Compagni di viaggio: Etty Hillesum (15 Gennaio)



Etty Hillesum
Oggi, nel giorno in cui ricorre la sua nascita terrena (non conoscendo con certezza la data di quella celeste), celebriamo un’anima gigantesca: Esther Hillesum, per gli amici Etty. Nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg (anche se lei considera il 3 febbraio 1941, come annota sul suo diario, il vero momento in cui “è venuta al mondo”) il nome lo eredita dalla nonna paterna. In questa cittadina dei Paesi Bassi dal 1911 si era stabilito il padre ebreo Levie (Louis), come insegnante di lingue. Sposata la russa Riva (Rebecca) Bernstein l’anno seguente, da queste nozze nacquero Jacob (Jaap) e Michael (Mischa), entrambi più piccoli di Etty. Se il secondogenito fu ricoverato diverse volte in istituti psichiatrici, il terzo, un vero talento al pianoforte, a meno di vent’anni fu anch’esso curato per le stesse ragioni: due fratelli psichicamente labili. 

Per quanto riguarda gli studi, quale fu il suo percorso?
Se il liceo classico Esther lo frequentò a Deventer – là dove il padre era vicepreside – e con scarsi risultati, anche l’andamento degli studi universitari in Giurisprudenza non sarà certo memorabile. All’Università di Amsterdam, in cui si laureerà il 4 luglio 1939, Etty si mosse in ambienti di sinistra e antifascisti, pur non impegnandosi attivamente in alcun partito politico. Ad Amsterdam si era trasferita nel marzo del ’37, al numero 6 di quella Gabriël Metsustraat che, centro nevralgico della città olandese, abitò in qualità di domestica del vedovo Hendrik (Han) J.Wegerif, col quale ebbe una relazione. Casa che, ancora, abiterà fino al giugno del 1943, momento in cui sarà costretta a partire per il campo di Westerbork, con in spalla uno zaino contenente la Bibbia e una grammatica russa. La Sacra Scrittura, anche nel lager verrà da lei gelosamente custodita, sotto il cuscino, insieme ad un libro del poeta Rainer Maria Rilke e alle foto dell’amica Maria e del caro Julius. Al civico 6 visse inizialmente con Han e suo figlio Hans (che non gradì la loro relazione), la domestica Käthe Fransen e lo studente di Chimica Bernard Meylink.. 

Chi erano Maria e Julius?
Maria Tuinzing era un infermiera, che abitò con lei al già citato civico 6, mentre Julius Spier uno psicochirologo tedesco riportato nei suoi scritti sempre con la sola iniziale S. Fu Bernard a farle conoscere quello che diventerà «l’ostetrico della (sua) anima»: quest’omone, di 28 anni più vecchio di lei, dopo aver coltivato invano il sogno di diventare cantante (era quasi sordo) si interessò alla chirologia, la scienza che si occupa della lettura della mano e, dopo aver frequentato a Zurigo un corso di analisi con Carl Gustav Jung, su suggerimento di quest’ultimo aprì uno studio a Berlino. Separatosi dalla moglie Hedwig nel 1935, con la quale ebbe due figli, si fidanzò con una sua allieva, Hertha Levi, che però si trasferì in seguito a Londra. Dopo di lei sarà la volta di un’altra allieva: Etty. Per nostra fortuna, se quest’ultima era inizialmente restia a farsi leggere la mano, in seguito ammorbidì le sue rigidità fino ad entrare in terapia da lui, percorso che darà inizio al diario, strumento terapico suggerito proprio da Spier. A dirla tutta, con questi scritti Esther coltivava anche il sogno di diventare scrittrice ma, purtroppo per lei, proprio come accadde ad Anna Frank.. ci riuscì!!! Da paziente, Etty divenne in seguito segretaria e poi amica intima, moooolto intima di Julius, almeno in un primo momento.

