Compagni di viaggio: Raimon Panikkar (26 Agosto)



Raimon Panikkar (26 Agosto)
«Sono partito cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno buddhista, senza aver mai cessato di essere cristiano.. Anzi, al mio ritorno mi sono scoperto (un) cristiano migliore, perché da cristiano non affermo più di essere unicamente cristiano». 

Parole un po’ forti e quanto meno discutibili.. chi è a pronunciarle? 
Il filosofo, teologo e presbitero spagnolo Raimundo Paniker Alemany, meglio conosciuto come Raimon Panikkar, nella cui vita, afferma un altro teologo, Vito Mancuso, «è condensata la teologia del futuro». Il padre di Raimon era induista e, già sposato a 13 anni con matrimonio combinato, a Barcellona conobbe la cattolica Carmen (già nei primi del ’900 a favore delle donne prete!) e, pur di sposarla, si fece battezzare, continuando comunque a considerarsi indù. Il 2 novembre del 1918 vide la luce il primo dei loro quattro figli, ma nel 1936, in seguito alla guerra civile spagnola, la famiglia scelse di emigrare in Germania. A Bonn Raimon studiò scienze su invito del padre, che lo voleva erede della sua ditta, ma dalle lezioni scappava appena gli era possibile, per ascoltare quelle di filosofia. Tre anni dopo andò da Bonn a Barcellona in bicicletta! Conobbe quindi Josemaria Escrivà de Balaguer, presbitero spagnolo oggi santo nonché fondatore dell’Opus Dei, l’unica prelatura personale attualmente esistente della Chiesa Cattolica, di cui nel ’46 ne diventerà prete, su “intuizione” dello stesso Escrivà. Il padre di Raimon, già paralizzato da un paio d’anni, appresa la notizia si chiuse in un profondo mutismo.  

Non deve essere stato facile per quest’ultimo..  
Tra il 1950 e il 1953 insegnò a Salamanca, conseguendo nel frattempo il dottorato in teologia a Roma. Trasferitosi in India, visse nella città sacra di Varanasi (chiamata anche Benares, nota ai più perché vi tenne il suo primo discorso pubblico il Buddha), dove si avvicinò ai testi sacri indù, continuando in ogni caso a far parte dell’Opus Dei. Nel ’61 tornò nella Città Eterna per un altro dottorato in teologia, dal titolo Il Cristo sconosciuto dell’Induismo, che in seguito diventerà uno dei suoi libri più famosi, ma appena un anno dopo venne espulso dalla prelatura direttamente da Escrivà: insubordinazione! Tra il ’62 e il ’65 partecipò al Concilio Vaticano II, come perito per la liturgia del cardinale di Bologna Giacomo Lercaro. Durante l’assise conciliare rimase celebre un’affermazione di Panikkar: «Lasciate che Cristo si faccia storia ovunque». 

Intendendo cosa, esattamente?
Lo capiremo più avanti.. Si recò quindi negli Stati Uniti, prima ad Harvard e poi a Santa Monica, fino al 1987, anno in cui decise di tornare in Catalogna fino alla morte, nel paesino di Tavertet, in cui abiterà insieme a poco più di cento anime. Nel libro intitolato Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani, Raffaele Luise, decano dei vaticanisti Rai, giornalista impegnato per lo più nell’indagine sulla fede in rapporto alla politica, alla mistica e alla cultura, racconta Panikkar facendo emergere il personaggio a 360°, attraverso un dialogo immaginario tra maestro e discepolo, il quale va a trovare il «saggio, laureato in filosofia, chimica e teologia.. in grado di padroneggiare una ventina di lingue tra antiche e moderne», durante gli ultimi anni della sua vita trascorsi nel piccolo comune catalano. Un’abitazione con una biblioteca talmente grande e vissuta da lasciar trasparire che «la conoscenza è intimamente legata all’amore». Il maestro gli serve subito un bel piatto di portata: «Non possiamo consentire – afferma perentorio – che alcuna religione, cultura o frammento di realtà sia dimenticato.. se vogliamo recuperare quella totale ricostruzione della realtà che diventa oggi il primo imperativo del nostro tempo». 

Beh, come inizio non c’è male.. 
Infatti. Il lettore del libro a questo punto potrebbe chiedersi: «non è che questo Panikkar è un po’ troppo progressista, correndo troppo “in avanti”?». La risposta è già a pagina 13: «Non si tratta di andare “avanti”.. né di andare “indietro”.. Si tratta di andare “in alto”.. di attingere una nuova forma di spiritualità capace di farci percepire e vivere tutta l’ampiezza e il respiro della realtà, senza sacrificarne alcuna parte». Ma cosa va cercando Luise in quest’uomo così “aperto”, forse troppo? È ancora Raimon a risponderci: «se oggi c’è crisi di maestri, è perché c’è crisi di discepoli», essendo il discepolo – come attesta la tradizione cristiana e non solo – a “creare” il maestro. Il sapere, e il sapere diffuso infatti, grazie anche alla grande espansione dei media di massa, ci illude di potercela cavare da soli.    

