Compagni di viaggio: Hannah Arendt (14 Ottobre)



Hannah Arendt
Da un Adolf (Hitler), all’altro (Eichmann), passando per Albert Speer, Herman Goering, Joseph Goebbels, Heinrich Himmler, Rudolf Hoss, e la lista dei più celebri gerarchi nazisti potrebbe tristemente andare avanti.. Uomini capaci di macchinare ad esempio ciò che Isaia (47,11) aveva profetizzato qualche secolo prima di Cristo alla città di Babilonia: «Ti verrà addosso una sciagura che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una catastrofe che non avrai previsto». Profezia, quest’ultima, sintetizzabile in quella parola ebraica ricorrente nell’Antico Testamento: shoah, letteralmente “distruzione totale”, “devastazione completa”, da preferire ad olocausto, dal greco “tutto bruciato”, poiché evidente rimando a quanto accadeva nel Tempio di Gerusalemme, in cui le carni animali sacrificate al Signore venivano bruciate, e il cui fumo saliva a Dio.. immagine che oggi ci fa quantomeno inorridire. Siccome olocausto potrebbe essere equivocato – come se Dio avesse gradito tale sacrificio umano – shoah è dunque da preferirsi. 

Ma cosa c’entra tutto ciò con la persona che ricordiamo oggi?
Hannah Arendt, tra l’enorme mole di opere realizzate, ci ha lasciato un piccolo capolavoro: La banalità del male, indagine accurata di questo fenomeno, scandagliato attraverso il celebre processo al meno noto dei due Adolf, Eichmann. Nata il 14 ottobre 1906 nei pressi di Hannover e cresciuta in una famiglia ebrea “non praticante”, Hannah studia filosofia e teologia. Nel 1929 sposa il filosofo Günther Anders, da cui si separerà nel 1937. Tre anni prima è costretta a lasciare la Germania nazista a causa delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche. Apolide dal 1937 al 1951 – anno in cui otterrà la cittadinanza statunitense – giunta a Parigi conosce il critico letterario marxista Walter Benjamin, prodigandosi nell’aiutare gli ebrei esuli, fuggiti come lei dal Terzo Reich. Nel 1940, in seconde nozze, sposa il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, col quale emigra negli Stati Uniti, diventando attivista della comunità ebraica tedesca della Grande Mela. 

Chi furono, se così possiamo dire, i suoi maestri?
Oltre al già citato Benjamin, il suo pensiero sarà caratterizzato  da Immanuel Kant (nella cui città natale trascorre tra l’altro diversi anni) e Martin Heidegger, di cui fu allieva e col quale ebbe una relazione sentimentale segreta, salvo poi lasciarlo dopo aver scoperto i suoi rapporti col nazismo. Con quest’ultimo si riconcilierà tuttavia dopo la Seconda Guerra mondiale. Trasferitasi ad Heidelberg si laureò con una tesi sul concetto di amore in sant’Agostino, sotto la tutela del filosofo e psichiatra Karl Jaspers. Insomma, non solo amò la filosofia, ma anche i filosofi! Eppure rifiutò sempre di essere considerata una filosofa, preferendo l’etichetta di “teorica della politica”. È in quest’ottica che, ad esempio, difese il concetto di pluralismo, grazie al quale la libertà politica e l’uguaglianza tra le persone si sviluppano. Non solo, il suo interesse si mosse verso il concetto di “inclusione dell’altro”, ovvero di quanto ci è estraneo. Non solo, considerò inoltre la natura del potere, l’autorità e il fenomeno del totalitarismo, quest’ultimo indagato in particolare ne Le origini del totalitarismo del 1951, in cui tracciò le radici dello stalinismo e del nazismo, oltre alle loro connessioni con l’antisemitismo. La domanda che la animava potrebbe essere grossolanamente sintetizzata così: “è possibile rifondare la politica, partendo dal disastroso fenomeno del totalitarismo?”. 

Stessa domanda che muove, tra l’altro, il film L’onda..
Proprio così. Die Welle, diretto da Dennis Gansel e diventato in Germania un libro classico all’interno della scuola, è tratto dall’omonimo romanzo di Todd Strasser, a sua volta basato su un esperimento sociale chiamato proprio La Terza Onda, avvenuto nel 1967 in California. Il protagonista è un insegnante che, dopo essersi sentito dire da un suo alunno che, quanto avvenuto col nazismo non potrebbe mai più verificarsi – dato che «ormai ne conosciamo le conseguenze» –, decide di mettere in scena un gioco di ruolo, per dimostrare alla classe il modo in cui sorgono le strutture sociali autoritarie. Quanto ai gerarchi, che tale triste “gioco” lo hanno condotto, «più un bugiardo ha successo – dice la Arendt – , più gente riesce a convincere, più è probabile che finirà anche lui per credere alle proprie bugie». E ancora: «Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali». L’autrice, «sensibilissima verso la poesia e dotata di una spiritualità profondamente religiosa» – scrive la giornalista Virginia Perini – considera l’esilio e la persecuzione due esperienze fondamentali del XX secolo. Pensatrice di ampio respiro, la sua opera si concentra appunto nel già citato fenomeno del totalitarismo, che considera una forma di dominio del tutto nuova, una forma che – è ancora la Perini a parlare – «attraverso la deresponsabilizzazione morale e il rigido inquadramento degli individui, ha come scopo ultimo la trasformazione dell’uomo in “automa” e dei gruppi sociali in “masse”». A fronte di tutto ciò non è possibile esimersi dal ritornare al dialogo anzitutto con sé stessi, la sola possibilità concessaci di tenere a distanza il conformismo, che è adesione acritica alla maggioranza, e la massificazione, la spersonalizzazione dell’individuo. «L’unanimità di opinione – afferma in Ebraismo e modernità – è un fenomeno alquanto sinistro e una caratteristica della nostra moderna epoca di massa. Essa distrugge la vita pubblica e personale, che è basata sul fatto che gli uomini sono diversi per natura e per convinzioni. Il fatto di avere opinioni differenti e di renderci conto che altri la possono pensare diversamente sullo stesso argomento ci impedisce di nutrire certezze dogmatiche, che mettono fine ad ogni discussione e riducono le relazioni sociali a quelle esistenti in un formicaio.. l’unanimità di massa non è (infatti) il risultato di un accordo, ma un’espressione di fanatismo e di isteria». Riflessioni queste che, elaborate oltre cinquant’anni fa, sono di un’attualità disarmante..          

