Compagni di viaggio: Baruch Spinoza (27 Luglio)



Baruch Spinoza (27 Luglio)
«La filosofia non ha fine, salvo che la verità, la fede non cerca altro che obbedienza e pietà»; «Io chiamo un uomo libero chi è guidato unicamente dalla ragione»; «Il peccato non può essere concepito in uno stato naturale, ma solo in uno stato civile, dove è decretato di comune accordo ciò che è buono o cattivo».

Di chi sono queste affermazioni quantomeno discutibili?
Del filosofo olandese Baruch Spinoza, capace di dare un vero scossone al suo tempo, sia sotto il profilo religioso sia sociale. Se la sua opera più nota è l’Etica, fu la pubblicazione del Trattato teologico-politico, nel 1670, a suscitare scandalo nella Chiesa, sia cattolica che protestante. Quel Deus sive Natura, “Dio, cioè la natura”, gli causò non poche grane, la più grande critica mossagli è infatti quella di aver identificato Dio con la natura, il suo Dio impersonale non è infatti il creatore del mondo ma la causa di tutte le cose e di se stesso! Quando crea sé stesso (?!) contemporaneamente appare l’universo e l’universo è Egli stesso, donde la celebre affermazione. In pratica non esiste nulla al di fuori di Lui, caratterizzabile da noi umani da sole due cose: pensiero ed estensione, res cogitans e res extensa, per dirla con Cartesio. Ogni realtà immateriale deriverebbe dal suo essere pensiero, mentre ciò che esiste fisicamente deriverebbe dalla sua estensione.

Concetti un po’ difficili.. proviamo a fare un passo indietro: cosa sappiamo di lui?
Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam il 24 novembre 1632 perché i genitori portoghesi, ma di origine ebrea (Baruch significa letteralmente “benedetto”), erano anche marrani – costretti cioè a convertirsi al Cristianesimo, seppur privatamente continuassero a professare e celebrare la loro fede “originaria” – , ragion per cui furono costretti ad abbandonare il Portogallo per trasferirsi nella calvinista Olanda. Il padre Michael faceva il mercante e in seconde nozze aveva sposato Hanna Debora, madre del nostro Baruch, ma il 5 novembre 1638 il piccolo rimase orfano, così ad educarlo ci pensò all’inizio la comunità ebraica sefardita (dall’ebraico Sefarad, “Spagna”), come vennero chiamati gli ebrei iberici fino al XV secolo insieme ai loro discendenti. È in questo mondo che si formò il giovane «ascetico e malinconico. Snello (e) di carnagione scura, con lunghi capelli ricciuti e occhi grandi, scuri e lucenti», come ebbe a descriverlo il pastore luterano Colerus, tra i suoi primi biografi, sottolineando inoltre quanto poco mangiasse, studiando il Talmud e la Torah, almeno fino a quando la morte del fratello maggiore Isaac lo costrinse ad abbandonare gli studi per aiutare il papà. Lo spiacevole imprevisto non gli impedì tuttavia di farsi un’idea propria, abbeverando la sua sete di cultura un po’ ovunque, da Seneca a Orazio, da Epitteto a Cicerone, da Cartesio a Hobbes, guidato probabilmente da colui che tale curiosità fu capace di instillargliela: il maestro di latino Franciscus Van den Enden.

Una conoscenza davvero enciclopedica..
Il pensiero di colui che è considerato l’antesignano sia dell’Illuminismo sia della moderna esegesi biblica (lo studio e l’indagine della Sacra Scrittura) partì come detto da tali autori e dal suo mentore. Questo “allargamento di vedute” gli costò tuttavia la scomunica da parte del consiglio della sinagoga locale: il 27 luglio 1656 il documento di cherem (bando o scomunica) mai più revocato rendeva noto che, appurate ormai le «cattive opinioni e (il) comportamento di Baruch Spinoza» e nonostante i ripetuti “richiami”, il suddetto non si è ravveduto, per cui era colpevole! Le parole non lasciano fraintendimenti: «Con l’aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza.. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce (parafrasando il Salmo 121). Che l’Eterno non lo perdoni mai..».

