Geremia: Introduzione



Introduzione al libro del profeta Geremia
«Parole di Geremìa figlio di Chelkìa, uno dei sacerdoti che risiedevano ad Anatòt, nel territorio di Beniamino. A lui fu rivolta la parola del Signore al tempo di Giosìa.. e successivamente anche al tempo di Ioiakìm.. fino alla deportazione di Gerusalemme..» (Ger 1,1-3). Tale titolo – redazionale, cioè aggiunto posteriormente – è una presentazione unica: mai un profeta si è fatto conoscere in tal modo. Ma chi è davvero Geremìa? Nato in una famiglia sacerdotale, circa 650 anni prima della nostra era, a pochi chilometri a nord della capitale come suggeritoci dallo stesso incipit, ancora giovane (forse nel 626 a.C.) si sente rivolgere la parola dal Signore, una parola che lo renderà un uomo solitario, incompreso, perseguitato e malvoluto da quelle stesse persone che avrebbero dovuto stargli vicino e incoraggiarlo, cioè i membri della sua famiglia. Una parola imposta, subìta che lo porterà a non sposarsi, a non avere figli (e sappiamo bene cosa comportasse ciò a quell’epoca, dramma simboleggiato dalle figure della sterile e dell’eunuco), ad essere incarcerato e portato in Egitto, in una terra in cui si perderà memoria di lui e della sua stessa tomba. Insomma: Geremìa non si è di certo sentito dire quanto avrebbe voluto, per cui è costretto ad annunciare quanto non vorrebbe. Non solo, spesso questa Parola sembra abbandonarlo, schiacciarlo, ma solo per portarlo «nel cuore stesso della realtà» precisa la Bibbia TOB. Una Parola che va totalmente contro quella proferita da altri profeti, contro i quali si troverà spesso a scontrarsi, chiedendosi talvolta se la verità sia davvero dalla sua parte. Ma forse l’amarezza più grande che dovrà subire, sarà rappresentata dal fatto di non vivere abbastanza a lungo per verificare che, quanto da lui profetizzato, si realizzerà. Non è forse, almeno in parte, il destino che aspetta ognuno di noi, cioè proclamare le meraviglie di quel Dio che accadranno solo dopo che avremo salutato questa terra? Una volta il celebre psichiatra Vittorino Andreoli sottolineò il suo stupore per le parole di un ingegnere che, già molto anziano, stava dando tutto sé stesso nella realizzazione di un progetto, di cui tuttavia sapeva non avrebbe visto la fine. È in gioco come sempre la nostra concezione del tempo, simboleggiata forse dall’ormai anacronistico salvadanaio: che senso ha oggi, nell’era del “tutto e subito”, mettere da parte alcuni spicci per il futuro?! Ma torniamo a Geremìa e al suo ministero, svoltosi in tre periodi: il primo va dalla citata vocazione al 605, momento di assoluta tranquillità, ragion per cui la sua profezia – l’arrivo di un’armata che devasterà Gerusalemme – non potrà trovare alcun favore, anzi, la distruzione del rotolo recante tali scritti, da parte del re Ioiakìm, è l’emblema del suo andare controcorrente; il secondo periodo invece, dal 605 al 587, è caratterizzato prima dall’occupazione della città santa ad opera del re Nabucodònosor, poi della sua distruzione con relativa deportazione a Babilonia; il terzo infine avvia quel periodo in cui, mentre i ceti più influenti della popolazione (politici, militari e artigiani su tutti) sono stati deportati, nella capitale è rimasta la fetta numericamente più consistente del popolo, orfana tuttavia del suo “cervello” e delle sue “mani” sociali. In mezzo alla folla disorientata si delineano allora tre tendenze: una che mira a ricostruire la città sotto l’egida babilonese (e Geremìa è tra costoro); una seconda che non demorde, anzi combatte con atti terroristici gli occupanti; e una terza che preferisce espatriare in Egitto. Sarà proprio quest’ultima fazione a condurre con sé il profeta, facendoci perdere le sue tracce. La tradizione popolare giudaica racconta che verrà ucciso dai suoi stessi connazionali, segato vivo dopo una lunga tortura. Ma si tratta di pura leggenda. Di certo sappiamo quando “morì” come profeta: flagellato dalla massima autorità religiosa del tempo (l’equivalente di quel che sarà il futuro Sommo Sacerdote), il profeta arriva a maledire quello stesso Dio che lo ha chiamato! La celebre pagina facente parte delle cosiddette “confessioni” di Geremìa – spesso interpretata erroneamente come “il fascino dell’essere conquistati da Dio” – è potentissima: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione.. Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno.. Mi dicevo: “..non parlerò più nel suo nome!”» (20,7-9). Si badi bene: il verbo ebraico della seduzione, è in questo caso quello della circonvenzione dell’incapace! Geremìa sta accusando Dio di aver approfittato della sua giovane età, della sua inesperienza, dell’ardore dei suoi anni “più belli”! Chi è stato conquistato da Dio in gioventù, sognando una vocazione “speciale”, ma si trova oggi ad essere ciò che non aveva sognato, o ancor peggio ancora in cerca della “Sua” volontà, sa bene cosa stia dicendo Geremìa.. Ma se i nostri sogni su Dio possono sbiadirsi, quelli del Signore su di noi rimangono intatti, a dispetto della nostra ribellione. Si tratta in ogni caso di una delle pagine bibliche in cui il dialogo con Dio tocca la bestemmia, come accade a Giobbe. Eppure Lutero sosteneva che, spesso Dio gradisce più le bestemmie del disperato che le preghiere a buon mercato di chi si reca a Messa, convinto in tal modo di aver adempiuto il suo compito su questa terra. È per questo che, se la legge da noi “sognata” si rivela sterile, è Dio che si impegna a scriverne una nel nostro cuore (cfr. 31,33). Nonostante tutto il profeta non cessa di ammonire contro quella falsa immagine di Dio che lui stesso ha sperimentato, rappresentata da quegli idoli che definisce ironicamente “spauracchi”, cioè spaventapasseri, pupazzi capaci solo di impressionare gli animali. Eppure anche tra i cristiani, ammonisce Gianfranco Ravasi, «circola tante volte attorno al devozionalismo una pseudo-religiosità. Occorrerebbe il coraggio – prosegue – , pur nel rispetto delle persone, di strappare il velo alle statue reali o mentali che esso erige e fa adorare.. su cui.. si proiettano i propri sogni e la pretesa di un dio che debba solo preoccuparsi dei nostri interessi..». Per quanto riguarda la struttura del libro, non unitaria, è divisibile in tre parti (1-25; 26-45; 46-51) e conosce tre “mani”: la testimonianza diretta di Geremìa, quella del suo “segretario” Baruc, e quella del Deuteronomista, un redattore finale anonimo che raccoglierà il materiale circolante in un unico volume. Un’appendice storica chiude infine il libro (cap. 52).

                  

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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