In che senso?
Se da una parte Spier voleva rimanere fedele ad Hertha, dall’altra Etty aveva già una relazione con Han. Ma la decisività che il ruolo di S. ebbe per lei non fu tanto affettivo quanto “iniziatico”, è lei stessa ad affermarlo: «Volevo che S. fosse anche mio. Per quanto io non lo desideri come uomo – non mi ha mai veramente colpita, sessualmente parlando.. – S. mi ha toccata nell’intimo, e questo è ancora più importante» (domenica 16 marzo 1941). Il 6 luglio 1942, malato e in procinto di morire, le chiederà con voce flebile di lasciarlo: «stai attenta ai desideri, vanno compresi fino in fondo! ..il tuo desiderio va ben oltre me!». Tappa fondamentale, quest’ultima, di quel cammino con Spier che le consegnerà le basi spirituali per farle tra l’altro approfondire testi come la Bibbia e alcuni grandi autori: sant’Agostino, il già citato poeta austriaco Rilke (da lei considerato il suo più grande maestro assieme allo stesso Julius) e lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij (oltre a Nietzsche, san Paolo, Beethoven e Rachmaninov), che lei già conosceva, ma con i quali non era ancora andata “in profondità”. L’arte, più in generale, diventa per Esther il tavolo di confronto su di sé e sulla realtà tutta. S. muore il 15 settembre 1942, inizialmente a causa di una polmonite, che poi si rivelerà essere un tumore, e da quel momento Etty spicca il volo! Da quando lui non c’è più, inizia lei a fare da intermediaria tra Dio e gli altri, a “disseppellire” il Creatore dal cuore delle creature.                   

Oltre ad S. e Maria ci sono state per lei altre figure chiave?
Diverse, in particolare Henny Tideman: «Sai che tu sei uno dei doni più preziosi che Dio mi ha fatto in questa vita? – le scrive in una lettera dell’11 settembre 1942 – ..Dio. Sei tu che mi hai insegnato a pronunciarne il nome». La sue amicizie femminili erano molto forti, probabilmente perché della donna aveva una concezione molto alta: «Forse la vera, la sostanziale emancipazione femminile – scrive in proposito il 4 agosto 1941 – deve ancora cominciare.. siamo donnicciole.. Dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo compito davanti a sé», un compito cui lei stessa ha iniziato a contribuire. Ma è della vita e degli esseri umani in genere che gode di un’immagine positiva: «Adesso alle undici e mezzo di giovedì sera, 7 agosto 1941, posso scrivere con assoluta convinzione: la vita è buona». Mentre l’anno seguente puntualizza come la nostra esistenza non abbia a che fare tanto con la quantità, infatti: «Non si tratta.. di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva». Non solo: «Credo che non si tratti più di vivere – precisa in una lettera a Maria mentre si trova a Westerbork, nell’estate del 1943 – ma dell’atteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine». Nella stessa missiva chiarisce poi che l’amore che prova per gli altri non dipende dal loro comportamento, meccanismo di causa ed effetto da lei ritenuto troppo banale, ma da quello che chiama «un ardore elementare che alimenta la (sua) vita». 

Quanto agli esseri umani, invece?
Quando era ancora fuori dal campo, un giorno fu costretta a recarsi negli uffici della Gestapo, annotando nel suo diario: «quando.. ci siamo trovati in quel locale.. i fatti delle nostre vite erano tutti uguali: ..gli uomini dietro la scrivania, come quelli che venivano interrogati. E il fatto storico di quella mattina non era che un infelice ragazzo della Gestapo si mettesse a urlare contro di me, ma che francamente io non ne provassi sdegno – anzi.. Avrei voluto cominciare subito a curarlo, ben sapendo che questi ragazzi sono da compiangere fintanto che non sono in grado di fare del male, ma che diventano pericolosissimi se sono lasciati liberi di avventarsi sull’umanità.. – e prosegue – Un’altra cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono dentro di noi». Analisi evangelica lucidissima! Se inoltre nella sua pur breve esistenza ha conosciuto diversi amori, per così dire, ad un certo punto sperimenta che il suo cuore girovago necessita di un centro irradiante: «Sono presuntuosa – si chiede – nel dire che possiedo troppo amore per darlo a una persona sola? L’idea che per tutta la vita si debba amare sempre e soltanto una persona mi sembra così infantile..» (9 ottobre 1942). Eppure, a proposito di relazioni amorose, un fatto la segnò forse più di tutti..   

