Compagni di viaggio: Giacomo Leopardi (14 Giugno)



Giacomo Leopardi (14 Giugno)
Tra i più grandi letterati della storia mondiale, poeta, filosofo, scrittore e filologo, inizialmente ispirato dalle antiche opere greche e romane, passò al Romanticismo dopo aver scoperto Byron, Shelley, Chateaubriand e Foscolo, morendo il 14 giugno – ragion per cui lo celebriamo proprio oggi – del 1837, neppure trentanovenne, a causa di un edema polmonare (o scompenso cardiaco), che lo colpì mentre si trovava nella metropoli partenopea, al tempo nella morsa di una terribile epidemia di colera. 

A chi si riferisce questa estrema sintesi?
A Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro Leopardi, per tutti Giacomo Leopardi, che ha visto la luce alle ore 19 del 29 giugno 1798 a Recanati, all’epoca territorio dello Stato Pontificio. Figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici, primo di dieci figli, sei dei quali morti durante l’infanzia o in giovane età, crebbe sotto le ali dell’invadente padre, che conobbe la futura moglie in chiesa, una donna fortemente legata alla religione e alle convenzioni sociali. Affidato fin da piccolo a due precettori ecclesiastici, Giacomo si rivela subito un enfant prodige, motivo di vanto per i genitori. Appassionatosi alla lingua latina, greca, francese ed ebraica, l’entusiasmo del giovane va spegnendosi gradualmente, sia per la freddezza della madre sia per l’incapacità di capirlo, da parte del padre. Da tale disagio nacquero quei famosi sette anni di “studio matto e disperatissimo”, secondo la nota definizione che ne darà  l’amico e mentore Pietro Giordani in una lettera del 2 marzo 1818. Sette anni in cui il ragazzo approfondisce la filologia e si dedica alla traduzione dei grandi autori classici: Omero, Virgilio e Orazio, avvicinandosi tra l’altro all’illuminismo francese. I diversi problemi fisici di cui sarà vittima, lo porteranno tuttavia a trovare nello studio “immersivo” una via di fuga dai tanti malesseri causatigli dalla vita nel suo «natio borgo selvaggio», come ebbe a descriverlo ne Le ricordanze, poesia in cui condensa l’astio per il paese natale al punto da fargli scrivere, in una lettera all’amico Francesco Puccinotti: «Non so se mi riconoscerai più: non mi riconosco io stesso, non son più io; la mala salute e la tristezza di questo soggiorno orrendo, mi hanno finito».

In che modo i genitori influirono negativamente sul giovane?
Fiaccato da tantissime malattie, in realtà tutte dipendenti da una sola, la tubercolosi ossea, Giacomo soffriva anche di psicosi maniaco depressiva, la depressione. Il padre, smanioso fin da piccolo di conoscere, sognava di diventare un erudito enciclopedico, ma non ci riuscì.. Cosa fece allora? «Se non sapeva, – scrive Pietro Citati (1930-2022) nel suo best seller intitolato proporio Leopardi – avrebbe comprato biblioteche: se non era dotto, avrebbe educato i figli alla vera dottrina». E così fu: la sua biblioteca, quella a cui ogni turista a Recanati non può non far visita, «nacque tra il 1808 e il 1810.. Monaldo acquistò un “letamaio bibliografico” da don Pietro Pintucci.. (e) comprò libri alle fiere di Senigallia e Bologna; e nel 1812 aprì la biblioteca, che conteneva oltre 10.000 volumi». A questi quintali di cellulosa si aggiunsero quelli fatti arrivare dal desiderio di conoscere di Giacomo e della sorella Paolina. Monaldo creò insomma una sorta di “castello del conoscere” in cui mirava a far convergere tutto e tutti, a partire dagli esami dei primi tre figli, cui assistevano i signori e i presbiteri del paese: «Era la scuola – sentenzia Citati – che Dio aveva dimenticato di aprire in Eden»! Mamma Adelaide dal canto suo, donna bellissima ma avara, non usciva mai di casa, facendo di palazzo Leopardi «un grande carcere, di cui lei era insieme la carceriera e la vittima».         

