Lettera ai Romani: Introduzione



Introduzione alla lettera ai Romani
«Il giusto per fede vivrà».. questa citazione del non troppo conosciuto profeta Abacuc (2,4) – che la vecchia traduzione CEI rendeva con «il giusto vivrà mediante la fede» – è il marchio di fabbrica del capolavoro di Paolo: la Lettera ai Romani. Non è solo la più famosa e importante, oltre che la più lunga del Nuovo Testamento, ma soprattutto l’esposizione più completa del “vangelo di Paolo”. Indirizzata secondo alcuni studiosi ad un interlocutore fittizio mai citato, non si tratta tuttavia di uno scritto per specialisti, essendo indirizzata a chiunque si senta chiamato alla santità. Quali sono i dati che giustificano tale sviolinata nei confronti di tale scritto? Anzitutto il posto che ha sempre occupato nella storia dell’esegesi (dal greco “condurre fuori”, nel senso di “interpretare”), poi per i giganti che nel tempo l’hanno commentata: da Origene a Giovanni Crisostomo; da Pelagio ad Agostino; da Abelardo a Tommaso d’Aquino, senza contare i maggiori esponenti della Riforma protestante – per i quali è il testo sacro “di riferimento” –, a partire da Lutero, il cui commento, del 1516, per molti storici ha segnato il vero inizio della Riforma. Lo stesso vale per Calvino, che la commentò nel 1540 precisando con essa le tesi principali della sua dottrina. Per Melantone poi, che la commentò ben tre volte, questa lettera «dava il sommario della dottrina cristiana». In tempi più recenti fu il pastore di un villaggio svizzero a commentarla, che darà vita ad un monumento della teologia del ’900: Karl Barth. La cosa più interessante tuttavia è che, in due momenti della storia della Chiesa, fu proprio l’interpretazione della Lettera ai Romani ad avere un ruolo decisivo: la crisi pelagiana del V secolo (per il monaco britannico Pelagio, infatti, all’essere umano basterebbe la propria volontà per attuare il bene, senza il bisogno della grazia divina) e il XVI appunto, quello della già citata Riforma protestante. Negli ultimi cinque secoli, in definitiva, è come se i protestanti avessero “fatto loro” questo testo.. e i cattolici cos’hanno fatto nel frattempo? Secondo alcuni, per bilanciare questo “squilibrio”, si sarebbero buttati sulla prima lettera ai Corinzi. Significativo allora che le comunità francesi che hanno pensato ad una Traduzione ecumenica della Bibbia (la famosa TOB), abbiano deciso di cominciare proprio dalla Lettera ai Romani: «il testo delle nostre divisioni – affermò il pastore M.Bregner – (doveva diventare) il testo del nostro incontro», dalla divisione alla riconciliazione: è la cosa più bella che il cammino ecumenico possa augurarsi!

