Compagni di viaggio: Simone Weil (3 Febbraio)



Simone Weil (3 Febbraio)
«Il volto piccolo, stretto, letteralmente mangiata dai capelli e dagli occhiali; il naso affilato, gli occhi neri che fissavano arditi, il collo teso in avanti davano l’impressione di una curiosità appassionata, quasi indiscreta.. era un volto insolente e tenero insieme.. Il corpo era gracile, i gesti vivaci ma spesso impacciati. Indossava abiti di taglio maschile, sempre dello stesso modello.. aveva il dono di irritare molti». 

Di chi stiamo parlando?
Di Simone Weil, i cui tratti esteriori ci sono appena stati descritti da un’altra Simone, Pétrement, compagna di liceo che ne ha realizzato la più fedele e corposa biografia, la quale aggiunge: «socievole, appassionatamente ardente di amicizia e amica fedele, molto caritatevole, piena di sdegno per l’ingiustizia – ma non per quella di cui era personalmente vittima; coraggiosa, paziente e dotata di una volontà incrollabile; intelligente, pur senza le straordinarie attitudini del fratello (Andrè) – da lei molto amato, il quale diventerà un grande matematico, ndr – ..lenta nei lavori manuali.. avida di sapere». 

Cosa sappiamo di lei? 
Proveniente da una famiglia ebrea non praticante, era infatti figlia del medico alsaziano di origini ebraiche Bernard Weil, e della russo-belga Selma Reinherz, entrambi agnostici, Simone nasce il 3 febbraio 1909 – ragion per cui la celebriamo proprio oggi – a Parigi. Dal carattere profondo e sensibile, a quattordici anni attraversa una crisi adolescenziale che la porta ad ipotizzare il suicidio. La sua salute cagionevole in ogni caso non le darà tregua: a ventuno anni cominciano a comparire quelle cefalee che la faranno soffrire sino alla fine dei suoi giorni, accompagnate da sinusite cronica e dall’anemia. Dopo essersi infatti ammalata di appendicite a tre anni e di rosolia a cinque (rischiando la vita in entrambi i casi), a nove viene premiata come la migliore della classe, ma non può partecipare alla cerimonia perché ammalata di pertosse! A farla soffrire si aggiunge inoltre l’inevitabile confronto col fratello maggiore André, precoce talento matematico capace di superare l’esame di maturità a tredici anni. Simone lo ama e lo invidia al tempo stesso, passandovi l’infanzia a leggere le fiabe dei fratelli Grimm. 

Qual è stato il suo percorso di studi?
Fra il 1919 e il 1928 studia in diversi licei parigini, per esser poi ammessa all’École Normale Supérieure, dove ha come professori di filosofia René Le Senne e Alain: sarà quest’ultimo, in particolare, ad influenzarne il pensiero. Laureatasi in filosofia nel 1931 e militando nei movimenti dell’estrema sinistra rivoluzionaria, pur senza iscriversi ad alcun partito, da quel momento e per sette anni insegna nei licei femminili di varie città di provincia: Le Puy-en-Velay, Auxerre, Roanne, Bourges e San Quintino. Nel primo dei luoghi citati dà scandalo distribuendo lo stipendio fra gli operai in sciopero, suscitando tra l’altro disorientamento fra le sue alunne, vietando di studiare sul manuale di filosofia e rifiutandosi a volte di dar loro i voti. Non solo, decise di vivere spendendo per sé solo l’equivalente dello stipendio pari al sussidio dei disoccupati, al fine di sperimentare le ristrettezze economiche. 