Ovvero?
Fin da giovane Etty vive un’affettività intensa e complessa, fatta di molte relazioni e con diversi uomini. Il 6 dicembre 1941 scopre di aspettare un figlio da Han.. decide di abortire: «Mi sembra di salvare la vita ad un essere umano. No, è ridicolo dire che io salvi la vita di una persona mentre cerco di eliminarla con tutte le mie forze. Voglio risparmiarle il dolore di percorrere questa valle di lacrime. Rimarrai – scrive, parlando al potenziale nascituro – nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire. Provo quasi tenerezza per te.. ti sbarrerò  l’ingresso di questa vita e non dovrai lamentartene». Parole durissime! Sette mesi dopo torna sull’accaduto: «Ti porto dentro di me come il mio bambino mai nato, ma non ti porto in grembo, bensì nel cuore, ed è anche un posto più rispettabile» (14 luglio 1942). Sarà bastato questo “grembo cardiaco” a lenire il dolore per il gesto compiuto? Non lo sapremo mai, possiamo solo immaginarlo.. 

Da quanto detto finora, appare una donna socievole, eppure al tempo stessa molto introversa..
«Conosco due forme di solitudine. – scrive il 9 agosto 1941 – L’una mi fa sentire terribilmente infelice, perduta e quasi sospesa.. (ed) è sempre presente quando non mi sento in contatto con i miei simili.. allora sono completamente tagliata fuori da tutti e da me stessa.. Nell’altro tipo di solitudine mi sento invece forte e sicura, in contatto con tutti, con tutto e con Dio, e so di poter affrontare la vita da sola senza dipendere dagli altri». Il giorno seguente può allora scrivere: «Ho ritrovato il contatto con me stessa, con la parte migliore e più profonda del mio essere, quella che io chiamo Dio», per aggiungere una quindicina di giorni dopo: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda.. coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto.. bisogna dissotterrarlo di nuovo». Rapporto personale con Dio che passa anche e prima di tutto dalla concretezza del suo corpo, nello specifico attraverso il gesto dell’inginocchiarsi: «Non riesco proprio ad inginocchiarmi bene, c’è una sorta di imbarazzo in me. Perché? Forse a causa della parte critica, razionale e atea che pure mi appartiene. Tuttavia sento, di tanto in tanto, un forte desiderio di inginocchiarmi, con le mani sul viso, per trovare pace e per ascoltare la fonte nascosta in me» (24 settembre 1941).  Sette mesi dopo, tuttavia, sottolineerà così i suoi progressi a riguardo: «Nei momenti di grande gratitudine, inginocchiarsi diventa un’urgenza quasi travolgente.. È un gesto ormai connaturale al mio corpo» (3 aprile 1942). 

Un rapporto col Signore davvero “personale”..
Proprio così, ma se la relazione parte da un impegno, tuttavia questo non può bastare: «farò del mio meglio. Non mi sottrarrò a questa vita.. Ma dammi ogni tanto un segno» (24 novembre 1941) – e aggiunge – «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore.. Prometto di vivere questa vita sino in fondo», scrive il 25 novembre del ’41. Chiediamoci: non basterebbe tutto ciò per rispondere a quella chiamata che ci vuole tutti santi? Forse sì, ma non è così semplice. Dal marzo 1942 prende consapevolezza di portare Dio dentro di sé, decide allora di impegnarsi affinché tale presenza possa irradiarsi a tutto, o meglio “disseppellirLo” dal cuore di tutti, per usare le sue parole. Ciò che S. aveva fatto con lei, adesso voleva ripeterlo con chiunque incontrasse. «Credo in Dio e negli uomini, – scrive tre mesi dopo – e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave». Cosa rappresentino queste tre lettere per lei, lo esprime tuttavia in modo chiarissimo il 12 luglio dello stesso anno: «Una cosa.. diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma siamo noi che dobbiamo aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi». E prosegue: «Discorrerò con Te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per Te, ad esserTi fedele e non Ti caccerò via dal mio territorio.. (perché) Voglio che Tu stia bene con me».. che meraviglia! La sua immagine di Dio non è però mai dissociata dal volto degli altri: «A volte le persone sono come delle case con la porta aperta.. mio Dio.. Ti prometto che cercherò sempre di trovarTi una casa e un ricovero.. (che) buffa immagine: io mi metto in cammino e cerco un tetto per Te. – e conclude – Ci sono così tante case vuote, a loro offro Te come commensale più importante» (17 settembre 1942). In una lettera cita una poesia del suo amato Rilke: «Che farai, Dio, se muoio? Sono la tua brocca (e se mi spacco?). Sono la tua acqua (e se m’appesto?). Io sono la tua veste, il tuo strumento, senza di me non hai alcun senso».  