Per entrare nel cuore di questo capolavoro e però necessario tornare alla figura dell’Apostolo: chi è Paolo? L’incipit della lettera contiene una sorta di sua autobiografia sintetica, oltre ai destinatari: «Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio.. a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata..» (1,1-7). Scopo dello scritto, che riprende in modo più esteso e sistematico il messaggio della Lettera ai Galati, è, a detta di Gianfranco Ravasi, «mostrarci che nell’interno di noi non c’è unità, ma una frattura terribile: noi siamo spezzati e ci illudiamo di essere uniti. Dobbiamo allora prendere tra le mani i nostri cocci e tentare di riunirli ancora insieme». Non solo, per il teologo evangelico Gunther Bornkamm si tratta del momento in cui l’Apostolo tira le somme alla fine delle sua vita: se la 2Tm (4,6ss) viene considerato il suo testamento spirituale, la Lettera ai Romani è invece il suo bilancio, diciamo così, “da missionario”. Ma come e dove nasce questo capolavoro? Per rispondere dobbiamo circoscrivere la nostra attenzione a Corinto prima e a Roma poi: la lettera è infatti stata scritta nella città greca (in cui Paolo è rimasto per tre mesi durante la sua terza visita) tra il 55-56 o 57-58, dato che, quando l’Apostolo sta dettando il suo scritto al suo “segretario” di nome Terzo (16,22), a Roma già da tempo esisteva una comunità di credenti. Qualcosa accomuna la realtà corinta a quella romana? Certo: entrambe sono alle prese col fenomeno della divisione, che mai si allontana da coloro che cercano di vivere come «un solo corpo e un solo spirito», per dirla con le parole della Preghiera Eucaristica III. E da Corinto, dopo aver portato la famosa colletta a Gerusalemme, dopo varie peripezie Paolo si trova prigioniero – insieme al futuro evangelista Luca – a Roma, probabilmente nella primavera del 61. Durante questa prima permanenza sembra abbia scritto le lettere ai Colossesi, agli Efesini e il biglietto indirizzato a Filèmone. La sua volontà, tuttavia, era quella di arrivare fino in Spagna (Rm 15,28), ma, se ci sia mai arrivato, non ci è dato saperlo: dopo i due anni trascorsi in custodia militaris nella Città Eterna, in una sorta di libertà vigilata o domicilio coatto, la prigionia finì, o per una sentenza favorevole o perché il tempo entro il quale dovevano presentarsi accusatori contro di lui (in base alla legge romana) era scaduto. Siamo intorno all’anno 63, dopo di che non sappiamo nulla. Forse ha continuato a viaggiare, fatto sta che un nuovo arresto a Roma (periodo in cui scrisse le lettere a Tito e a Timòteo) non ha questa volta esito positivo: la tradizione ci riferisce della sua decapitazione (nel 67 o 68 d.C.) alle Acque Salvie, sulla via Ostiense, dove oggi sorge la basilica di San Paolo fuori le mura, chiesa che ancora oggi marca la permanenza dell’Apostolo nella capitale  insieme ad altri luoghi chiave: la chiesa di San Paolo alla Regola, quella di Santa Maria in via Lata, ovviamente il Carcere Mamertino, luogo della prigionia, e altri ancora.. Per quanto riguarda i destinatari della lettera, per lo più pagani, alcuni di loro sono stati da Paolo esplicitamente salutati: ventisei persone che, evidentemente, già conosce. In questo gruppetto di nomi – in cui curiosamente non figura Pietro, forse perché non ancora arrivato – spiccano tre coppie (“Chiese domestiche” si dirà poi), una delle quali è composta da Aquila e Priscilla. Sia chiaro: Roma, che nella Bibbia compare esplicitamente per la prima volta nel primo libro dei Maccabei (cap. 8), non è una città di santarelli, anzi, nell’Apocalisse viene citata infatti per l’ultima volta col nome di Babilonia, la grande prostituta! Non solo, questo agglomerato urbano (al tempo circa un milione di abitanti) era un potpourri di etnie, la più numerosa delle quali era la colonia giudaica (la cui religione era definita superstitio barbara), forte di quasi cinquantamila persone e oltre dieci sinagoghe. È proprio all’interno di questa comunità che si registrarono aspri tumulti, in seguito ai quali, con l’editto di Claudio del 49, Aquila e Priscilla dovettero lasciare Roma alla volta di Corinto, in cui incontrarono Paolo. Nella Città Eterna rimasero solo i cristiani di origine pagana, costretti però a cercarsi nuovi luoghi in cui riunirsi, appunto la casa (domus ecclesiae) di questo o quel credente. Tornati a Roma i cristiani di origine giudaica, l’accoglienza di quelli di origine pagana non deve essere stata delle migliori: è a questa spaccatura che Paolo allude quando dice «accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi» (15,7)? Per alcuni studiosi sì.