Parole davvero pesanti..
E non è tutto, a quanti infatti leggevano tale scomunica si raccomandava: «Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti». Affermazioni d’altri tempi, certo, ma da dove nascono davvero? È lecito chiedersi cosa combinò di così grave? Per alcuni fu reo di non credere all’immortalità dell’anima, rifiutando tra l’altro il concetto di libero arbitrio, altri invece lo condannavano per aver identificato, come già sottolineato, Dio con la natura, insieme alla non accettazione di Dio come persona, cosa che invece attesta la Bibbia, da lui ritenuta solo una fonte di insegnamenti morali, ma non della verità.

Qual era la sua concezione di Dio, cosa pensava di Lui, come se lo immaginava?
Spinoza non accetta ad esempio che Dio abbia preso su di sé la natura umana: «(idea non meno assurda) – diceva – di quella che un cerchio abbia preso su di sé la natura di un quadrato». Eppure, gli rispondiamo noi, è proprio così caro Baruch: solo Gesù ha fatto “quadrare il cerchio”! E aggiungeva: «Credo che un triangolo, se potesse parlare, direbbe che Dio è eminentemente triangolare, e un cerchio, che la natura divina è eminentemente circolare, e così ognuno attribuirebbe a Dio i propri attributi»: qui Spinoza, anche se non era forse il suo primo intento, smaschera la tendenza umana nel concepire un dio a propria immagine e somiglianza, non il contrario! Diceva inoltre che «Dio è la dimora, e non la causa passeggera di tutte le cose», e ancora: «Qualunque cosa sia è in Dio, e senza Dio nulla può essere o essere concepito».. «La mente di Dio è ciò che è sparso nello spazio e nel tempo», a riprova della sua identificazione di Dio con la natura.

E di quest’ultima cosa diceva?
Ad esempio che «Tutto ciò che è contrario alla natura è contrario alla ragione, e tutto ciò che è contrario alla ragione è assurdo». Occorre chiedersi allora cosa sia la ragione? Tale facoltà di discernere, stabilire connessioni logiche tra le idee e formulare giudizi è alla base della conoscenza, ma spesso viene utilizzata come sinonimo di “verità”. Etimologicamente deriva dal latino ratio, “calcolo”, derivato a sua volta da ratus, participio passato di reri, “calcolare, ritenere, considerare”, quanto basta per capire che non si tratta allora della “verità” ma di un calcolo capace di commisurare causa ed effetto, colpa e punizione. Il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti tiene a precisare come la ragione sia semplicemente uno strumento che ci difende dalla follia: se due persone pranzano insieme, ad esempio, è secondo ragione che chi afferra un bicchiere lo faccia per portarlo alla bocca e bere, non per scagliarlo contro il commensale! Ma siccome è la follia ad abitarci, ecco la funzione di regolatore sociale della ragione, che tuttavia rimane «un argine modesto», seppur necessario per con-vivere. Essa, tra l’altro, non è neppure creativa: non è la ragione che ha dato vita alle grandi opere d’arte, ma la follia-irrazionalità degli autori. E a tal proposito cita il suo celebre omologo tedesco Karl Jaspers, il quale affermava – a proposito della metamorfosi del dolore (e della follia) – che «lo spirito creativo dell’artista.. può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia». Nel suo testo Parole nomadi fa quindi una seconda e più nota citazione, questa volta di Nietzsche: «Se si sente la necessità di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non deve essere piccolo il pericolo».  

Il suo concetto di ragione era però abbastanza diverso, ben fondato sulla libertà di pensiero..
Bastano alcune sue brevi affermazioni per rendersene conto: «Capire è essere liberi»; «Non piangete, non indignatevi, comprendete»; e ancora: «Un uomo libero pensa alla morte meno di ogni altra cosa, e la sua saggezza è una meditazione non della morte, ma della vita». Di certo non amava accodarsi alla massa: «Una cosa – tuonava – non cessa di essere vera perché non è accettata da molti». Circa duecento anni dopo, sulla sua scia, Oscar Wilde affermerà: «Quando tutti mi danno ragione ho la netta sensazione di essere nel torto». Spinoza riteneva che perfino la legge, o buona parte di essa, sia nata «per placare la rabbia di coloro che non possono tollerare menti indipendenti».