Si è detto che «aveva il dono di irritare molti».. ovvero?
La sua figura è stata variamente interpretata: se da piccola era soprannominata “la marziana”, e presto ribattezzata “l’imperativo categorico in gonnella”, il Nobel per la letteratura André Gide la definirà “la santa degli esclusi”, mentre la celebre Simone de Beauvoir, di un anno più anziana di lei e frequentante lo stesso liceo, ricorda nelle sue Memorie di una ragazza per bene di aver fatto fatica ad “avvicinarla”, tanto che il loro primo dialogo sarà anche l’ultimo.. genialità troppo diverse fra loro. La scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann la ritiene «mezza eretica e potenziale santa.. una fanatica dell’esattezza nel pensiero e nella vita», mentre un altro scrittore, Pietro Citati, afferma: «Da bambina era molto bella: poi, disse qualcuno, “depose questo dono di bellezza, come se l’avesse scartato”.. Non amava giocare. Non sapeva correre.. si proibiva qualsiasi debolezza.. Non voleva essere né toccata né abbracciata.. Temeva gli affetti.. Sognava la dura purezza verginale delle eroine greche: Elettra ed Antigone.. – concetto di purezza che, scriverà lei stessa, “si è impadronito di me a sedici anni” – Al liceo.. – prosegue Citati – Rifiutava con orrore la prigionia del tempo, per agire nella storia». Ma ad averci regalato le pagine più belle sul suo conto sono anche i tanti che l’hanno tradotta o pubblicata.  

Ad esempio?
Se oggi è così celebre, è anche grazie allo zelo editoriale del poliedrico scrittore francese Albert Camus, che dopo la morte di lei ne ha divulgato e promosso la maggior parte degli scritti, considerando il suo lascito il miglior antidoto al nichilismo imperante, talmente legato alla sua figura da custodirne una foto sulla scrivania. A parte alcuni articoli infatti, le sue opere vengono pubblicate postume e iniziano a essere tradotte in italiano per iniziativa di Adriano Olivetti nei primi anni cinquanta, proprio mentre esce il film di Roberto Rossellini Europa ’51, in cui la protagonista si ispirata alla Weil, cui verrà dedicato un secondo film italiano nel 2011, Le stelle inquiete, focalizzato sulla fase marsigliese della sua vita, quella in cui conosce Gustave Thibon, teologo “amatoriale” o “filosofo contadino” che, dopo la seconda guerra mondiale, ha dato alle stampe alcune parti dei dieci quaderni che Simone gli aveva affidato, in seguito integralmente pubblicati nella traduzione italiana della Adelphi. Tali quaderni, editi parzialmente da Thibon nel 1947 nel volume La pesanteur et la grâce, vengono pubblicati integralmente a partire dal 1951 sotto il titolo, appunto, di Quaderni, Cahiers.

La vita della Weil si è svolta unicamente in patria?
Tutt’altro. Nel 1932 si reca in Germania, sia per capirne il clima politico sia come questo veniva “respirato” dalla gente. A venticinque anni si fa assumere come operaia, con alcune interruzioni, fino al 1935, mentre a ventisette si unisce alle forze repubblicane nella battaglia civile in Spagna. Ustionatasi ad una gamba, rientra in Francia. Nel 1937 inizia un lungo viaggio in Italia, e tre anni dopo, mentre le truppe tedesche sono ormai vicine a Parigi, con i genitori si dirige verso Marsiglia, dove conosce Joseph-Marie Perrin, il domenicano quasi cieco diventato in pratica sua guida spirituale, col quale intraprende una corrispondenza epistolare. Il frate raccoglierà tra l’altro, nel volume Attesa di Dio, alcuni scritti lasciatigli da Simone, e le farà conoscere il già citato Thibon, che la assume nella propria fattoria a Saint-Marcel-d’Ardèche. Così, nell’autunno del 1941, la pensatrice lavora come operaia agricola – fase della vita sulla quale è incentrata la già citata pellicola Le stelle inquiete – abitando in una casetta semi diroccata. A Marsiglia viene inoltre arrestata mentre distribuisce volantini contro il governo e, quando il giudice minaccia di chiuderla in cella con delle prostitute, replica di aver sempre desiderato conoscere quell’ambiente e di non avere altro mezzo per farlo che la prigione: il giudice la lascia andare credendola matta! A luglio del ’42, ancora con i genitori, sbarca a New York, in cui conosce invece il secondo domenicano, Marie-Alan Couturier, divenuto poi celebre nel campo dell’arte sacra, delle vetrate nella fattispecie; a lui indirizza una lunga missiva edita in seguito come Lettera a un religioso. Qui  frequenta i quartieri afroamericani e le chiese battiste, passando molto tempo in biblioteca. 

