Compagni di viaggio: Rumi (17 Dicembre)



Rumi (17 Dicembre)
«Tu sei sempre con me, tu sei i miei occhi e tu sei la mia luce: se lo vuoi, tu conducimi all’ebbrezza, se lo vuoi, trasfigurami nel nulla. È un Sinai, questo mondo, e noi siamo Mosè nella ricerca: ogni istante una nuova epifania trasforma la montagna». 

Di chi sono queste parole?
Si tratta di un ghazal, forma metrica molto utilizzata dalla letteratura persiana, ed è opera del più grande poeta mistico persiano, Jalâl al-Din Mohammad, che nasce a Balkh, nell’odierno Tajikistan, il 30 settembre 1207, per il mondo islamico il 6 del mese di Rabī’ I del 604 poiché, com’è noto, il calendario musulmano non solo si articola in mesi lunari e non solari, ma inizia con l’Egira (dall’arabo “emigrazione”) del 16 luglio 622, giorno in cui Maometto e i suoi primi seguaci si trasferirono dalla natia Mecca a Yathrib, futura Medina. La madre si chiamava Mo’mena Khâtun, il padre Bahâ al-Din Valad, ed era un celebre teologo e predicatore sufi, si era infatti guadagnato il soprannome di “sultano dei sapienti”, ed esercitò su Jalâl un notevole influsso, esortandolo fin da piccolo a cercare ciò che unisce e a fuggire ciò che divide. La famiglia fu costretta a scappare da casa in seguito ad un’invasione mongola, giungendo nel 1229 dopo varie peregrinazioni a Konya (o Iconio), nell’attuale Turchia.

Se si chiamava Jalâl al-Din Mohammad, come mai è conosciuto col nome di Rumi?
Se i persiani lo chiamano Mowlânâ (“nostro maestro”) o Mowlavi (“mio maestro”), in Occidente è tuttavia conosciuto come Rumi, derivante da Rum, che in persiano indica l’Impero Romano o Bizantino, che un tempo includeva la Penisola Anatolica, dove Rumi ha passato la maggior parte della vita. Rumi tradurrebbe in sintesi “Romeo” o “Bizantino”. 

Si è detto che il padre era sufi.. cosa significa esattamente?
L’etimologia più probabile fa risalire il termine all’arabo ṣūf, “lana”, l’umile tessuto dei primi mistici musulmani; una seconda rimanda invece a ṣuffa, il “portico” antistante la casa-moschea di Maometto a Medina, sotto il quale si raccoglievano alcuni fedeli poveri; la terza ipotesi lo fa poi derivare da safà, “purezza”; una quarta infine alla posizione che i sufi assumerebbero davanti a Dio, saff al-àwwal, “in prima fila”. Tornando a Jalâl, morto il padre divenne discepolo di un suo vecchio allievo, che gli consigliò di andare a studiare nella città siriana di Aleppo. Tornato a Konya succedette al padre nell’insegnamento. Nel 1244 la sua vita venne però letteralmente sconvolta da un incontro..

Con chi?
Quello che ritenne l’avvenimento più importante della propria vita, è il momento in cui conobbe Shams-e Tabriz, il “Sole di Tabriz”, incontro che riassumeva «in tre parole: ero crudo, sono stato cotto, sono bruciato». «S’è incendiato, di nuovo, il mio cuore – scrive in un altro ghazal – È una fiamma vivace: tu lascia che bruci. Consùmati, cuore, nel fuoco, e sta’ zitto». Fu suo discepolo per tre anni, dopo di che Shams scomparve misteriosamente, forse ucciso dai discepoli di Jalâl, gelosi dell’influenza che esercitava su quest’ultimo. Prima di Shams un altro incontro aveva però segnato la sua vita: a trentasette anni, mentre correva al galoppo del suo cavallo, rischiò di travolgere un malcapitato che, giratosi verso di lui, anziché rimproverarlo o maledirlo, lo fissò dolcemente.. Anni dopo fu l’incontro col mistico Ibn al-‘Arabī a segnarlo: il “Sommo Maestro, colui che verifica la religione”, lo esortò a riflettere sul fatto che l’impronta di Dio è celata nella molteplicità della condizione umana. Se la meta è Dio, diceva infatti Rumi, «molteplici sono le vie per raggiungerla e ciascuno deve essere indirizzato a riconoscere la propria». Come dargli torto? Dopo la morte di Shams, Jalâl scelse come guide spirituali dei propri discepoli e, dietro richiesta di uno dei due, scrisse il famoso Mathnawī, un poderoso poema di 26.000 versi che, composto in sei libri, viene letto e meditato in tutto il mondo islamico.  