Torniamo per un attimo alla scomunica..
Bandito a soli ventiquattro anni (siamo nel 1656), è prima accolto dal suo mentore Van den Enden, poi, costretto a lasciare Amsterdam, si trasferisce prima a Rijnsburg, attualmente una cittadina a circa 15 km dall’Aia, poi a Voorburg, un sobborgo della capitale olandese, città nella quale visse nelle vesti di tornitore di lenti: per conservare la sua autonomia di pensiero nel 1673 non accetterà neppure la prestigiosa cattedra di filosofia offertagli dall’università di Heidelberg. Tale esistenza appartata e modesta lo accompagnerà fino alla morte, che lo colse ad appena 45 anni a causa di una tubercolosi. Seppur già affetto da disturbi respiratori, la polvere di vetro inalata per intagliare le lenti di certo non lo favorì.. E questi 45 anni li spese senza patteggiare con ciò che poteva convenirgli, scegliendo la verità (o quella che lui riteneva essere tale) e mai il puro vantaggio, economico o d’immagine che fosse. La portata del suo pensiero, veicolata dalle opere citate, verrà riconosciuta tuttavia solo dopo la sua morte.

Come concepiva la realtà?
La riteneva intelligibile, comprensibile cioè con l’intelletto, eppure gli esseri umani conoscono la realtà in modo solo inadeguato. Unico modo per provarci è tentare di guadagnare una visione adeguata di Dio, fondamento dell’intera realtà, un Dio, però immanente alla realtà stessa. Detta più semplice, un Dio che è la realtà stessa e in essa si manifesta. Come può allora l’uomo, se la ragione è uno strumento insufficiente, conoscere la realtà? Attraverso tre fasi: anzitutto l’immaginazione; quindi la ragione; infine con l’intuizione, la forma più alta di conoscenza nonché la sola capace di condurre a Dio.

In parte è già stato detto, ma cosa pensava invece della religione?
«Non so come insegnare la filosofia – diceva – senza diventare un perturbatore della religione consolidata». A parer suo quest’ultima non fa altro che alimentare il timore e la superstizione, oltre ad essere uno strumento per ottenere l’obbedienza delle masse, che secondo lui consiste invece solo nella giustizia e nell’amore verso il prossimo. E in ambito religioso scorge due nemici: la paura perché ostile alla ragione, e la speranza, perché rappresenterebbe una fuga dal mondo. Al tempo di Spinoza stavano emergendo sullo scenario europeo i primi tre grandi Stati nazionali: la Francia, l’Inghilterra e la Spagna. I Paesi Bassi, dal canto loro, erano caratterizzati da dispute di due tipi: sul fronte politico a scontrarsi erano repubblicani e monarchici (con questi ultimi a sostegno della Casa d’Orange-Nassau), mentre su quello religioso a dare battaglia a varie sette riformate era la Chiesa Calvinista. Ed è in questo rovente clima che pubblicò, ma in forma anonima (in seguito verrà tuttavia smascherato), il tanto discusso Trattato teologico-politico, capace di suscitare clamore e scandalo: teologicamente perché negava l’origine divina dell’Antico Testamento e del Pentateuco nello specifico; politicamente perché sosteneva che un vero Stato doveva essere retto sì da un monarca assoluto, ma non dispotico, per non privare i cittadini della libertà di parola. L’ordine, anche se irrazionale, sarebbe in pratica sempre meglio dell’anarchia.. Ma ogni sforzo da parte del governo sarebbe vano, perché la libertà del cittadino fortunatamente rimane. Uno Stato dovrebbe insomma garantire ai propri cittadini sia la libertà religiosa, sia quelle di pensiero e d’espressione: è a fronte di tutto ciò che Spinoza sottolinea la necessità che uno Stato sia laico, senza alcuna intromissione da parte delle gerarchie ecclesiastiche.