Si diceva della sua passione politica.. come la sviluppò?
La Arendt premette anzitutto che «l’equivalenza non fa bene alla democrazia. Dire che tutto è uguale non è conquista di civiltà, è nichilismo. Bisogna fare delle differenze», e aggiunge che «coloro che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero». Come risulta da Vita activa. La condizione umana pubblicato nel 1958, Hannah è la più acuta sostenitrice della democrazia diretta, fondata cioè sull’azione e sul discorso, ricalcando in tal modo quanto avveniva nell’antica polis greca, in cui gli “uomini liberi” si dedicavano praticamente a tempo pieno alla cosa pubblica. Tesi centrale di quest’opera è che, a partire dalla fine della già citata polis greca, l’azione e il discorso sono stati sostituiti prima dal “fare” e quindi dal “lavorare”, che, come unico scopo hanno la sopravvivenza. A suo giudizio l’agire umano si articola fondamentalmente in tre parti: il lavoro (in cui l’uomo è animal laborans); l’operare (in cui è homo faber); infine l’agire (in cui diventa zoon politikón, “animale politico”). Scontato dire che per la Arendt la più importante sia l’ultima, quella che mette gli uomini in contatto tra loro senza la mediazione di cose materiali. Vita activa si pone insomma l’obiettivo di restituire «una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale», per dirla con le parole altisonanti di Alessandro Dal Lago, nella sua Introduzione per l’edizione italiana. 

Azione, discorso.. cosa intende esattamente con queste due parole?
«Con la parola e con l’agire – afferma – ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita.. Questo inserimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare. Può essere stimolato dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non ne è mai condizionato». «Il nuovo quindi – prosegue – appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può aspettare l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico, e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo..». «Azione e discorso – è ancora lei a parlare – sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificatamente umano deve nello stesso tempo contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: “Chi sei?”. Il rivelarsi del proprio essere è implicito sia nelle parole sia nelle azioni..». «Questa capacità di rivelazione del discorso e dell’azione emerge quando si è con gli altri; non per, né contro gli altri, ma nel semplice essere insieme con gli altri». Ma anche sotto il profilo politico la Arendt fu una pensatrice a tutto tondo, non facendosi mai incasellare: «La sinistra mi considera una conservatrice.. i conservatori mi ritengono.. di sinistra.. Io non appartengo a nessun gruppo.. – disse durante un convegno – Mi avete chiesto dove sto. Da nessuna parte.. Ma non perché voglio essere originale.. accade solo che in qualche modo non c’entro».

Torniamo a La banalità del male..
Nel 1961 segue a Gerusalemme, come inviata del giornale New Yorker, le centoventi sedute del processo ad Eichmann, criminale nazista occupatosi del trasferimento di cinque milioni di ebrei nei campi di concentramento e di sterminio: se nei primi – partendo da Dachau, inaugurato nel 1933 – venivano imprigionati nemici e oppositori politici del Reich, in quelli di sterminio lo scopo era invece di uccidere ed eliminare prima possibile i detenuti. Due anni dopo Hannah Arendt pubblica il resoconto del processo in un libro, intitolato appunto La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, in cui sottolinea come il male possa non essere radicale: anzi è proprio l’assenza di radici, di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con sé stessi (dialogo che Arendt definisce due in uno e da cui secondo lei scaturisce e si giustifica l’azione morale) che trasforma personaggi spesso banali in autentici agenti del male. È questa stessa banalità a rendere, com’è accaduto nella Germania nazista, un popolo “passivo” di fronte a quanto accade, se non addirittura complice, e a far sentire l’individuo non responsabile dei propri crimini, privo del minimo senso critico. «La triste verità – sentenzia la pensatrice – è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive».

Come, quando e dove morì Hannah?
Lasciò questa terra il 4 dicembre 1975 in seguito ad un attacco cardiaco e, dopo esser stata cremata, le sue ceneri furono sepolte accanto a quelle del secondo marito Heinrich Blücher, al cimitero del Bard College di New York. La sua lapide, come da tradizione ebraica, continua ad essere omaggiata di pietre, gesto antico quanto simbolicamente potente: sulla scia dei patriarchi d’Israele che, conducendo inizialmente una vita nomade, in caso di decesso erano costretti alla sepoltura lungo il tragitto, e l’unico modo che avevano per ritrovare il corpo esanime dei propri cari era coprirne la tomba con cumuli di sassi. Oggi, pur disponendo di lapidi con tanto di nome e cognome, il pio ebreo continua a deporre – con la mano sinistra, quella “del (lato del) cuore” – un sassolino sulla tomba. Se la più comune deposizione di fiori simboleggia la credenza che quella persona sia, seppur in modo diverso, ancora viva, la deposizione di un sasso ne indica invece il passaggio e il ricordo.  

«Grazie, Signore, per averci donato una pensatrice così acuta, capace di indagare il lato oscuro del cuore umano e le modalità per quella vita comune che, pure, questo lato oscuro comprende..». 

 

Recita 
Giulia Tomassini, Cristian Messina

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