È il momento però di entrare nel cuore di questo capolavoro, sintetizzabile dal già citato Ravasi in sette parole greche, quattro positive e tre negative. Partiamo da queste ultime. Sarx, anzitutto, “carne”, che Paolo intende come il terreno che ognuno di noi offre al male. Poi hamartìa, traduzione quasi letterale dell’ebraico hattah che, nell’Antico Testamento, è usato per indicare il peccato, simbolicamente traducibile con “freccia puntata che cade fuori dal bersaglio”; insomma, quello che con l’italiano è reso dall’esclamazione “peccato!”, nel senso di “occasione persa”. Quindi nòmos, “legge”, quella che da sola non salva. Ecco allora venirci in soccorso gli altri quattro vocaboli positivi, primo fra tutti chàris, “grazia”, che può essere accolta da tutti e ha sempre per soggetto Dio; di essa abbiamo l’eco (oltre che nel francese charme, “fascino”) nel saluto dell’angelo a Maria: «Chaire!», “rallegrati”, che l’italiano ha mutuato dal latino «Ave», “stai bene”, che tuttavia non riesce a rendere il greco. L’idea che soggiace a questo termine è in ogni caso quella della luce, di ciò che splende. La seconda parola è pìstis, “fede”, in greco “fidarsi di” (in nessun testo biblico ricorre tanto spesso questa parola: ben 37 volte, senza contare le 21 del verbo «credere»), forse l’espressione da noi più usata nella preghiera ogni volta che diciamo amen, dall’ebraico “credere”. Fede, in cui Abramo ci è padre (4,18), che però «viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo (10,17)». Dovremmo farci qualche domanda sulla cura della nostra Liturgia della Parola: lasciamo perdere.. La terza parola chiave è invece pnèuma, che in greco significa sia “vento” che “spirito”, l’elemento di congiunzione tra l’iniziativa di Dio (chàris) e la risposta dell’uomo ad un Evento che lo precede (pìstis)! NB: se nella Lettera agli Ebrei la fede ha una sfumatura moralistica, in quella ai Romani è sia rinuncia alla nostra affermazione davanti a Dio, sia accoglienza della sua “prima mossa”. Curiosità: «ci si potrebbe però chiedere perché mai Paolo – afferma il biblista Romano Penna – , che fa un elogio quasi innico dell’amore (1Cor 13), non faccia altrettanto con la fede». Già.. perché? Nell’epistolario paolino compare infatti la parola “amore” ben 78 volte, ma contro le 138 di “fede”; lo stesso dicasi per i verbi “amare” (32) e “credere” (54). L’Apostolo ce lo spiega nella Lettera ai Galati (5,6): «in Cristo ciò che conta è la fede, che si rende operosa mediante l’amore». Infine ecco la realizzazione del percorso: la dikaiosùne, “giustizia”, che per Paolo non equivale a quella dei tribunali, anzi, lui la colora fino a farla diventare “giustizia salvifica”, dell’uomo ormai trasformato in creatura nuova. Divisa fondamentalmente in due, la struttura della lettera nella prima parte (capp. 1-11), che gli specialisti definiscono dogmatica, celebra l’incipit di Abacuc («Il giusto per fede vivrà»), la seconda parte (capp. 12-16), invece, è esortativa, diciamo di taglio più morale.

