.  

Possiamo riassumere la sua vita nella parola libertà?
Decisamente sì. «La libertà, forse – si legge sul sito Una parola al giorno, bellissima intuizione di due giovani fiorentini – , si avvicina etimologicamente al piacere: libare, libidine; e anche alla fratellanza, alla famiglia: in latino i liberi sono i figli, e ancora oggi le liberalità sono i doni incondizionati. Anche in altre lingue è forse così: pensiamo al freedom inglese, così affine al friend, all’amico, e al Freiheit tedesco, così affine alla Friede, alla pace». «Una riforma – conclude così invece il suo saggio Oreste Pivetta – non può diventare ideologia della riforma. È politica che si realizza e si rinnova di giorno in giorno davanti ai problemi, davanti alla gente, davanti a chi soffre. Anche la riforma, che tutti i paesi del mondo ci hanno invidiato come una delle più innovative.. può vivere se non si spegne la volontà di sperimentare, di scoprire incertezze, lacune, ostacoli, di indicare nuove mete, mentre il traguardo resta quello indicato da Basaglia dal primo momento: il rispetto di ogni individuo, la difesa di ogni personalità umana. In fondo è sempre un discorso sulla libertà».

«Donaci, Signore, di non conoscere il fuoco della Geènna: aiutaci a non dire “pazzo” a nessuno (cfr. Mt 5,22), sicuri che la vera follia l’hai già sperimentata Tu salendo sulla croce, e che i veri folli possono esserlo solo in Te».  

 

Recita
Daniele Briglia, Cristian Messina

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