Come ha potuto conciliare questa apertura col suo essere prete cattolico?
La sua riflessione parte da lontano. In un’intervista concessa alla giornalista e conduttrice radiofonica Gabriella Caramore, afferma: «Ho accettato di essere cristiano, non l’ho scelto». Non è forse la condizione in cui, seppur per ragioni molto diverse, si sono trovati molti battezzati soprattutto occidentali? Quanto alla sua rinuncia ad esercitare il sacerdozio ministeriale, affermò che lo fece per non essere superiore a nessuno. Risposta accettabile, aggiungiamo noi, ma solo parzialmente, dato che come ogni ruolo “di potere” può essere esercitato (o almeno dovrebbe) prima di tutto come servizio. Quanto invece all’aver abbracciato, o meglio voluto conoscere altre fedi, risponde che «Il panteismo è.. vero e falso allo stesso tempo, in quanto Dio è di più perché Mistero». E aggiunge provocatoriamente: «Chi ha più amori è adultero?!». La sua celebre affermazione introduttiva viene quindi spiegata così: «per me l’India ha rappresentato l’apertura massima, che ho vissuto.. senza abiurare niente del cristianesimo, nemmeno quello che avevo già intuito da bambino. Anzi, è stata l’India, con la mia iniziazione all’induismo (da lui ritenuto “una delle più grandi manifestazioni dello spirito”, ndr) e al buddhismo, che mi ha permesso di vivere il cristianesimo in tutta la sua pienezza». Tale apertura, “fecondazione” come la chiama lui, «apre (infatti) i nostri orizzonti, e ci aiuta a non essere provinciali o fanatici». «Pensa globalmente e agisci localmente», per usare una famosa citazione attribuita allo studioso di origine francese René Dubos (1901-1982), che Panikkar ha decisamente incarnato.  

A proposito del divino, qual è il suo approccio ad esso?
Ritiene che Dio non sia né trascendente né immanente, non identificabile con l’uomo ma nemmeno separabile da quest’ultimo. Va invece collocato nel cuore umano, intuizione a suo parere attualissima, «anche se la nostra epoca – afferma – non possiede ancora gli strumenti necessari per esprimerla». 

Come visse invece la sua appartenenza all’Opus Dei?
Tra alti e bassi. Il suo allontanamento è legato al fatto che, almeno a parer suo, ad un certo punto l’Opera si istituzionalizzò e organizzò troppo. A chi gli chiede se si sentisse ancora prete, rispondeva che certo era un prete cattolico e credeva nel Cristo, rammentando tuttavia la distinzione cruciale sottolineata dalla costituzione conciliare Lumen gentium fra il sacerdozio regale, proprio di ogni cristiano e che ancora sembra non abbiamo compreso appieno, e quello ministeriale. Il suo essere prete l’ha vissuto stando “nel mezzo”, da mediatore, ma non solo tra Dio e i cristiani, bensì tra Dio e ogni uomo e donna, non credenti compresi. 

Ad un certo punto però si sposò..
Ordinato prete nel 1946, 38 anni dopo – ritenendo ingiusta la legge del celibato – si sposò civilmente (dato che il diritto canonico gli impediva di celebrarlo come sacramento) con Maria Gonzales Haba, laureata in filosofia e in teologia con una tesi su La figura di Cristo nel maestro Eckahrt, eppure con lei decise di non rompere il celibato, le loro nozze non vennero infatti “consumate”, come si dice in gergo canonico. Ma tale scelta, per sua stessa ammissione, fu un amore troppo teologico, un errore, dato che – affermò – non ci si può sposare “teologicamente”! Eppure Maria l’amò davvero, certo non come ci si può amare da adolescenti. Le sue ultime parole prima di morire furono infatti per lei: «te quiero». Il 15 febbraio 2008 però (stesso anno in cui verrà colpito da un ictus) scrisse: «Voglio chiedere pubblicamente il perdono per il cattivo esempio che ho dato nella disobbedienza al celibato. Mi pento sinceramente, accetto e riaffermo umilmente la mia obbedienza alla Chiesa. Annullo tutti i legami che ho a causa del matrimonio contratto». Un paio di mesi dopo venne revocata la sua sospensione, permettendogli di riconciliarsi con la Chiesa. Nel libro di Luise il discepolo dice non a caso: «“Maestro, di te si può dire tutto tranne che non hai sempre e assolutamente amato Cristo e la chiesa”.. (e) il vecchio mistico scoppia a piangere.. “io mi sono innamorato di Cristo dalla prima giovinezza e non l’ho tradito.. non l’ho lasciato”».