Si è già detto che lavorò in fabbrica.. che eco ebbe quest’esperienza nella sua vita?
Il 4 dicembre 1934 entra come manovale nelle fabbriche metallurgiche di Parigi, lavorando otto mesi nelle officine Alstom, Carnaud e Renault, esperienza decisiva (in particolare l’ultima, nelle vesti di fresatrice) che verrà raccolta sotto forma di diario e di lettere nell’opera La condizione operaia. Ad Albertine Thévenon scrive ad esempio: «Solo il sabato pomeriggio e la domenica posso respirare, ritrovo me stessa.. la tentazione più difficile da respingere (infatti), in una vita simile, è quella di rinunciare completamente a pensare.. non c’è che il lavoro». In un articolo postumo ricostruisce quanto era avvenuto in lei: «Come si è soli! Faccio 400 pezzi l’ora. Sarà abbastanza? ..Più presto. Ancora più presto.. Bisogna raddoppiare il ritmo.. La campana. Timbrare, vestirsi, uscir dalla fabbrica, con.. la menta svuotata d’ogni pensiero, il cuore gonfio di disgusto, di rabbia silenziosa, e, soprattutto, un senso di impotenza e di sottomissione». Lo psichiatra Eugenio Borgna nel 2016 dà alle stampe L’indicibile tenerezza, un testo sulla psichiatria, illuminata però dalle pagine (da lui “ruminate” nel corso della sua lunga vita) di Simone Weil, capaci di riscattarci «dalla banalità e dalla terrestrità delle esperienze oggi dilaganti». Quanto al periodo trascorso da lei fra gli operai, Borgna così commenta: «Il diario di fabbrica.. mette in drastica evidenza il fenomeno.. della disumanizzazione, che si esprime nel togliere alle persone libertà e autonomia.. nel trasformarle in cose, in oggetti.. e questo ancora oggi avviene, non solo nei luoghi di lavoro, ma anche nelle quotidiane relazioni di vita». Insomma, il meccanismo che si attua in fabbrica non è altro che la punta massima di quell’iceberg che rischia di essere la società nel suo complesso! In una lettera inviata al Perrin, Simone ricorda inoltre: «Quel che ho subito in fabbrica mi ha segnata in modo così durevole che ancora oggi, quando un essere umano, chiunque sia e in qualsiasi circostanza, mi parla senza brutalità, non posso non avere l’impressione che si tratti di uno sbaglio». 

Insomma una brutta avventura..
Più che altro una sventura, per dirla con Simone, fenomeno che tuttavia riguarda ogni essere umano e da lei tradotto col francese malheur, conseguenza dell’antica colpa, ragion per cui «Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire». Così, per ricongiungersi a Dio, fin dalla creazione l’uomo è chiamato ad una nuova «follia»: immolarsi e accettare la propria sventura sino in fondo. «Mentre ero in fabbrica.. – scrive in una lettera del 1941 a Perrin – la sventura altrui è penetrata nella mia carne e nella mia anima». Sventura che, precisa Borgna, «non ha l’ambiguità e gli inquietanti risvolti della parola francese malheur che sconfina semanticamente nella infelicità, nel dolore, e nel male». Questo vocabolo transalpino, letteralmente “mala ora”, “mala sorte”, “mal tempo”, traduce infatti “sfortuna, disgrazia, sorte funesta, cattivo presagio”. Il concetto è legato per la Weil alla schiavitù, che riduce la persona unicamente a distrarsi e divertirsi, senza alcuna finalità. Dis-trarsi, “togliersi-da” ..cosa? Di-vertirsi, “volgersi-altrove” ..ma verso dove? Il contrario di tutto ciò Simone lo individua nell’attenzione, a parer suo una categoria dello spirito.  