La pretesa insomma di proiettare sui figli, quelli che in realtà sono i desideri dei genitori, non è questione degli ultimi tempi..
Decisamente no. Monaldo sosteneva che il piccolo Giacomo fosse «sommamente inclinato alla divozione; e pochissimo dato ai sollazzi puerili». Non solo giocava agli altarini e “serviva messa”, perfino volentieri, ma voleva farsi santo, seppure il Citati sostenga solo per la gloria personale, e aggiunge: «Vestiva abitualmente da chierichetto, e a dodici anni venne tonsurato (la tonsura era un rito, oggi abolito e consistente nel taglio di cinque ciocche ad opera del vescovo che simboleggiava la rinuncia alla mondanità, ndr): portò l’abito talare fino a vent’anni». Il padre vedeva insomma in quei segni, quanto meno il preludio all’episcopato del figlio! 

Come reagiva Giacomo a tali pretese?
Nutrendo per il padre un gigantesco senso di colpa, che contribuì a farlo scappare di casa nell’estate del 1819. Prigioniero della sua biblioteca, uscì davvero da Recanati solo a ventiquattro anni. Timido e inorridito dal suo corpo, compensava questi limiti con una “sfrontatezza intellettuale” senza precedenti: «fu indipendente da tutti: dal padre, dalla madre, dai liberali e dai reazionari, dalla religione e dalla irreligione, dal tempo e dall’eterno». Ma il suo mettere in dubbio tutto era forse, paradossalmente, la sua vera forza. Nell’estate del 1817 inizia a dar sfogo in forma scritta al Caos che ha dentro, dando vita allo Zibaldone di pensieri, che inizialmente chiamò Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, specie di diario in cui confluiscono appunti, riflessioni e aforismi, fino al dicembre del 1832. È solo a pagina 4.295 però (su un totale di 4.526) che compare la parola zibaldone. Nel testo la sua ritualità iniziò a fargli annotare anche le festività religiose, «Non.. per rivolgere un omaggio alla Chiesa – sottolinea Citati – , ma per registrare la doppia unità di ogni giorno», già, perché la vera misura dello Zibaldone era il tempo. In esso scrive che la ragione «non può trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza.. il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere».

Una posizione filosofica, la sua, che ha tuttavia qualcosa da dire oggi, soprattutto oggi, anche a noi cristiani, troppo spesso arroccati sulle nostre pseudo certezze, su tutte quella di conoscere con certezza Dio e la sua volontà! 
Ma la sua qualità migliore era forse il suo essere mimetico, per dirla ancora con Pietro Citati: «Se leggeva una poesia, diventava facilmente poeta: se leggeva un pensatore, cominciava subito a pensare: se leggeva una lingua straniera, cominciava a parlare quella lingua..», insomma diventava ciò che leggeva, ragion per cui «Il testo non aveva più autore: era di Omero e di Leopardi, di Virgilio e di Leopardi». 

Questo non dovrebbe valere per ogni testo o quasi, e per ciascun lettore?
Probabilmente sì. Giacomo nutre poi una specie di devozione per la Luna, di cui scrive sempre: «Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Bruto minore, Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi, Al Conte Carlo Pepoli, Il risorgimento, Il sabato del villaggio e.. il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, come se tutto ciò che voleva dire dovesse passare necessariamente attraverso il riflesso sempre diverso della luna». L’ultima poesia citata la compose tra il 1829 e il 1830, dodici facciate in cui il pastore interroga l’unico satellite naturale del pianeta Terra, immaginando ch’essa conosca i misteri dell’esistenza umana: «Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita.. dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?». Della natura, invece, ebbe a dire che «è lo stesso che Dio.. Quanto più esalto e predico la natura, tanto più Dio. Stimando perfetta l’opera della natura, stimo perfetta quella di Dio». Ma il Dio di Leopardi non è creatore, bensì una specie di demiurgo, colui che, secondo Platone, mette ordine a ciò che già esiste. Natura che è «santa» e «materna», aggiunse nella canzone Alla primavera. Ma il pensiero di Leopardi, sottolinea ancora una volta il Citati, è polare: se da una parte sostiene una cosa, poco dopo può affermare il suo contrario, così quella natura che «è lo stesso che Dio», un minuto dopo «non è perfetta». Dunque? Secondo Giacomo la più grande sciagura dell’essere umano era rappresentata dalla sua perfettibilità, il dono peggiore che la “natura” potesse fargli, ragion per cui sarebbe tanto infelice. 