Finora si è accennato più volte alla realtà, ovvero?
La riteneva completamente divina, non dunque separata da quella religiosa: «Non è forse questo il senso profondo dell’incarnazione cristiana, che rende divino tutto.. perfino la materia e il corpo..?». La vocazione del cattolicesimo è a parer suo ancora troppo provinciale, proprio perché frenata dalla tendenza occidentale a voler separare. Un cattolicesimo dal quale fu ad un certo punto confinato, forse ingiustamente: «È tempo di riconoscere che i cristiani – è sempre Luise a farlo parlare – non hanno il monopolio di Cristo.. (che) è molto di più di Gesù di Nazareth, il figlio di Maria.. è prima di Abramo ed è lui l’artefice della creazione e di tutte le rivelazioni dell’umanità, anche se vi assume nomi differenti. Ma nessun nome può esaurire il Mistero.. (la cui parola) sta per quella “realtà” che non può essere definita né una né molteplice. E in linguaggio cristiano il paradigma per questo Mistero è la “Trinità”.. che la mente si limita a vedere come diversità. In linguaggio indiano.. il simbolo per il Mistero è l’intuizione “advaitica”.. né “uno” né “due”. Il Mistero.. è insomma a-duale.. implica il pluralismo».

Un cattolicesimo insomma un po’ troppo “chiuso”..
Se la vocazione dell’intero cristianesimo è quella di essere davvero cattolico (dal greco “universale”), allora dovrà avere il coraggio – come accadde nel primo Concilio di Gerusalemme –  di svincolarsi da quella tradizione che lo soffoca, pur tuttavia senza rompere con essa, ma lasciandosi fecondare dalle altre tradizioni umane. Nello specifico ritiene che sia compito delle religioni orientali quello di liberare il messaggio cristiano dalla sua corazza storica, e questo perché l’Incarnazione non è un fenomeno unicamente temporale. 

Interessante, ma il rischio di sentire ancora un po’ l’odore di sincretismo è forte..
Il rischio è sempre alla porta, ma la necessità di aprirsi è maggiore: in un mondo malato di superficialità, il bisogno di tornare a pensare “difficile” è vivo più che mai, la complessità del reale lo esige! La prima necessità è allora il conoscersi, partendo proprio da quell’etimologia (oggi messa in discussione) che lo scrittore, poeta e filosofo francese Paul Valéry (1871-1945) ricavava dalla sua lingua: connaître, naître ensemble, “con-nascere”, cioè “nascere insieme”. Per conoscersi bisogna quindi andare al cuore, vivere l’altro dal suo “dentro”: se un italiano, solo per fare un esempio, rischia di identificare facilmente l’islam col fondamentalismo, lo stesso non può dirsi per un pakistano, arabo o bengalese, nell’identificare il cristianesimo con le crociate o l’inquisizione? Pretendere che sia l’altro a conformarsi a me è in fondo una sottile forma, ma nemmeno troppo, di colonialismo, che è un fenomeno tutto occidentale e si sta concretizzando sotto i nostri occhi con la globalizzazione. A differenza dei tempi coloniali, però, oggi le diverse culture vivono una accanto all’altra. «Pensare che c’è una verità unica, assoluta ed è la nostra – tuona il Panikkar di Luise – , questo è provincialismo». Sarebbe bello, afferma il discepolo, «pensare.. a un meticciato sempre più consapevole e creativo.. varrebbe la pena di dedicare la vita a costruire questa convivialità delle culture, come ha indicato anche il vescovo-profeta don Tonino Bello». Ad alcune condizioni però, rincalza il maestro, partendo da un reale rispetto dell’altra cultura. E il rispetto, come ci suggerisce l’etimologia latina, viene da respicere, “guardare all’indietro”, nel senso di “guardare di nuovo”, “continuamente”: rispettare equivale insomma ad accettare l’altro così com’è, non come vorremmo che fosse.       

