Compagni di viaggio: Viktor Frankl (16 Giugno)



Viktor Frankl
«La mia vita non ha senso».. affermazione che oggi, aimè, rischia di fotografare l’esistenza di non poche persone. Ma cosa traduce in concreto? La constatazione che dal nulla provengo e al nulla sono destinato, per cui su questa terra non ho alcun compito da svolgere, dato che nessuno mi ha voluto, se non il caso, né alcuno mi ha atteso né desiderato. La mia vita, dunque, non ha sapore, né significato, né direzione. Ma se non c’è una meta che mi attende, verso dove mi dirigerò? Non è forse dalla meta che si costruisce l’intero tragitto? Il 16 giugno 2012 è l’ultimo giorno che vede Eugenio Fizzotti (1946-2018) come presidente dell’Associazione di Logoterapia e Analisi Esistenziale Frankliana (A.L.Æ.F.), di cui egli stesso fu fondatore nel 1992. Presbitero salesiano, è stato traduttore e curatore in italiano di quasi tutte le opere dello psichiatra viennese Viktor Frankl. 

Chi è quest’ultimo? 
Per rispondere è necessario fare non uno, ma due passi indietro. Nel 2007 il celebre filosofo e psicanalista Umberto Galimberti dà alle stampe un piccolo gioiellino, L’ospite inquietante, saggio che indaga, all’interno del mondo giovanile, il fenomeno del nichilismo, dal latino nihil, “nulla”. Quello che Nietzsche chiamava «il più inquietante fra gli ospiti», altro non è che la negazione di ogni valore, nemico numero uno dell’epoca contemporanea, in primis della fascia giovanile, appunto. È a causa sua che i giovani, dice Galimberti, «anche se non lo sanno, stanno male.. le famiglie e la scuola non sanno cosa fare.. giovani che nessuno riesce più a intercettare (se non) gli operatori di mercato, che li conoscono meglio di quanto li conoscano i loro genitori e i loro professori. I giovani stanno male non per ragioni esistenziali.. ma per ragioni culturali.. (poiché) tutti i valori non hanno più valore.. Ospite inquietante che è entrato nella psicologia dei nostri giovani nella configurazione tipica del nostro tempo, che è quella di un’assenza di futuro.. che per loro è una sorta di minaccia.. (di fronte a questa assenza di riferimenti) c’è da un lato la scuola, che non sa più come raccapezzarsi.. c’è la posizione cristiana, che dice che questi giovani non riescono a reperire un senso nella loro vita: io non credo che il senso sia una categoria salvifica.. la categoria del senso, che è una categoria religiosa, non credo possa redimere questi giovani..». 

Ma è proprio come dice Galimberti? 
Per il già citato neurologo, psichiatra e filosofo austriaco Viktor Emil Frankl, decisamente no! Nato a Vienna nel 1905, già da studente universitario inizia a interrogarsi sull’enorme tasso di suicidi giovanili che seguono immediatamente la Seconda Guerra Mondiale: a 18 anni inizia a pubblicare sul quotidiano viennese Der Tag alcuni articoli sui giovani. Nel 1930 si laurea in medicina, per poi specializzarsi in neurologia e psichiatria. Dodici anni dopo viene deportato, in quanto ebreo, assieme alla moglie Tilly, agli anziani genitori e al fratello, in cinque campi di concentramento diversi: Auschwitz, Dachau, Kaufering, Türkheim e Theresienstadt. Durante i tre anni di questa prigionia matura l’idea che già coltivava da tempo: l’uomo per vivere ha bisogno soprattutto di senso. È questo che ha permesso a lui e ad altri reclusi di non “correre al filo”, espressione quest’ultima che consisteva nel lasciarsi morire, cedendo alla pesantezza della situazione, andando a toccare la rete elettrificata che circondava i campi. 

Dunque, anche lui morì fra i quindici milioni di ebrei e non solo?
No. Il 27 aprile 1945 il suo experimentum crucis, se così ci possiamo esprimere, si concluse: a quarant’anni tornò a Vienna, ma per lui, com’è facile immaginarsi, fu tutt’altro che facile, anzi, venne addirittura attaccato dai “suoi”, perché ebbe il coraggio di sostenere la “bontà” di alcuni nazisti, distintisi durante quella tragica vicenda: detto altrimenti, non fece “di tutta un’erba un fascio”. 