Tornando invece alla sua famiglia, che rapporto ebbe coi fratelli?
Furono altalenanti: alla simbiosi che c’era fra Giacomo e Carlo (nato appena un anno dopo di lui) fece da contraltare la mancata comunicazione, da parte di Carlo, della nascita della sua prima figlia; Paolina invece, che lo adorava e con lui giocava da piccola agli altarini, da adulta comprese che Giacomo aveva perso la fede, «ma non perse mai la speranza di ritrovarlo in cielo». Luigi morì di tisi a soli ventiquattro anni, occasione in cui Monaldo scrisse a Giacomo «Iddio sia benedetto nei suoi giudizi, anche quando sono severi, perché sono sempre diretti al nostro bene se non chiudiamo l’orecchio ostinatamente alle sue chiamate», pregandolo tra l’altro di ricevere i sacramenti: «Giacomo mio, salviamoci. Tutto il resto è vanità».  

La sua vita tuttavia non si esaurì nel solo borgo natio..
Il suo desiderio di conoscere quanto c’era “fuori” si concretizzò nel 1822, quando venne invitato a soggiornare a Roma per cinque mesi, presso gli zii materni: le sue aspettative nei confronti della capitale erano però smisurate, ragion per cui ne restò deluso, forse anche per la corruzione della Curia, le squallide condizioni delle strade (non è cambiato niente!), e altro ancora, fatta eccezione per la tomba di Torquato Tasso (1544-1595), nel convento di Sant’Onofrio al Gianicolo, sulla quale si commosse. Tornato a Recanati nel 1823, ripartì due anni più tardi per Milano. Soggiornò quindi a Bologna, dove inizialmente abitava in un teatro e si sosteneva scrivendo, cosa che non lo faceva impazzire, anzi. Poi a Firenze, in cui se ne stava chiuso in casa per l’impossibilità nel sopportare la luce del sole, mentre a Pisa (città di cui si innamorò anche per via del suo clima, che pareva giovargli), dopo anni di silenzio poetico, nel 1828 tornò a scrivere in versi inaugurando il cosiddetto ciclo dei Grandi Idilli, dei quali fanno parte i più famosi A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e Il passero solitario. L’ultima città che lo aspettava era Napoli, in cui si recò insieme al giovane napoletano Antonio Ranieri, scrittore e patriota da lui conosciuto a Firenze.  

Cosa accadde nella città partenopea?
Il 2 ottobre 1833 Giacomo arrivò a Napoli in cui, per quattro anni, visse in diversi appartamenti, proprio mentre il colera assaliva il futuro capoluogo campano. Tre anni dopo a Torre del Greco scrisse La ginestra, preceduta da un’epigrafe giovannea: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce» (Gv 3,19), citazione probabilmente ironica, poiché a parer suo le persone preferiscono nascondersi in quelle tenebre rappresentate da falsi e rassicuranti ideali. Se La ginestra è considerata il suo testamento poetico, sono i versi de Il tramonto della luna la sua ultima opera, realizzati appena poche ore prima di morire, quel 14 giugno in cui si sentì male al termine di un pranzo, da lui consumato come sempre intorno alle 17. Così, dopo essersi abbuffato, soprattutto dei confetti cannellini di cui era ghiottissimo, comprati da Paolina Ranieri per celebrare l’onomastico del fratello Antonio (il 13 giugno si festeggia infatti sant’Antonio di Padova), fu colpito da malore poco prima di uscire di casa. Nonostante l’intervento del medico l’asma peggiorò e, qualche ora dopo, Leopardi smise di respirare tra le braccia dell’amico Antonio, dopo aver detto “Addio, Totonno, non veggo più luce”, quella stessa che gli uomini hanno amato meno delle tenebre.. Erano le 21. 

A proposito di orario, quale rapporto ebbe Giacomo con il tempo?
Lasciamo dirlo al già Citati Pietro (ah, ah, ah..): «Leopardi – la cui memoria era spaventosa: una sola lettura di qualsiasi cosa gli faceva rimanere impresso tutto – detestava il progresso. La perfezione stava alle origini. La storia correva all’indietro. L’uomo non era più perfettibile, ma più corruttibile degli altri animali. La storia era una continua degradazione, che si propagava. Nel futuro non sarebbe esistita nessuna età dell’oro». Se in gioventù l’insoddisfazione lo portò alla celebre tentata fuga, scoperta tuttavia da Monaldo, fu il tempo trascorso tra le quattro mura domestiche ad indirizzarlo verso una posizione convintamente atea. Nello Zibaldone però muove dei passi avanti ed elabora una visione già più sua dell’esistenza, che gli fa vedere l’uomo come una creatura destinata a desiderare senza sosta il piacere, pur non riuscendo mai a raggiungerlo in maniera totale. È convinto che ad avere sottratto all’uomo le sue illusioni non sia il cammino intrapreso dalla società, ma la Natura, impassibile al dolore e alle ingiustizie umane, e per questo “matrigna” più che madre. Conseguenza di tutto ciò è che chiunque sia condannato a una sofferenza senza fine, intervallata appena da qualche sporadico piacere: questa l’estrema sintesi del suo pessimismo cosmico.