Che dire allora dell’attuale relativismo, che tanto preoccupa la Chiesa?
Questo fenomeno, che papa Benedetto XVI non esitava a definire una vera “dittatura” e per alcuni è la vera malattia della post-modernità, non equivale però a relatività: il primo «asserisce che non vi sono affermazioni valide, e in questo modo nega la sua stessa pretesa di validità.. la relatività (al contrario) lascia in piedi i criteri di verità, senza però assolutizzarli». Un esempio: l’amore cristiano, l’ahimsa induista e la compassione buddhista chiedono di intrecciarsi, ma senza confondersi. Il dialogo interreligioso è infatti anzitutto una questione religiosa: per capire il nostro credo dobbiamo conoscere qualcosa dell’umanità degli altri, altrimenti come facciamo ad amare il nostro prossimo come noi stessi?! E la prossimità dell’altro, di ogni altro, passa anche – forse prima ti tutto – dalla sua fede, persino dall’assenza della stessa! Un dialogo certo molto difficile, poiché la religione è una dimensione fondamentale dell’uomo, capace di rappresentare il meglio e il peggio dell’essere umano, come dimostrano i crimini commessi “in nome di dio”. Ci sia permesso un ulteriore distinguo, quello tra fede e credenza: se la prima è trascendente, indicibile e aperta, la seconda è una concretizzazione intellettuale della prima, emozionale e culturale, sempre legata ad una tradizione storico-geografica ben precisa. Ma le due cose vanno di pari passo: non posso toccare una senza ripercussioni sull’altra. La salvezza ci è data però dalla fede, che «non è il privilegio né dei cristiani né di alcun altro gruppo religioso». Se così non fosse, come potrebbero essere salvati tutti coloro che non hanno conosciuto Cristo, non solo perché nessuno glielo ha mai comunicato, ma perché nati prima della sua Incarnazione?    

La Bibbia affronta questa distinzione così delicata?
Lo fa ad esempio nel libro dell’Esodo, in cui è narrato il confronto tra Mosè e il suocero Ietro, sacerdote di Madian (Es 18,13-27). I due, che si incontrano dopo tanto tempo, hanno un dialogo amicale davvero profondo, che ha luogo tra persone di popolo e religione diversa, eppure capace di arricchire entrambi. Il condottiero d’Israele che riceve consigli da un sacerdote pagano! È infondo quanto capita a Pietro in casa del centurione Cornelio, «religioso e timorato di Dio» (At 10,1), ma non certo cristiano. «Pietro allora prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga.. Gesù Cristo.. è il Signore di tutti». Sono gli altri, in pratica, a dirci chi siamo davvero. Ma affinché vi sia vero dialogo, le diverse tradizioni religiose non possono far finta di intendersi, o limitarsi a farlo sugli aspetti superficiali. Non regge insomma quanto affermava il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein sull’epoché, la sospensione del giudizio. Detto altrimenti: forse non è vero, almeno in questo caso, che “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. «Sarebbe come affermare che ciò in cui credo è semplicemente superfluo rispetto alla mia umanità», aggiunge Panikkar. Non solo, tale dialogo può cominciare sul serio quando ogni religione prende coscienza di essere imperfetta, nel senso che le manca quel “pezzo di umanità” che solo le altre possono darle.  

Possibile?
Sì, a patto di essere saggi, trasformando le dicotomie micidiali – frutto della nostra paura dell’altro –  in polarità creative. «Cristo ha detto.. “Voi siete il sale della Terra”. Il sale non vuole convertire tutto in sale. Sarebbe un disastro. Vuole invece dare un sapore più profondo a ogni creatura, a ogni religione, a ogni civiltà. È, in sostanza, un discorso di servizio all’altro». 

Quanto sono distanti le parole relativismo e laicità?
Panikkar definisce quest’ultima un’altra forma di fondamentalismo, e la distingue dalla secolarità, che invece non è in contrasto con il sacro. A parer suo «la sfida cruciale del nostro tempo è (infatti) quella di scoprire il sacro in quello che finora si pensava secolare». Gesù del resto si è incarnato per dimostrarcelo. La laicità tra l’altro, che si presta a diverse accezioni, è bene ricordare come etimologicamente derivi dal greco laos, “popolo”, per cui tutti siamo laici. L’accezione prevalente oggi è volta invece a schierarsi contro ogni forma di clericalismo, che nasce «Quando la chiesa si è convertita a Costantino». Globalizzazione è poi un eufemismo col quale si tende a uniformare tutto e tutti: «in forza dello sviluppo tecnologico e in qualche misura dello stesso monoteismo, sta conducendo al genocidio culturale dell’umanità e al suicidio della terra con il dramma ecologico».