Ovvero?
Facendo propria la massima del commediografo romano Publio Terenzio «Niente di ciò che è umano mi è estraneo», Simone paragona l’attenzione alla preghiera: «è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si inspira e si espira», ma – ecco il punto! – «Nella nostra anima c’è qualcosa a cui ripugna la vera attenzione.. molto più vicino al male di quanto lo sia la carne. Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po’ di male in noi stessi». Lo stesso vocabolo è invece descritto da Cristina Campo – penna fiorentina peraltro traduttrice italiana dell’ultima opera incompiuta della Weil, Venezia salvata – come sinonimo di responsabilità, ovvero la capacità di rispondere a qualcosa o a qualcuno: «Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione». Altro concetto chiave per la filosofa francese era poi quello di amicizia, tanto da farle scrivere al poeta Joë Bousquet: «Sono giunta al punto che non posso assolutamente concepire l’eventualità che un qualche essere umano provi amicizia per me.. Poiché l’amicizia è per me un beneficio incomparabile, senza misura, una sorgente di vita.. (che) spesso abita nelle cose». Amicizia che per lei andava oltre le barriere dello spazio-tempo, essendo un dialogo della memoria, non tuttavia quella cronologica, capace tra l’altro di mutare nell’arco delle varie stagioni della vita, ma fondata sulla capacità di saper stare da soli. Nei suo Quaderni scrive: «Desiderare l’amicizia è una colpa grave.. (dato che) deve essere una gioia gratuita.. essa appartiene (infatti) all’ordine della grazia». E ancora: «L’amicizia non si cerca, non si sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù)», fino a spingersi, prendendo le mosse dall’invito di Gesù ad amarci l’un l’altro, a ritenerla un sacramento, immagine della relazione intratrinitaria. Amicizia che, infine, ha bisogno più di ogni altra cosa di attenzione. E il cerchio si chiude..

Si è detto anche che Simone Weil non fosse troppo femminile.. è vero?
No, lo era eccome, e non solo esteticamente parlando. Gabriella Fiori, una dei suoi biografi, sottolinea come si sia arrivati a definirla una non-donna, eppure la sua femminilità fu tale da portarla a ipotizzare di inviare infermiere proprio al fronte, «nel centro stesso della battaglia, nel punto culminante della ferocia.. sfida (soprattutto simbolica che) colpirebbe tanto di più perché a svolgere questi compiti umanitari sarebbero delle donne animate da una tenerezza materna.. evocazione concreta ed esaltante delle case lontane (dei soldati)». Una tenerezza che non mancava di manifestare prima di tutto alle sue stesse alunne di liceo: «Si metta in testa una volta per tutte – scrive ad Huguette Baur nell’estate del ’34 – che penso spesso a lei con affetto».     

Quanto al suo rapporto con Dio, invece?
Da pensatrice a tutto tondo qual’era, nella primavera del 1940 legge il famoso testo induista della Bhagavad Gìta e ne studia la lingua originale, il sanscrito, quindi afferma che «Una scienza che non ci accosta a Dio non vale niente», considerando l’attuale distanza fra scienza e religione come il vero «scandalo del pensiero moderno». La creazione è stata a parer suo una «follia» di Dio il quale, per darci spazio, ha rinunciato a sé stesso: «Ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo». «Il dovere di accettare la volontà di Dio – aggiunge – , qualunque fosse, si è imposto al mio animo come il primo e più necessario di tutti, quello senza il quale non ci si può sottrarre senza disonorarsi.. Beninteso, mi rendevo perfettamente conto che la mia concezione della vita era cristiana. Per questo, non mi è mai venuto in mente di poter entrare nel cristianesimo: avevo l’impressione di esservi nata. Ma aggiungere a questa concezione della vita il dogma, senza esservi costretta da una evidenza, mi sarebbe parso mancanza di probità.. Astenendomi così dal dogma, una specie di pudore mi impediva di entrare nelle chiese, sebbene mi piacesse trovarmici. Ho avuto, tuttavia, tre contatti con il cattolicesimo che sono stati veramente fondamentali».  