Si è detto che fu il più grande poeta mistico persiano, non scrisse nulla in prosa?
Diverse opere, la più importante delle quali è intitolata originariamente Kitā Fīhi-mā-fīhi, il cui manoscritto più antico si trova ad Istanbul ed è composto da 216 foglietti, opera tramandata tuttavia ai posteri senza l’iniziale Kitā, “Il libro”. Fīhi-mā-fīhi sono tre parole tratte proprio da una quartina di Ibn al-‘Arabī. Come tradurle? Letteralmente significano “In questo è ciò che è là”, oppure “Questo nasconde ciò che quello nasconde”, o ancora “Questo contiene ciò che contiene”, ma anche “C’è tutto”. Occorre allora andare oltre il letteralismo, adattandole a quanto predicava il Maestro: «Le parole – afferma proprio in quest’opera – possono solo risvegliare in voi un’eco. Esse non sono che l’ombra della realtà.. un pretesto». In ogni caso l’intera opera di Rumi aveva come obiettivo il risveglio delle anime che incontrava, essendo queste addormentate.   

Ma perché lo celebriamo, cosa lo rende speciale rispetto ad altri importanti musulmani?
Lo ricordiamo, tra l’altro nel giorno della sua morte, soprattutto per aver fondato l’Ordine dei Dervisci danzanti o rotanti. Praticata attualmente da pochi, nel tempo ha assunto connotazioni varie. Celebre in Italia perché citato da Franco Battiato nel brano Voglio vederti danzare, il derviscio pratica diversi rituali, a partire dal dhikr, una preghiera devozionale affiancata dal movimento, in particolare la danza rotatoria, che ha lo scopo di raggiungere una sorta di trance estatica. Il simbolismo di quanto avviene è molto potente: se il cappello rappresenta la pietra tombale dell’ego, l’ampia gonna bianca è invece il sudario dell’ego. Le braccia ruotano aperte: se la destra è rivolta al cielo nell’atto di ricevere da Dio, sulla sinistra, rivolta verso terra, sono fissi gli occhi del derviscio. Questa pratica, considerata dal 2005 patrimonio dell’UNESCO, se nel Medioevo ha avuto un importante ruolo sociale e religioso, oggi sopravvive unicamente nell’ordine Mevleviyah in Turchia, altrove come elemento folcloristico e turistico, tanto che il numero di rotazioni o la durata della danza sono diventate oggetto di record da parte del Guinness dei primati.  

Come e quando nascono i dervisci?
Per rispondere occorre risalire al Diametro del tempo, un mazzo di carte ideato da un anonimo artista persiano del V secolo. Raffigura le quattro ètà della vita: Infanzia, Giovinezza, Adultità e Mutamento, abbinate rispettivamente ad Attesa, Sogno, Viaggio e Vita oltre la vita. Nel XIII secolo capitò a Jahrom, nell’attuale Iran, il giovane Jalâl, cui piaceva viaggiare senza meta. Ammaliato dai vortici prodotti dal vento nel bosco, che risucchiava e faceva roteare le foglie cadute a terra, un giorno incontrò un eremita che lo colpì per uno strano comportamento: «Mentre eri lontano hai lasciato la casa aperta.. – gli disse – Invece adesso che dentro ci siamo noi due, tu chiudi tutto: perché lo fai?». «Faccio così», senza voltarsi, fu la sua unica risposta. Meditando su quelle strane parole scoprì cosa significasse davvero il rispetto. «Jalâl – scrive Ferdinando Albertazzi nel suo libro su Rumi – aveva dunque colto l’essenza dell’armonia tra gli esseri umani». Autore di oltre cinquantamila versi, perché convinto che la gente abbia bisogno soprattutto di parole, una delle sue celebri poesie recita: «La brezza dell’alba ha segreti da dirti, non tornare a dormire.. Qualcuno viene e va attraverso le porte che allacciano i mondi, non tornare a dormire».