Insomma ne ha davvero per tutti.. Chi è “l’altro” per Panikkar?
Sempre e comunque esperienza di rivelazione, ma  nella sua estensione più ampia, da Dio alla natura, anche se tale rivelazione ha la sua massima espressione nell’uomo, legato da mille fili al divino e al cosmico. L’altro è in definitiva l’altra parte di noi, la sola capace di rivelarci a noi stessi: Io sono l’altro, per dirla con una bellissima canzone di Niccolò Fabi. Altro, ancora, con cui è necessario mantenersi in pace, partecipando al “ritmo della realtà” e superando i suoi maggiori ostacoli, identificati da Panikkar nella guerra, ovviamente, ma anche nella tecnologia (che ha sostituito la tecnica, distruggendo i ritmi naturali delle cose) e nella scienza moderna. Non nella scienza, parola che in latino (scientia) come in greco (gnosis) dice una comunione con la realtà, ma in quella moderna, che da Galileo in poi è diventata calcolo e previsione, quindi principale strumento del potere. Pace che non possiamo guadagnarci, poiché dono, da scoprire e accogliere e alla quale occorre convertirci per disporci ad una nuova innocenza. Si badi bene, non al recupero di quella perduta, che l’uomo moderno è convinto di dover recuperare: in Genesi Dio pone «i cherubini e la fiamma della spada guizzante» (Gn 3,24) proprio per questo: evitare che uomo e donna tornino là, che per loro sarebbe non più il paradiso ma un inferno! «La redenzione – spiega infatti Raimon – non è tornare allo status quo ante: questo è pessimismo, è il miraggio delle origini.. (allora) la pace non è restaurazione (perché la) storia è dinamica.. la realtà ha un ritmo trinitario, e la creazione è continua. La sola via verso la pace è dunque un cammino “in avanti”». Cammino capace perfino di fargli rifiutare il premio Nobel per la pace, motivando la scelta col Vangelo: «Non fate le cose perché gli altri vi vedano». 

Possibile, tornando alla scienza, che un sapiente del suo livello la rifiuti?
Panikkar, che l’ha studiata a lungo conseguendo tra l’altro un dottorato in chimica, non la rifiuta affatto, ritenendola anzi il miglior antidoto contro superstizione e fanatismo. Ciò che critica è, come già detto, la connotazione che ha assunto con la modernità, peccando su alcuni punti: in primis volendo imporsi come pensiero unico alla stregua di un “quinto vangelo”: «quasi una chiesa che vuole farci intendere che – afferma rielaborando l’antico adagio attribuito al vescovo e martire Cipriano – extra scientiam nulla salus.. “al di fuori della scienza non c’è salvezza”»; poi perché si è scollegata dalla filosofia e dalla teologia. Occorre a parer suo emanciparsi dal suo dominio, e per almeno tre ragioni: innanzitutto perché essa non è né neutra né universale, ma sempre e comunque frutto di una visione del mondo particolare, occidentale nel suo caso; quindi perché la conoscenza razionale rappresenta una delle tante lenti con le quali osservare la realtà, anche se lo scientismo (e buona parte dell’Occidente) pensa sia l’unica. Infine per la riproducibilità dei fenomeni, base del metodo scientifico. Ma il peccato più grande della scienza moderna è quello di volerci far credere che «si possa conoscere senza amare», mentre è evidente quanto i due verbi vadano a braccetto: guai a separare i nostri due organi più importanti, cervello e cuore, combiniamo solo danni!  

Cosa propone allora?
Uno dei suoi tanti neologismi: la teofisica, vocabolo col quale intende «semplicemente sottolineare che la scienza fisica appartiene.. alla teologia, che a sua volta vuole abbracciare tutta la realtà». Insomma il suo obiettivo sarebbe vedere tutto con gli occhi di Dio e saperLo riconoscere nel creato con i suoi stessi occhi. Possibile, ma solo a patto di rivalutare il simbolo che, diversamente da quanto si ritiene (utilizzato come sinonimo di apparenza), è in realtà “più vero del vero”! La scienza moderna ha generato tra l’altro quella tecnocrazia che, a noi occidentali fa ovviamente comodo, ma solo perché ne siamo i beneficiari: «quando i cinesi e gli indiani avranno anche loro le automobili che abbiamo noi – tuona Panikkar – , per la Terra non ci saranno più di cinquant’anni di vita». Terra che è di moda chiamare “madre”, salvo poi devastarla a nostro piacimento.. 

Che ne è allora di tutte le conquiste della modernità, ad esempio l’allunaggio?
«L’uomo è un essere locale.. (eppure) ha rotto la comunione con la Terra, e vuole andare su Marte.. (ma) voler fuggire dal nostro pianeta significa scappare da se stessi». Difficile dargli torto. Eppure l’essere umano non è solo spazio e tempo. 