Di quali sta parlando?
Il primo «(quando) sono entrata in (un) paesino portoghese.. improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro. Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella.. di Santa Maria degli Angeli.. qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta nella mia vita, a inginocchiarmi. Nel 1938 – è ancora lei a parlare – ho passato dieci giorni a Solesmes.. Durante queste funzioni.. (in cui rimane folgorata dai canti gregoriani, ndr) Fu un giovane inglese cattolico.. a darmi per la prima volta l’idea di una virtù soprannaturale dei sacramenti, con lo splendore veramente angelico di cui pareva rivestito dopo essersi comunicato. Il caso – preferisco sempre dire caso anziché Provvidenza – fece di lui, per me, un vero messaggero: perché mi fece conoscere quei poeti inglesi del Seicento che vengono detti metafisici. Più tardi, nel leggerli, vi ho scoperto la poesia (intitolata).. Amore. L’ho imparata a memoria.. Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo.. è disceso e mi ha presa». Da quel momento “scopre” la preghiera, di cui parla in uno degli ultimi quaderni: «Supplicare è attendere dal di fuori la vita o la morte. In ginocchio, il capo reclinato, nella posizione che meglio consenta al vincitore di tagliare il collo con un colpo di spada; la mano che tocca le sue ginocchia.. per ricevere dalla sua compassione, come dal seme di un padre, il dono della vita», e sentenzia: «Bisognerebbe pregare Dio così».

Preghiera che è per lei una sorta di attesa, se così possiamo dire..
In qualche modo sì. Durante i suoi ultimi mesi di vita scrive infatti: «Dio attende con pazienza che io voglia.. acconsentire ad amarlo.. attende come un mendicante che se ne sta in piedi, immobile e silenzioso, davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane. Il tempo è questa attesa.. l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Gli astri, le montagne, il mare, tutto quello che ci parla del tempo ci reca la supplica di Dio». E precisa: «Non siamo noi ad essere in attesa di Dio.. è (Lui) ad essere in attesa, a farsi mendicante, della nostra attenzione, della nostra nostalgia e della nostra preghiera».        

Ebbe insomma un rapporto molto intenso con Dio, non pare altrettanto con la Chiesa..
A turbarla di quest’ultima è in particolare la formula Extra Ecclesiam nulla salus: come può non esserci salvezza al di fuori della Chiesa? E tutti i nati prima di Gesù? Che ne sarà di coloro che, pur senza colpa, non hanno avuto la possibilità di conoscerlo? Eppure Simone continuerà ad assistere da “esclusa” alle liturgie cattoliche, perché: «Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazione senza eccezione, (essendo) cattolico (dal greco “universale”, ndr)». Paradossalmente arriverà ad affermare: «disposta a morire per la Chiesa, se mai ne avesse bisogno, piuttosto che entrarvi». Giovanni Pozzi, docente universitario in Svizzera, ha scritto in proposito: «Conquistata da Cristo, rifiutò il battesimo perché lo concepì come integrazione nell’istituzione cattolica e di conseguenza impedimento all’aprirsi del cristianesimo sull’esperienza delle altre religioni: un limite posto all’amore universale di Cristo.. – e aggiunge – Ben conscia di ciò, sentenziò che nello stare sospesa fra quella cattura e quel rifiuto, l’amore ne era uscito raddoppiato». Papa Paolo VI, nel considerare la pensatrice come una delle figure più influenti della sua vita, affermerà di dispiacersi per il suo mancato approdo al battesimo, poiché meritevole di essere proclamata santa. Tuttavia Eric Springsted, docente presso l’Università di Princeton, ha riferito nel corso di un convegno che Simone Deitz, amica della Weil, gli confidò di averla battezzata sul letto di morte e su sua esplicita richiesta. Eppure in precedenza Simone aveva promesso, con ironia, di accettare il battesimo solo nel caso in cui non avesse avuto più il cervello, pur non escludendo una propria adesione alla Chiesa in punto di morte, se ne avesse avvertito l’invito divino: «Fino ad ora non ho avuto mai nemmeno per un attimo la sensazione che Dio mi voglia nella Chiesa, sebbene me lo sia chiesto spesso durante la preghiera, durante la messa, o alla luce di quel raggio che rimane nell’anima dopo la messa.. Mi sembra sia sua volontà che io ne rimanga fuori anche in avvenire, salvo forse al momento della morte. Sono comunque pronta a obbedire a qualsiasi ordine».