Proviamo dunque anche solo a sfiorare ciò che preme all’Apostolo, il suo vangelo, quell’annuncio che è “buono” solo perché ci dice che, in Cristo, non c’è più alcuna condanna per noi. La nostra libertà è cioè figlia della nostra liberazione, o meglio redenzione (apolytrosis, etimologicamente lo “scioglimento dei legami” o dei “ceppi”), operataci da Gesù, e questo senza alcun merito da parte nostra: «riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (3,28). È chiaro che questo cambia radicalmente il nostro modo di “stare” di fronte a Dio! Volersi giustificare davanti a Lui o dibatterci sembra impensabile, eppure Giobbe e Abramo non ci hanno rinunciato.. ma proprio perché sapevano di avere di fronte “il Giusto” per eccellenza! Pensiamoci un attimo: se Lui ci ha creati “a sua immagine”, non può rinunciare al dibattito con noi, mettendoci però nelle reali condizioni di “stargli davanti”; non può non stupirsi e gioire di questo vis a vis, allo stesso modo in cui reagì Adamo quando, finalmente, si trovò d’innanzi Eva, l’ezer kenegdo, la sola capace di “stargli di fronte”, “occhi negli occhi”. La risurrezione di Gesù ha allora come scopo la «nostra giustificazione» (Rm 4,25), che “agisce” mediante la nostra fede. Anche in questo caso dovremmo farci qualche domanda sui sacramenti in generale (spesso considerati in modo quasi magico), ma anche in questo caso è meglio lasciar perdere.. Dire che Gesù è il nostro «strumento di espiazione», in greco hilastèrion, era comprensibilissimo agli occhi e alle orecchie di un ebreo: quando sentiva questa parola vedeva infatti la lastra d’oro purissimo posta sopra la cassa dell’Arca dell’Alleanza, lastra che nella Bibbia è detta anche «sgabello dei piedi di Dio»: si immaginava cioè che il Signore scendesse a sedervisi sopra. Nel giorno dell’espiazione, la festa del Kippur, il sommo sacerdote aspergeva con un ramo d’issopo, intinto nel sangue, l’hilastèrion, in ebraico kapporet, il cui suono è molto simile a kipper, “espiare”, “perdonare” i peccati. Detto altrimenti: il sangue indirizzato verso Dio cancellava i peccati, ristabilendo così l’Alleanza. Se la Lettera ai Romani è il capolavoro di Paolo, il capitolo 8 è il capolavoro di questo scritto: se il capitolo precedente si chiude con la domanda più tragica («Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?»), l’ottavo risponde che in Cristo Gesù non c’è più alcuna condanna, perché chi vive secondo lo Spirito è chiamato a sedersi, in qualità di erede, alla stessa tavola del Figlio, che ci ha donato – e qui Paolo conia un vocabolo nuovo – la uiothesìa, la “filiazione adottiva”. La schiavitù ci è ormai alle spalle. E i Giudei che, pur essendo il popolo eletto, tale possibilità non l’hanno accolta? Qui si apre una durissima polemica, in cui l’Apostolo afferma senza mezze misure che il cristianesimo è un innesto sulla radice ebraica, ma la spaccatura è netta: non conta solo l’elezione e non bastano le opere della Legge, dato che la salvezza – ecco il punto – non può essere meritata ma solo accolta! Ma noi, ci crediamo davvero? Chiediamoci: se Paolo tornasse nel mondo di oggi, cosa penserebbe e cosa farebbe? «Non è morto certo nella tranquillità di aver completato l’opera – risponde deciso il presbitero ghanese Caesar Atuire – ..Scoprirebbe che nella Chiesa ci sono uomini che lavorano per sé stessi e non per gli altri, così come già avveniva ai suoi tempi..», ma il suo posto lo hanno preso tanti altri missionari, sottolineando come «oggi.. i confini della fede si (siano) moltiplicati. Non sono più solo geografici. Il mondo è più complesso e il carisma paolino si ritrova in tutti quegli uomini e donne cristiani che sfidano la cultura dominante e indicano nuovi orizzonti». Il nostro bene, quello che Paolo ci ha indicato, sta insomma in quel «nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9), legato al concetto israelitico di salvezza, yešûāc, da cui derivano i nomi Elisèo, Osèa, Isaìa e Gesù, appunto, o la stessa invocazione osanna, “salvaci!”. Ecco perché quando uno spagnolo starnutisce, non si sente dire semplicemente, come facciamo noi, «salute!», ma «¡Jesús!».       

 


                                                        

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

Lettera ai Romani: Introduzione Lettera ai Romani 1,1-7 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 1,16-25 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 2,1-11 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 3,21-30a con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 4,1-8 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 4,13.16-18 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 4,20-25 con il commento di Christian Montanari Lettera ai Romani 5,12.15b.17-19.20b-21 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 6,12-18 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 6,19-23 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 7,18-25a con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 8,1-11 con il commento di Simona Mulazzani Romani 8,12-17 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 8,18-25 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 8,26-30 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 8,31b-39 con il commento di Simona Mulazzani Lettera ai Romani 9,1-5 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 11,1-2a.11-12.25-29 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 11,29-36 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 12,5-16 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 13,8-10 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 14,7-12 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 15,14-21 con il commento di Paolo Antonini Lettera ai Romani 16,3-9.16.22-27 con il commento di Paolo Antonini

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