Cosa pensa di quest’ultimo?
Lo ritiene «la vita delle cose» e il movimento attraverso il quale essa si dispiega, e che l’essere umano tende a rappresentare sia come linea che come cerchio. E a questo punto inserisce un altro suo celebre neologismo: la tempiternità, esperienza in cui si articolano tempo ed eternità, e questo perché la seconda «non è un tempo che non finisce mai. Semplicemente non è tempo.. quindi non può venire dopo il tempo, né prima, perché prima del tempo e dopo il tempo sono espressioni temporali». Per chiarire ulteriormente cita i Vangeli: «Il regno di Dio – afferma – non è per un dopo, è qui ed ora, un’“ora” ovviamente tempiterna.. (Gesù) non dice al ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso”? Oggi, non in futuro». 

Come definisce allora lo spazio?
Come «il correlato della (nostra) corporeità. Quando c’è un corpo c’è uno spazio», qualcosa cioè che in qualche modo “veste” i corpi, fatto che «ha grandi conseguenze.. vuol dire (ad esempio) che l’inferno e il cielo non sono luoghi». Toccando questo argomento, sempre nel libro di Luise, il discepolo gli chiede un parere su altri due concetti difficili sui quali spesso si dibatte, o almeno si dibatteva: creazionismo ed evoluzionismo. Il primo lo definisce non un momento puntuale, «come credono i fondamentalisti», ma qualcosa che avviene continuamente. Detto altrimenti: non è che Dio dopo aver creato il cielo e la terra va a riposare! Il secondo fa parte invece di quella concezione lineare del tempo che non condivide, inoltre «conoscere l’inizio di un fenomeno.. è un fatto di inestimabile valore, (ma) non è sufficiente. Non si conosce (infatti) una cosa senza conoscerne anche la fine». E il fine, aggiungiamo noi. 

Che ne è a questo punto della storia e, nello specifico, della Storia della Salvezza?
La storia, costruita sul tempo lineare di matrice ebraico-cristiana, è secondo lui una dimensione secondaria dell’uomo: certo un fatto storico è un fatto reale, ma la realtà supera di gran lunga la storicità. Quanto alla Storia della Salvezza precisa che l’escatologia, la dottrina che si occupa del destino ultimo dell’umanità e dell’universo, non è affare del futuro ma «superamento della storia». Ciò significa, cristianamente parlando, che fede, speranza e carità ce le giochiamo qui ed ora, senza proiettarle in ciò che viene dopo, ma in quella che lui chiama appunto tempiternità. 

A proposito di neologismi, Panikkar parla anche di ecosofia: cosa intende esattamente?
Allude a quella spiritualità della Terra già anticipata da alcuni esponenti di diverse religioni, tra i quali san Francesco. Ecosofia che non equivale ad ecologia, quest’ultima infatti – a parer suo – continua a sfruttare la natura, mentre la prima va intesa in una doppia accezione: la saggezza che l’essere umano è chiamato ad avere nei confronti della Terra, e la saggezza della Terra stessa che l’uomo deve saper ascoltare e interpretare. 

Come mai non si fece frate o monaco?
Perché, come risponde al discepolo del libro di Raffaele Luise, che gli pone la stessa domanda: «Il mio monastero è il mondo, il saeculum.. non ho rinunciato al mondo.. ho rinunciato a me stesso, o almeno cerco di farlo. Io amo il mondo e mi sento mondano nel senso più profondo della parola.. e allora posso godere delle cose e anche di un buon bicchiere di vino», facendo eco ai primi seguaci del già citato Poverello d’Assisi che, «guardando alle colline dell’Italia centrale.. (dicevano) Hoc est claustrum nostrum, “Questo è il nostro chiostro”. Il mondo». 

Che spettacolo! Non è in fondo quanto ha ispirato le Fraternità monastiche di Gerusalemme? 
Più o meno. Queste ultime, nate a Parigi come forma di rinnovamento ecclesiale nell’immediato post Vaticano II, riuniscono infatti monaci, monache e laici i quali, in diverse nazioni del mondo (in Italia sono presenti a Firenze, Pistoia, Gamogna e Roma) condividono una spiritualità che li chiama a vivere “nel cuore della città, nel cuore di Dio”. Sulla stessa scia si muove il presbitero anglicano Richard Carter che, dopo aver vissuto per anni sulle isole Salomone in Oceania, ha scelto di svolgere il suo ministero nel cuore di Londra, dove ha fondato la Comunità di Nazaret, come da lui stesso raccontato in un libro dal titolo già evocativo: La città è il mio monastero.  