Quando tutto crolla, però, aver fede diventa difficilissimo, come difficilissimo è non attribuire la colpa a Dio..
Etty rimane lucida anche su questo punto: «la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora – scrive in una lettera senza data, in ogni caso dopo il 26 giugno 1943, mentre si trova nel campo di Westerbork – , anche se sarò spedita in Polonia con l’intera famiglia». Ma facciamo un passo indietro: il fratello Jaap le suggerisce ad un certo punto di candidarsi per un impiego presso il Consiglio Ebraico, del quale Etty non aveva una buona opinione, si trattava infatti di un’organizzazione nata sotto pressione dei tedeschi, sorta di cuscinetto tra i nazisti e il popolo ebraico. Il ruolo di dattilografa le permetterà, oltre che di godere di alcuni privilegi, di assistere gli internati di Westerbork (campo creato dalle autorità olandesi che poi passerà sotto l’autorità tedesca come luogo di transito per i deportati ad Auschwitz) in attesa di partire per il loro triste destino, ragion per cui non volle mai nascondersi, ma condividere fino all’ultimo quel destino, del suo popolo. Lo status di cui godevano i collaboratori del Consiglio Ebraico, però, in un dato momento venne meno. Mamma Hillesum scrisse inoltre una lettera al capo delle SS dei Paesi Bassi, Hans Rauter, per avere alcuni privilegi, richiesta che al contrario mandò su tutte le furie il gerarca nazista, il quale decise di inviare l’intera famiglia ad Auschwitz, con la sola eccezione di Jaap, che in quel momento si trovava ancora ad Amsterdam. Ma non gli andò certo meglio, toccandogli in sorte Bergen-Belsen. 

Quale fu, in pratica, il destino dell’intera famiglia? 
Nella biografia dell’edizione integrale del Diario, pubblicato dalla Adelphi, si afferma: «I genitori Hillesum morirono o durante il trasporto verso Auschwitz o furono – come appare più probabile – uccisi nelle camere a gas immediatamente dopo l’arrivo. La data della morte è stata fissata al 10 settembre 1943. Secondo la Croce Rossa, Etty morì il 30 novembre 1943 ad Auschwitz.. (mentre) il fratello Mischa, sempre ad Auschwitz, il 31 marzo 1944». Si tratta di date formali, di cui non abbiamo certezza, ma poco importa. Tornando al campo di Westerbork, da qui transitarono praticamente tutti tra gli ebrei residenti in Olanda, tra cui Anna Frank ed Edith Stein. Si calcola che su un totale di centoquarantamila, oltre il 70% rimase vittima della persecuzione nazista. Un giorno – sono le sei e mezza di mattina – scrive dal bagno: «ero.. circondata.. da donne e ragazze.. che dicevano così spesso durante il giorno: “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze”.. me ne stavo sveglia.. e pensavo: “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”.. Vorrei essere il cuore pensante di un intero campo di concentramento». Che meravigliosa espressione “cuore pensante”! Due parole che racchiudono tutto: la parte affettiva e quella intellettiva della fede, la quale oggi, diversamente dal passato, non può che essere una fede pensata e pensante. 

Fino ad ora si è citato spesso quanto da lei scritto nel diario, di cosa si tratta esattamente? 
Esther iniziò a scriverlo sabato 8 marzo 1941 su invito del suo terapeuta Spier e, prima di partire definitivamente per Westerbork, affidò all’amica Maria i diversi quaderni scritti ad Amsterdam, chiedendole di consegnarli allo scrittore Klaas Smelik (col quale intraprese una relazione amorosa durata sei mesi, nonostante questi fosse già sposato) e la richiesta di pubblicarli, nel caso in cui non avesse fatto ritorno.. infatti non fece ritorno, e Klaas non trovò chi li pubblicasse. Il figlio di quest’ultimo però, un teologo protestante, ci riuscì grazie all’editore J.G.Gaarlandt, il quale capì immediatamente di avere tra le mani un capolavoro. Così il 1° ottobre 1981 fu presentata Het verstoorde leven. Dagbock van Etty Hillesum 1941-1943, la cui prima pagina inizia così: «Caro signor S.! Le ho appena scritto un lungo sproloquio, ma credo che glielo risparmierò», per terminare invece con queste parole: «devo lavorare ancora molto con me stessa per diventare una persona adulta.. E lei mi aiuterà vero? Ecco, le ho scritto questa paginetta. Mi è costata molta fatica, detesto scrivere.. E in futuro mi piacerebbe diventar una scrittrice, pensi un po’! ..arrivederci e grazie per tutto il bene che mi ha già fatto». Sarà solo l’inizio di quel cammino che non la vedrà sola: «Mio Dio, prendimi nella tua grande mano e fammi tuo strumento, fa’ che io possa scrivere!» (4 luglio 1941). L’ultima pagina, invece, è datata martedì 13 ottobre 1942: «Faccio roteare una matitina come se fosse una falce – scrive – , ma non riesco a falciare le molte escrescenze del mio spirito». Ma è la finale a suggellare questo capolavoro di un’anima: «Bisogna saper accettare le proprie pause!!!». L’ultimo scritto di cui siamo in possesso è tuttavia un bigliettino, che Etty getta dal convoglio che il 7 settembre 1943 la sta portando in Polonia.. è indirizzato a Christine van Nooten e verrà ritrovato lungo la linea ferroviaria.