Cosa c’entra tutto ciò col mazzo di carte?
Tempo al tempo! Mentre non riusciva a distogliere lo sguardo dalla ruota di un mulino perché ipnotizzato dalla sua rotazione, Jalâl vedeva davanti a sé prendere corpo l’immagine raffigurata sulle carte del Diametro del Tempo.. Deciso a raggiungere la sorgente, risalì il corso del fiume bisbigliando senza sosta «Quando smetterai di amare la brocca? Quando comincerai a cercare l’acqua?», là dove la brocca è immagine del corpo e l’acqua della vita spirituale. Si fermò dunque ad osservare un grande masso, che divideva il torrente in due facendo acquistare all’acqua una certa velocità, per poi ricomporsi in un vorticoso mulinello: quella danza acquatica lo inglobò fino a farlo entrare in estasi. «Molte strade portano a Dio, io ho scelto quella della musica e della danza» disse Rumi. Fu quello il momento preciso in cui nacquero i Dervisci rotanti, danzatori che attraverso il loro movimento aprono una via tra Cielo e Terra. Non a caso derviscio significa “colui che cerca il passaggio”. 

Cos’altro sappiamo di questo ordine sufi e della loro danza?
Il sentiero che porta a diventare dervisci è lungo e impegnativo, e vede gli aspiranti meditare, far penitenza e digiunare. Non meno impegnativa è la danza rituale, che richiede anni di applicazione. Il là è dato dal Maestro e dai dervisci che, indossando un mantello nero, simbolo della condizione terrena, se lo tolgono in seguito per dar sfoggio della veste bianca, questa volta simbolo della congiunzione con l’intero Cosmo. Danza che viene accompagnata da strumenti e voci che si alternano e sovrappongono: il Nay, il flauto di canna, rimanda alle vibrazioni dell’anima, mentre i tamburi Bendir parlano della creazione del mondo, in un ritmo scandito dai timpani Kudum e dai piatti di rame Halile. Ci sono poi il Kamance, il violino a tre corde, il liuto Ud e una sorta di mandolino chiamato Dombra. Infine il Satz, simpatico liuto a forma di pera. Appoggiando il peso del corpo sul piede sinistro, il derviscio si muove in senso antiorario, proprio come i sacerdoti disponevano le carte del Diametro del Tempo. Lo slancio è dato invece dal piede destro, mentre per evitare giramenti di testa quest’ultima viene leggermente reclinata verso destra, con gli occhi che, come già detto, fissano la mano mancina. La destra è aperta verso l’alto per ricevere quei doni di Dio che, attraverso la rotazione, vengono elargiti ai presenti – «insieme al mio amore io voglio danzare di fronte alle genti», scrisse non a caso in uno dei tanti ghazal – donando loro di poter gustare la congiunzione tra Cielo e Terra. «Terminata la danza, i Dervisci Rotanti indossano di nuovo i mantelli neri e si allontanano a passi lenti. In silenzio..». Il 17 dicembre del 1273 Rumi lasciava questa terra dopo aver trovato il passaggio per l’altra.. «Poche parole.. – diceva – sono come una lampada accesa cha ha dato un bacio a una lampada che non lo era ancora, e poi se n’è andata. Ciò basta, e lo scopo è raggiunto». 

«È il cuore – scrive nel ghazal 527 – l’oriente di quel sole, un oriente che illumina in eterno il lignaggio del buio coi suoi lampi, e il figlio della vergine Maria». 

Recita
Federica Lualdi, Cristian Messina

Musica di sottofondo
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