Ma torniamo ai neologismi, uno dei quali riguarda la visione cosmo teandrica: cosa significa in concreto?
Siccome l’intera realtà è trinitaria, le sue tre dimensioni ce ne offrono la visione: «(quella) di infinito e di libertà che chiamiamo divina, la dimensione di coscienza che chiamiamo umana, la dimensione corporale o materiale che chiamiamo cosmica». Detta altrimenti, la realtà è fatta da tre dimensioni: divina (in greco Théos), umana (andrós) e cosmica (kósmos). Parlando della mistica invece – che ritiene non monopolio di pochi – , Panikkar fa riferimento ai suoi “tre occhi”, che soli ci danno accesso alla realtà, come sostenuto dal vescovo scolastico Ugo di San Vittore già nel dodicesimo secolo: l’occhio della carne, della mente e dello spirito. Per Raimon è necessario che la realtà sia percepita con tutti e tre insieme: se infatti la osservo con uno solo di questi occhi non ne colgo la ricchezza, perché non riguarda solo ciò che i miei sensi percepiscono, né solo ciò che penso, ma neppure il terzo occhio da solo basta. 

Cosa intende, invece, quando parla di cristiania?
Partendo dal fatto che la cristianità (la visione medievale totalitaria del mondo, politica e religiosa insieme) sia morta, con cristiania allude a quell’identità cristiana non cronologica, ma diciamo così qualitativa: quella che ognuno di noi, probabilmente oggi più che mai stanco di un cristianesimo “del passato” – basta vedere le nostre chiese vuote per renderci conto che il mondo va da un’altra parte, nel senso che le persone cercano “altro” – trova in chi gli parla davvero di Gesù, facendogliene fare anzi un’esperienza diretta. La cristiania, a differenza della cristianità, non è appesantita da sovrastrutture, che sono aggiunte umane fatte al vangelo nei venti secoli seguenti.

Considerata la sua esperienza religiosa, come viveva la preghiera?
Ritenendola partecipazione attiva alla corredenzione del mondo, forza capace di far sentire l’essere umano un tutt’uno con la gioia e il dolore del mondo intero, sicuro che tutto è in relazione, come unito da fili invisibili, per cui la preghiera sarebbe un modo per sciogliere quei “nodi” che impediscono tale relazione. 

Come giustificava la presenza del male nel mondo?
Ammettendolo, senza negarlo né combatterlo (equivarrebbe infatti a raddoppiarne la forza), e neppure tentando di spiegarlo (equivarrebbe invece a giustificarlo), ma considerandolo una cifra della contingenza e una rivelazione della realtà. Insomma parte del Mistero, l’altra faccia del divino. Non a caso Gesù non lo ha combattuto né teorizzato, ma lo ha preso su di sé, facendosene carico. 

A proposito di relazione, cosa pensava dell’amicizia?
Nella postfazione al libro di Luise interviene l’amico italiano più caro a Panikkar, Achille Rossi, che lo ha definito «non.. il classico intellettuale che traffica con le idee, ma uno spirituale che ha messo in gioco la propria vita.. “Non ha vissuto per scrivere, ma ha scritto per vivere in modo più cosciente”». Rossi che precisa come l’amico non ritenesse la filosofia “amore per la sapienza”, definizione etimologica greca con la quale siamo soliti confrontarci, ma “sapienza dell’amore”. L’amicizia – considerata da Panikkar “la cosa più bella della sua vita”, frase che ripeteva a chiunque andasse a trovarlo – , era solito celebrarla come un vero e proprio rito: chi gli faceva visita s’imbatteva in una tavola apparecchiata, una candela accesa e dei fiori sul tavolo, piccoli segni che dicevano il suo culto per l’altro.    