Tornando alla sua idea relativa alla ricerca di senso, come la sviluppò?
Un’altra sua intuizione giovanile fu la seguente: molte persone hanno un atteggiamento deviante nella loro ricerca di senso, e questo perché sono preoccupate di porsi domande, mentre il senso risiede nel dare risposte alla vita, che già da sola ne pone. La chiave è allora vivere responsabilmente, nell’hic et nunc quotidiano. Si badi bene: “dare risposte” non significa farlo a parole o in senso puramente intellettuale, bensì agendo concretamente. Nel 1948 pubblica Il Dio inconscio, che gli vale la laurea in filosofia, e in cui mostra come l’uomo non sia soltanto dominato da un’istintività inconscia, come sosteneva invece Freud, ma anche da un inconscio spirituale. Nei primi anni ’50 poi – ecco il fulcro della sua tesi – , conia il termine vuoto esistenziale, col quale indica quello che stava diventando il male del secolo, come detto già preannunciato a fine ’800 da Nietzsche. La sua scoperta più originale è tuttavia che non esistono solo nevrosi somatogene e psicogene, ma anche noogene (mancanza di senso, disperazione o depressione), dovute sia a conflitti etici sia a problemi irrisolti di natura esistenziale e/o religiosa. Nel 1978 viene pubblicato La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, sorta di prezioso vademecum a riguardo.  

Ma quali sono, in concreto, le proposte di Frankl riguardo alla ricerca di senso?
Le tre strade che egli indica per trovare senso (non inventarlo!) sono: anzitutto il fatto che bisogna fare qualcosa, concretamente (ad esempio un lavoro o uno sport); in secondo luogo che qualcosa o qualcuno venga vissuto intensamente (arte, amore, ecc..); infine che si prenda posizione di fronte al dolore (malattie, conflitti profondi, e via dicendo..). Ciò significa, tra l’altro, che il bello, il buono e il vero possono essere vissuti da tutti, ovunque e in qualunque situazione, anche limite, trasformando in tal modo la tragedia – direbbe lo stesso Frankl – in trionfo. Soprattutto, però, occorre rispondere alle domande che già vengono dal mondo, dalla società, dalla cultura e dalla religione.  

Tornando al nichilismo, è qualcosa che dunque ha sperimentato egli stesso..
Proprio così: «..dentro di me – afferma – per prima cosa ho dovuto superare il mio stesso nichilismo.. (che) è essenzialmente una facoltà umana e non una malattia, non è una nevrosi (sofferenza psichica con sintomi quali ansia, coazione, inibizioni, ecc..), ma comunque qualcosa che va superato». Diffusa mancanza di senso che, a suo parere, è prova della (im)maturità spirituale di una persona. L’uomo infatti partecipa a tre dimensioni: corporea (somatica, organica), psichica (mentale) e spirituale (secondo lui la più “propria” dell’uomo). Per alcuni quest’ultima è stata assorbita dalla psichica, ragion per cui la nostra epoca vive come se le dimensioni fossero solo due..

Ci sono termini quali autotrascendenza o autodistanziamento, che egli utilizza.. cosa intende esattamente con essi?
Con autotrascendenza Frankl allude al fatto che l’uomo si protende sempre al di là di sé stesso.  Autotrascendenti sono ad esempio i nostri occhi: non vedono sé stessi, ma altro. Fuor di metafora, l’uomo è sé stesso solo nella misura in cui dimentica sé stesso (poiché “non si vede”), e ciò avviene nel servire una causa, nel dedicarsi ad un compito o a una persona. Accanto a tale facoltà c’è poi l’autodistanziamento: l’uomo può infatti staccarsi da sé stesso, persino contrapporsi a sé stesso, e ciò può avvenire anche in modo ironico, cosa che ad esempio l’animale non è in grado di fare.  Altra definizione originale è poi quella di intenzione paradossa, il fatto che il paziente debba desiderare o prefiggersi addirittura ciò che fino a quel momento ha temuto. Nei campi di concentramento Frankl ha sperimentato infatti che avevano maggiori possibilità di sopravvivere coloro che erano orientati verso un compito preciso nel futuro, e ha chiamato tale “scoperta” volontà di significato. I valori generali, ad esempio “non rubare”, sono quelli che si sono cristallizzati culturalmente nel tempo, ma possono essere eccezionalmente messi in crisi: dato che ci sono situazioni in cui “rubare” è l’unica cosa sensata, a differenza del senso, che – per via del suo hic et nunc – esiste sempre.  