Per quanto riguarda invece il binomio amore-morte?
Innamoratosi della nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti, le dedica l’intero Ciclo di Aspasia, raccolta di poesie di cui fanno parte Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso e Aspasia, fra le cui righe si intuisce il dolore di Giacomo per essere stato rifiutato. La sua “angoscia amorosa” viene però controbilanciata, se così possiamo dire, dall’amicizia (anch’essa “forma” dell’amore), soprattutto con Antonio Ranieri, capace di ospitarlo e curarlo fino alla morte nella sua casa di Torre del Greco, insieme alla sorella Paolina, ai piedi di quel Vesuvio davanti al quale comporrà le sue ultime due liriche: La ginestra e Il tramonto della luna. 

A proposito della penultima, di cosa tratta?
Considerata il suo testamento poetico, narra di questo arbusto che resiste alle intemperie piegandosi, ma senza mai umiliarsi, metafora della condizione umana. L’umiltà e il coraggio di guardare in faccia la realtà sarebbero insomma le uniche ed ultime risorse umane capaci di alleviare, ma  solo temporaneamente, la nostra misera permanenza sulla terra. Ma Leopardi è davvero tutto qui? Se lo chiede il docente e scrittore Alessandro D’Avenia che, col suo L’arte di essere fragili afferma: «Non avevo intenzione di scrivere un libro su Leopardi, ma poi vedevo gli occhi dei miei studenti rapiti dai suoi versi.. Noi presentiamo loro Leopardi come il poeta del pessimismo e loro lo sentono come il poeta cercatore della felicità. Allora mi sono detto: qui sto sbagliando qualcosa..». Leopardi ha infatti aperto gli occhi al giovane scrittore palermitano, aiutandolo ad avventurarsi nella splendida terra dell’educazione, abitata anche e soprattutto dal dubbio, proprio a partire da quella fragilissima fascia d’età che è l’adolescenza. 

Dunque esiste anche un Leopardi, diciamo così, ottimista o quanto meno speranzoso?
Intervistato da Gloria Ghioni (IlLibraio.it dell’8 novembre 2016), sottolinea come «Nel 1817 Leopardi non era che un diciannovenne ancora sconosciuto.. eppure si prese la briga di scrivere a uno degli intellettuali più famosi dell’epoca, Pietro Giordani. Gli confessò che aveva visto la primavera, doveva prendersi cura di tanta bellezza e diventare poeta. Giordani gli rispose – e questo è un bellissimo insegnamento per questo nostro tempo! –, riconoscendo il suo talento ma gli raccomandò di scrivere vent’anni di prosa per poi misurarsi con la poesia. Leopardi non si lasciò incantare (fortunatamente!): due anni dopo infatti avrebbe donato al mondo L’Infinito: pensate a cosa avremmo perso, se il Giacomo diciannovenne avesse dato ascolto a Giordani! E, ironia della sorte, oggi continuiamo a parlare di Leopardi, mentre Giordani è ricordato molto meno, e quasi sempre in funzione di Leopardi stesso. Anche noi, oggi, dobbiamo stare accanto a questi ragazzi, non farli sentire soli quando ci dicono di aver visto la primavera, ma aiutarli a prendersi cura della bellezza che hanno attorno. Oggi viviamo in un’epoca in cui ci sembra di dover avere tutto pronto prima di iniziare a fare qualcosa: a Leopardi è bastato vedere una primavera – conclude D’Avenia – ; e a noi può bastare una primavera per capire perlomeno che cosa stiamo a fare al mondo». 