Della santità invece?
Ci sia permesso anzitutto un accostamento forse non troppo azzardato, che vede nel buddhismo la figura molto “cristiana” del Bodhisattva, colui che, pur avendo raggiunto l’illuminazione, quindi esaurito il ciclo delle reincarnazioni, sceglie di rinunciarvi provvisoriamente, fino a che “tutti” non possano seguirlo in quella che da occidentali chiameremmo “salvezza”. Il suo voto recita infatti: «Io accetto per madre, padre, fratello, figli, parenti tutte le creature», sentendo in ciò un’eco dell’evangelico «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Per Raimon santità equivale ad essere fedeli a sé stessi, spendendo i talenti che ci sono stati dati, per dirla col Vangelo, essere insomma responsabili, capaci cioè di rispondere a quanto la Vita ci ha messo davanti. Parlava poi della risurrezione attraverso la metafora dell’acqua, là dove ogni individuo sarebbe una goccia, facente parte però di qualcosa di molto più grande, quel “mare” in cui le altre gocce diventano parte di me, realizzando una comunione perfetta. «Cosa sei – ripeteva spesso – : la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? Il tempo di questa vita mi è dato per scoprirmi acqua!».  L’immagine potrebbe rimandare i più attempati ad una canzone di Lucio Dalla, datata ormai 1971, La casa in riva al mare, che inizia così: «Dalla sua cella lui vedeva solo il mare, ed una casa bianca in mezzo al blu. Una donna si affacciava: Maria!». Ma chi è il “detenuto” che parla? Cosa rappresenta il mare? E quella «casa bianca in mezzo al blu»? Ma soprattutto, chi è Maria? Piccola parentesi: curioso che l’unica canzone italiana ad iniziare con la parola “dalla” sia – forse volutamente – proprio di Lucio.. Tornando alla metafora di Panikkar, con la morte scomparirebbero l’individuo e il suo ego, ma non la persona. Resurrezione che non riguarda tanto l’aldilà, il dopo, ma il qui ed ora, perché una vita risorta è una vita pienamente realizzata già adesso. Morì quasi novantaduenne alle ore 19 del 26 agosto 2010. Le esequie vennero celebrate nella pieve di san Cristofol e presiedute dal vescovo di Vic, attorniato da una grande folla proveniente da ogni dove. 

Oltre a Raffaele Luise, chi altri si è interessato di questa gigantesca figura?
Lo hanno fatto in diversi, ad esempio il teologo, scrittore e poeta polacco Maciej Bielawski, che nel suo libro Canto di una biblioteca parla di Panikkar attraverso un espediente letterario geniale, lasciando cioè che sia la sua biblioteca a raccontarcelo: «I miei scaffali sono pentagrammi e note i miei libri, ma chi sentirà il mio canto?». Lunga quattrocento metri e composta da dodicimila volumi (ma alcuni libri sono andati perduti, mentre altri sono stati donati all’Opus Dei), narrando in prima persona, si chiede in fondo come sopravvivere alla morte fisica di chi per lei ha speso l’intera vita. Libri con i quali Panikkar trascorreva le sue giornate, lui che pur conoscendone una ventina, leggeva e scriveva correttamente in sette lingue, “massacrando” i testi consultati attraverso marginalia (brevi considerazioni a margine dello scritto) della medesima lingua in cui li leggeva. Leggeva un libro in spagnolo? Marginalia in spagnolo. Lo leggeva in bengalese? Marginalia in bengalese. Per tale ragione Bielawski definisce Panikkar un “lettore attivo”, capace di instaurare un vero corpo a corpo col testo, dialogando quasi fisicamente con il suo interlocutore: se l’autore del libro che leggeva sosteneva ad esempio che Dio non esiste, lui commentava a lato “Dio esiste!”, aggiungendo il perché. Raimon, che non amava i romanzi, annotava ogni venticinque pagine circa la data di lettura, per cui è stato possibile al suo biografo polacco risalire a cosa ha letto quando, scoprendo che diversi testi li aveva letti e riletti in diversi momenti della vita, e questo perché, se un libro non cambia, noi sì..      

Oltre a Panikkar, invece, chi altri si è cimentato così tanto nel dibattito interreligioso?
Anche in questo caso la risposta è la medesima, in diversi, tra i quali il teologo e pastore protestante keniota Shafique Keshavjee, che da anni si dedica al dialogo interreligioso ed è noto al grande pubblico soprattutto per quel gioiellino scritto nel 1998: Il Re, il Saggio e il Buffone, capace di far parlare alcune tra le più grandi religioni mondiali, insieme all’ateismo, all’interno di un immaginario torneo convocato da un Re capace di riconoscere i propri limiti: «E se invitassimo – domanda al Saggio e al Buffone di corte – i più degni rappresentanti di tutte le religioni perché vengano a presentarci la loro fede?». Tale domanda scaturirà in un meraviglioso confronto, aperto e umano, tra chi, in fondo, cerca da sempre la stessa Cosa..  

«Ringraziamo te, Signore, per averci donato un fratello così umano e aperto alla Vita, e ringraziamo lui con le stesse parole del discepolo immaginario in cui ci rivediamo: “Grazie Raimon, perché sei stato il profeta del dopodomani.. ci hai condotto più vicino al Mistero. Ma il nostro tempo non possiede ancora le parole e gli strumenti per comprendere la portata del tuo insegnamento.. Ma con te e con i grandi orizzonti che hai dischiuso, le religioni, le culture e i sinceri cercatori della verità dovranno necessariamente confrontarsi”».     

   

Recita
Massimo Montanari, Cristian Messina

Musica di sottofondo
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