Tornando al suo rapporto con Dio, anche se qualcosa si è già detto, in che modo e dove pregava?
Scrive l’8 giugno 1941: «Penso che lo farò..: “mi guarderò dentro” per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, “sprofondare in se stessi”.. Sia questo.. lo scopo della meditazione: trasformare il tuo spazio interiore in un’ampia pianura vuota, senza tutta quell’erbaccia che impedisce la vista». Quanto al dove, è in primis la sua scrivania: «Santo cielo, questa scrivania somiglia proprio al mondo nel primo giorno della creazione!» (21 giugno 1942). Quel tavolo sarà luogo di sintesi tra la vita esteriore, durissima, e quanto sperimenta nel suo cuore. Ma la sua “scrivania” è ovunque, diceva infatti che «Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi.. (pertanto) Dobbiamo essere la nostra propria patria» (20 settembre 1942). Ma era la qualità del suo rapporto col Signore, la sua ampia veduta di orizzonti a caratterizzarla. Il 12 dicembre 1941 commenta il Salmo 139 (138) così: «Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che non è poi nient’altro che il mio essere ricolma di te». Nel suo spettacolo intitolato Urge, il comico e drammaturgo bolognese Alessandro Bergonzoni si prefigge, ironicamente ma non troppo, di fare “voto di vastità”: non di castità, che agli occhi dei più può sembrare una castrante autoriduzione affettiva, bensì il suo contrario, la vastità, ovvero la necessità di vedere l’invisibile nel visibile, il trascendente nell’immanente, l’anima nell’animale, di guardare cioè il mondo aldilà delle apparenze. Quella di Esther, ancora, era una preghiera intrisa di gioia. In proposito il celebre psichiatra Eugenio Borgna afferma: «La gioia.. è un’emozione che consente talora, come in Etty Hillesum, di dare un senso anche alla morte che si avvicina: la gioia che questa straordinaria giovane donna olandese (ebrea) ritrovava in uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che aveva nel cuore, vedeva libertà e bellezza» (Le emozioni ferite). 

Oltre ai suoi meravigliosi scritti, qual è la vera eredità che ci ha lasciato la Hillesum?
È lei stessa a dircelo: «Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri – scrive il 20 luglio del ’42 – tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo per preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi». Due mesi dopo, rivolgendosi al Creatore, scrive: «Ora mi rendo conto di quanto tu mi abbia dato da portare, mio Dio. Tante cose belle e tante cose difficili. E quelle difficili si sono trasformate in belle ogni volta che ero disposta a sopportarle». Ce l’hai fatta, cara Etty, ci hai trasmesso tanto, ce l’hai fatta.. adesso sta a noi!

Nel terzultimo scritto del suo Diario afferma: «mio Dio: Ti sono così riconoscente perché mi hai concesso una vita simile».. anche noi, Signore, ti siamo riconoscenti per averci concesso quella di Esther, stupenda compagna di viaggio che illumina la nostra. Donaci di poter dire con lei: «(dovunque) voglio solo esserci. Lasciatemi essere l’anima in questo corpo», quello di ogni fratello e sorella che, guardando noi, possa riconoscere un pezzetto di Te.   

   

 

Recita
Vittoria Salvatori, Cristian Messina

Musica di sottofondo
S.V.Rachmaninoff. Piano Concerto No.2 in C Minor. Op.18. Archive.com.Diritti Creative Commons

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