Davvero combattuta dal salire sulla “barca di Pietro”!
Al già citato domenicano Marie-Alain Couturier scrisse: «Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia». E aggiungeva: «Mi fa paura il patriottismo della Chiesa che esiste negli ambienti cattolici.. intendo il sentimento che si accorda a una patria terrena.. Alcuni santi hanno approvato le Crociate, l’Inquisizione. Ebbene, non posso fare a meno di ritenere che abbiano avuto torto.. (ma se) io, così al di sotto di loro, su questo punto vedo con maggior chiarezza, sono costretta ad ammettere che devono essere stati accecati da qualcosa di molto potente. Questo qualcosa è la Chiesa in quanto cosa sociale.. (che) è irriducibilmente il dominio del diavolo. – e conclude – Con “sociale”.. intendo.. i sentimenti collettivi». A suo padre scrisse inoltre: «ho sempre adottato, come il solo possibile, l’atteggiamento cristiano. Sono per così dire nata, cresciuta e sempre rimasta nell’ispirazione cristiana.. mi sono sempre proibita di pensare a una vita futura, ma ho sempre creduto che l’istante della morte sia la norma e lo scopo della vita.. l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna». 

A proposito di morte, come e quando morì?
Se il pensiero del trapasso l’aveva sempre in mente – nell’Attesa di Dio scrive infatti: «A quattordici anni sono caduta in una di quelle disperazioni senza fondo tipiche dell’adolescenza, e.. ho pensato seriamente alla morte» – al punto che si ripeterà in lei durante il lavoro in fabbrica: «mi chiedo se riuscirei, qualora fossi condannata a questa vita, ad attraversare tutti i giorni la Senna senza buttarmi, una volta o l’altra», il suo più grande desiderio rimase fino alla fine quello di farsi paracadutare in patria, per stare accanto ai morenti in prima linea, ragion per cui dagli Stati Uniti si imbarcò da sola per l’Inghilterra. Il 15 aprile del 1943 venne ricoverata in ospedale a causa di una tubercolosi polmonare.. (oltre perché gravemente anoressica), mentre il 17 agosto chiese di essere trasferita nel sanatorio di Ashford, nella contea del Kent, ma una settimana dopo entrò in coma e morì. Il 30 agosto, alla sola presenza di sette persone amiche, venne sepolta nella sezione cattolica del cimitero di quella città, che tuttora conserva le sue spoglie mortali.

Sembra che per alcuni si sia trattato di suicidio, è così?
L’amica e biografa Pétrement si chiede: «Voleva morire? È difficile credere che non capisse a quale pericolo si esponeva mangiando pochissimo.. Più di una volta ha condannato il suicidio, ma.. Uccidersi per evitare il disonore, era forse per lei un suicidio solo apparente?». E prosegue: «la tristezza la rendeva quasi del tutto indifferente a ciò che le poteva accadere.. (quindi) senza aver deliberato di morire, potrebbe non essersi difesa abbastanza». Ad una sua ex allieva, scrive nel settembre del ’40: «L’unica ragione che possa indurci a (temere la morte) è il timore di non saper morire bene». Ma «..non da tutto si può prendere commiato: – commenta Eugenio Borgna a conclusione del suo saggio – non si prende commiato dalle persone, dalle esperienze, dai luoghi, dai paesaggi, dalle situazioni, dai libri, dalle musiche, che hanno radici ineliminabili dalla nostra vita. Così, ci sono stati libri, dai quali mi è stato impossibile prendere commiato, e fra questi i libri di Simone Weil..». 

Grazie, Signore, non solo per quanto da lei scritto, ma per ciò che ha pensato facendo. Se non si vive come si pensa, diceva infatti Paul Bourget, «si finisce col pensare come si è vissuto».

 

Recita
Francesca Cevoli, Cristian Messina

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