Nella nostra epoca, come si misurano tali concetti, ad esempio con l’elevata tecnologia che la caratterizza?
Albert Einstein diceva che la scienza non può indicare scopi, perché non è in grado di fornire alcun senso e fine. Cosa fa infatti la tecnica? Non potendo darci senso, ha la pretesa di fornirci i mezzi per raggiungerlo (!?). Perché la gente allora – è il caso di chiedersi – è più infelice nella società del benessere? Per via della mancanza di significato: la società è infatti impegnata non solo a soddisfare bisogni, ma arriva a produrli! Ma quello fondamentale è legato al senso, che non è affare solo dell’uomo religioso, bensì di ogni persona. «Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha», canta Vasco Rossi, invece il senso la vita ce l’ha eccome, e non dobbiamo crearlo, perché esiste già, prova ne è il fatto che lo cerchiamo, allo stesso modo in cui la sete prova l’esistenza di qualcosa di simile all’acqua. 

E la sfera religiosa, come può contribuire a questa “ricerca”?
La religione, che mira alla salvezza dell’anima, ha un effetto psicoterapeutico, ma non è un obiettivo psicoterapeutico, rappresentato invece dalla guarigione psichica. Per il celebre teologo svizzero Hans Küng (1928-2021), addirittura, la Chiesa può perfino contribuire a creare crisi di senso anziché curarle, mentre il ginecologo berlinese Schätzing parla invece di nevrosi ecclesiogena, originata cioè dall’educazione religiosa. In tal caso abbiamo ovviamente a che fare con un’errata educazione religiosa..   L’incipit giovanneo «In principio era il verbo» andrebbe sotto questo punto di vista reso con «In principio era il senso», o meglio «In principio era l’azione» o, meglio ancora: «In principio era il senso, e il senso era l’azione». 

Tornando a quello che afferma Galimberti, invece, come s’interseca con la tesi di Frankl?
Chiediamoci: cosa ha generato il vuoto esistenziale? L’essere umano non ha istinti e impulsi che gli dicono cosa deve fare, come l’animale, e a differenza del passato non ha più tradizioni che gli dicano cosa dovrebbe fare. Così, non sapendo né cosa deve né cosa dovrebbe fare, egli non sa più neppure cosa vuole fare. E qui si aprono due soluzioni: o vuole fare solo ciò che fanno gli altri, cadendo vittima del conformismo, o fa solo ciò che gli altri vogliono, espressione del totalitarismo. La frustrazione esistenziale è inoltre – sempre utilizzando la terminologia frankliana – una nevrosi sociogena, è un fatto cioè sociologico: la perdita della tradizione rende in pratica l’uomo insicuro sul piano esistenziale. 

A supporto di queste considerazioni l’autore si è appoggiato a dati statistici?
Diversi studi del suo tempo quantificano ad esempio il grado di frustrazione esistenziale: circa i suicidi, per l’85% di chi lo ha tentato “la vita non significa nulla”, e tra costoro il 93% era in eccellenti condizioni fisiche, attivamente impegnato nel sociale, con ottimi risultati di studio e buone relazioni familiari. Per quanto riguarda la tossicodipendenza, alla base non c’è una debole immagine del padre, ma il grado di frustrazione esistenziale era significativamente correlato all’assunzione di stupefacenti. Circa l’alcolismo, invece, il 90% dei testati soffriva di “mancanza di senso”. In relazione alla criminalità, infine, sottolineava come anch’essa avesse una legame col vuoto esistenziale. 

Possiamo, in fin dei conti, dire che la ricerca di senso dipende da qualcun altro?
No, il senso non può ad esempio essere dato dal terapeuta, ma va trovato personalmente, ogni volta e solo dal diretto interessato, che lo coglierà come la possibilità di modificare la realtà attraverso un’azione, un’opera, un’esperienza, ad esempio affettiva e in modo creativo. E ciò è possibile a tutti, indipendentemente dal livello di istruzione, sesso, religiosità o irreligiosità, quoziente d’intelligenza, ecc.., e in ogni momento, fino all’ultimo respiro! Solo una psicoterapia riumanizzata sarà in grado, dice Eugenio Fizzotti, di cogliere i segni dei tempi e le necessità dei nostri giorni, attraverso la già citata autotrascendenza (l’uomo è fatto per..) e l’autodistanziamento (la capacità di ridere e di ridere di sé). Ma ciò potrà avvenire solo a patto di riconoscere l’essere umano anche, ma non solo, come animale, che, a differenza dell’uomo, non cerca senso né ride di sé..

Donaci, Signore, la gioia di sentirci da Te attesi, desiderati e voluti, e la capacità di scoprire il senso che hai riservato ad ogni nostra giornata, ma anche la possibilità di contagiare chi, come noi, in tale ricerca di sapore, significato e direzione, può trovare, forse senza rendersene neppure conto, Te.  

 

Recita
Maruska Guiducci, Cristian Messina

Musica di sottofondo
Musiche di Lorenzo Tempesti
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