Cosa pensava, nello specifico, del cristianesimo?
In un testo ormai datato edito dalla Queriniana, ci si chiedeva ad un certo punto quale fosse la vera essenza del cristianesimo, domanda che sta al cuore della filosofia della religione, disciplina che prende le sue mosse col nostro Spinoza, il quale in una lettera del 1665, scritta all’amico Oldenburg, gli annunciava della futura comparsa del suo Trattato teologico-politico (che uscirà cinque anni dopo), nella cui prefazione sottolineava come l’odio tra i cristiani, che pur predicano l’amore, avrebbe la sua radice nello scadimento della religione a superstizione. Quale fine si pose allora nel suo Trattato? Quello di liberare la Bibbia dalla teologia. Un tentativo in qualche modo ripreso da diversi autori che, nel 2021 e sotto la guida del fondatore della comunità di Bose Enzo Bianchi, hanno proposto una nuova traduzione della Sacra Scrittura rivolta ai cristiani di ogni confessione, ma anche – e forse soprattutto – ad ogni lettore “laico”, sicuri che il grande codice dell’Occidente è al tempo stesso Parola di Dio espressa in parole umane. Per tale ragione hanno tentato, riuscendoci, di eliminare ogni sovrastruttura dottrinale calcificatasi in duemila anni nella traduzione stessa e nelle note. Dal Trattato, tornando a Spinoza, emerge che «Tra fede, o teologia, e la filosofia non esiste alcun rapporto, né alcuna affinità», poiché oggetto della filosofia è il vero, quello della fede – basata sul testo biblico – è l’obbedienza. Se la religione è (almeno esternamente) soggetta allo Stato, non così la filosofia. Detta altrimenti: il cittadino può giudicare cattiva una legge, purché vi obbedisca. Il Dio di Spinoza non ha in pratica bisogno di alcuna rivelazione. Quanto ai miracoli, poi, «non significa(no) altro che un evento, che il narratore non è in grado di spiegare». Mah..    

Diciamo che non vedeva di buon occhio, per usare un eufemismo, il concetto di fede..
Non solo quest’ultimo, bensì tutte le tre virtù teologali. Ma lasciamo che sia lui a dirlo: «La fede dovrebbe essere giudicata solo in base ai suoi frutti»; «La paura – d’altro canto – non può essere senza speranza, né la speranza senza paura»; quanto alla carità, infine: «L’amore non è altro che gioia con l’idea di una causa esterna».

Cosa pensava invece dell’essere umano?
Lo deduciamo da cosa pensa di Dio e della Natura, la cui loro essenza fondamentale è la potenza, che è infinita. Così, facendo parte l’uomo della Natura, ne sarebbe una particella finita di questa potenza infinita, consapevole che non esiste una vita ultraterrena identificabile con ricompensa o punizione, poiché sarebbe governata, come già evidenziato, dalle deprecabili passioni di speranza e paura. «Più si lotta per vivere – diceva – , meno si vive». E ancora: «Il mondo sarebbe più felice se gli uomini avessero la stessa capacità di tacere che di parlare». Almeno in quest’ultimo caso, beh, come dargli torto?

E come si sono schierati i grandi pensatori nei suoi confronti?
In vario modo, ma tra le posizioni più nette prese nei suoi confronti c’è quella del filosofo ebreo Hermann Cohen, del quale nel 1914 uscì il saggio intitolato Spinoza. Stato e religione, ebraismo e cristianesimo. Nel testo la rabbia di Cohen nei confronti di Spinoza è evidente, ma lucida: «A Cohen (però) – commenta Roberto Bertoldi, che del libro ha curato l’introduzione – , sarebbe sfuggito del tutto il principio animatore del Trattato (teologico-politico), l’“operazione filosofico-politica portata avanti da Spinoza: la fondazione della moderna società liberale». Il pensiero del filosofo olandese avrebbe quindi dato non solo il primato al panteismo rispetto al monoteismo, ma anche il là a quel pensiero politico che governa l’intero Occidente, in cui l’autonomia del singolo cittadino e la sua libertà, rispetto allo Stato, sarebbero i valori primari.  

«Se i panteisti ti vedono in tutto, Signore, a noi basta poterti vedere nei fratelli e nelle sorelle che ogni giorno poni sul nostro cammino, un tracciato spesso tortuoso che fatichiamo seguire.. Donaci, allora, uno sguardo capace di saperti riconoscere nei segni che poni continuamente sulla nostra strada, segni che, come i sassolini di Pollicino, possano riportarci a Casa..».

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Recita
Patrizia Sensoli, Cristian Messina

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