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Quanto a L’infinito, di cosa parla esattamente?
In quel 1819, senza dubbio il peggior anno della sua vita, Giacomo scrive L’infinito in cui, stranamente e con grande sorpresa, non c’è traccia della sua sofferenza, dettata dalla quasi cecità e dalla più completa solitudine, coi conseguenti tentativi di fuga dalla casa paterna. «Pensava – ridiamo la parola a Pietro Citati – che solo l’infinito potesse adempiere il desiderio di piacere dell’uomo; e, quando riesce a concepirlo, se ne ritrae rabbrividendo». Del resto due anni più tardi sullo Zibaldone annotò che solo gli uomini vili, deboli o incostanti «cedono alla necessità», mentre quelli davvero grandi la combattono, odiando gli dèi, il fato, sé stessi e la vita.. Eppure altrove ammetteva che combattere contro la necessità era inutile, dato che all’infelicità umana non c’era rimedio. 

Dunque?
Nel 2013 sul suo blog intitolato La ragione del cuore, il docente e giornalista Giovanni Fighera ha sollevato alcune questioni circa il cammino religioso di Leopardi, sostenendo che «la ragione al suo apice si apre alla fede», partendo da quanto il poeta scrisse nello Zibaldone, ovvero che le «illusioni – i desideri che portiamo nel cuore – non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita». Tenta allora di mostrare «un Leopardi abbastanza sconosciuto ai lettori e spesso anche ai critici letterari, quello che affronta la natura del rapporto tra ragione e fede», sottolineando che non si tratta di un Leopardi minore. «La ragione non può essere perfetta se non è relativa all’altra vita» scrisse Giacomo, in tal modo aprendosi alla fede. La ragione sarebbe cioè perfetta, ovvero “compiuta”, solo in relazione a un altro mondo, «Dunque l’uomo corrotto non poteva essere perfezionato né felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione». È l’aldiqua che i nostri sensi – gli organi attraverso i quali conosciamo – non possono percepire, se non simbolicamente, a dare consistenza all’aldilà, «dunque bisogna che la religione ci persuada». «Leopardi – è ancora Fighera a parlare – afferma che occorre una fede ragionevole, ben fondata sulla ragione, che conosca i motivi adeguati per cui avere fiducia, bisogna sapere perché credere», evidenziando come in diverse pagine dello Zibaldone il poeta affermi che quanto pensa si completi con il cristianesimo, capace di spiegare ciò che la «natura delle cose» nel suo sistema gli resta «oscura e difficile»: l’origine dell’essere umano, il peccato originale, ecc.. Se per il Recanatese la “religione” cristiana resta un fatto unicamente intellettuale, allora gli manca un pezzo: l’esperienza, in cui si incontra anche l’affetto.. 

Perché allora Leopardi ad un certo punto si distanzia dalla fede cristiana?
Probabilmente per via della madre, per la quale sarebbe meglio non vivere che peccare. Insomma un cristianesimo castrante: non è forse una delle ragioni principali che, oggi come ieri, non permette di avvicinarsi a Gesù e alla sua Chiesa, binomio concepito e vissuto come limitante piuttosto che liberante? Del suo allontanamento se ne ha testimonianza già nel settembre 1821; scrive infatti nello Zibaldone: «Il Cristiano fugge il mondo per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè contro Dio.. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non peccare? Impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne, e desiderando esserne presto sgravato». Se così fosse, avrebbe senz’altro ragione lui e tutti coloro che la pensano così; occorrerebbe allora chiedersi quanto noi cristiani, e la nostra contro-testimonianza, impedisca talvolta ai fratelli e alle sorelle di incontrare il Risorto. Nella poesia Alla sua donna, però, emerge la necessità che il Bello sia incontrabile, sperimentabile, non solo pensabile! Ma l’uomo, conclude Giovanni Fighera, «non riesce a sostenere da solo e a lungo il senso di sproporzione, di vertigine che prova di fronte al Mistero, all’Infinito». La protagonista di Leopardi non è allora una presenza, bensì un’assenza, come testimoniato da La ginestra, considerata dal giornalista non il suo testamento, bensì «un venir meno della posizione di domanda e di ricerca di una felicità infinita». 

Potremmo chiederci se Leopardi si sia convertito in punto di morte, ma non lo sapremo mai, e forse non è neppure così importante, per cui ci limitiamo a ringraziare lui e L’Infinito, quel Dio che, riconosciuto o meno da Giacomo, ce lo ha donato..  

 

 

 

 

 

 

Recita
Cristian Messina, Patrizia Sensoli

Musica di sottofondo
www.soundscrape.com

La poesia L'infinito è recitata dai ragazzi che frequentano il Punto giovane di Riccione

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