Lettera agli Ebrei: Introduzione



Introduzione alla lettera agli Ebrei
«La lettera di Paolo agli Ebrei non è una lettera, non è di Paolo, non è stata indirizzata agli ebrei»: queste sono le parole con cui, nel 1964, lo studioso tedesco E.Grässer descriveva il libro probabilmente più complesso del Nuovo Testamento. Scritto in una lingua greca pura e originale, si tratta di un’omelia pronunciata inizialmente ad una comunità, forse durante la liturgia, per poi essere trascritta e spedita ad altre comunità, accompagnata da un biglietto di saluti. Del geniale autore non sappiamo granché.. le figure proposte sono state almeno una decina: Lutero suggeriva Apollo, qualcuno l’evangelista Luca, altri ancora Clemente Romano, ecc.., ma la sua identità è destinata a rimanere ignota; l’unica cosa certa è che si tratta di un cristiano di chiare origini giudaiche. Composta probabilmente prima del 70 d.C. (l’autore parla infatti della liturgia del Tempio di Gerusalemme – distrutto appunto nel 70 – come di una realtà attuale), è destinata ad una comunità cristiana proveniente, come l’autore, dal giudaismo; il titolo “agli Ebrei” non rientra infatti nel testo. È però una comunità scoraggiata, che attraversa un periodo difficile. Il testo si struttura in cinque parti: se nella prima (1,5-2,18) l’autore cerca di posizionare Cristo in relazione sia al Padre sia agli uomini, nella seconda (3,1-5,10) sottolinea gli aspetti fondamentali di ogni sacerdozio; la terza parte (5,11-10,39) è centrale sia per quanto riguarda la collocazione sia, soprattutto, in ordine di importanza: Cristo è il vero sommo sacerdote, ma in modo nuovo. La penultima parte (11,1-12,13) affronta i temi della fede e della perseveranza, mentre la quinta (12,14-13,18) accenna all’esistenza cristiana. L’intero discorso si muove in pratica su due domande tacite, poste all’inizio e alla fine: da una parte chiedendosi chi è Gesù, dall’altra come vivere un’esistenza autenticamente cristiana. Il tutto si svolge attraverso la fine tecnica oratoria dell’autore, che nella sua “omelia” non cerca di accattivarsi l’uditorio, anzi, lo scuote duramente: «siete diventati lenti a capire. Infatti voi, che.. dovreste essere maestri, avete ancora bisogno di qualcuno che v’insegni i primi elementi delle parole di Dio..» (5,12). Non si limita però a definirli principianti, ma espone quanto ha da dire secondo il celebre metodo giudaico del midrash (dalla radice ebraica “investigare, cercare”), che mira ad estrarre da un testo biblico i suoi molteplici significati. Un modo per dire insomma che la Bibbia parla a tutti, sempre e in vario modo. Torniamo alla prima parte della Lettera agli Ebrei, in cui si dice che Gesù è «divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato..» (1,4), nel senso che a nessuno tra le schiere celesti, per quanto grande, è mai stato dato (da Dio) il nome di «Figlio»! Nonostante ciò, «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì..»; ma come, il Figlio di Dio – cioè Dio – ha qualcosa da imparare?! In teoria no, ma “in pratica” lo ha fatto, e questo «per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo.. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli.. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,14-18). È la dinamica dell’incarnazione, con la quale il Padre ci ha salvati, e non per filantropia o amicizia, ma per combattere il diabolico che si annida in noi. Detto altrimenti: con la sua morte, Cristo ci libera dalla paura della nostra. Gesù che, ripetiamolo, non è superiore solo agli angeli, ma a Mosè stesso; se questi ha ricevuto da Dio le “dieci parole”, Cristo è la Parola: viva, efficace, tagliente, penetrante e scrutatrice (cfr. 4,12), proprio come una spada, che porta agli uomini divisione e giudizio; e a Maria trafisse l’anima (Lc 2,35). Ma la vera novità introdotta dall’autore è la lettura della storia di Gesù in chiave sacerdotale. Occorre dunque chiedersi, prima di tutto, chi sia il sacerdote e quale funzione abbia avuto fino all’avvento di Cristo. Sacerdote etimologicamente significa “fautore del sacro”, e in ogni religione indica colui che fa da mediatore tra gli uomini e la divinità; in quelle “naturali” si articola presto in tre funzioni: sacrificare, esorcizzare (cioè “tenere lontano” le presenze malvagie) e predire il futuro. Nella storia d’Israele, circondato inizialmente da popoli dove la funzione sacerdotale era assicurata dal re (soprattutto in Mesopotamia e in Egitto), i patriarchi svolgono in principio un sacerdozio familiare, e i soli sacerdoti che compaiono sono stranieri, su tutti il celebre Melchìsedek. È con Mosè, della tribù di Levi, che sembra farsi strada la specializzazione di quest’ultima nelle funzioni legate al culto. Nel periodo della monarchia, invece, è il re stesso a esercitare molte funzioni sacerdotali. La riforma di Giosìa poi, nel 621 a.C., riserva tali funzioni ai soli discendenti di Sadoq, a sua volta discendente di Aronne e sommo sacerdote sotto il re Davide, nonché capostipite della celebre setta conservatrice dei sadducei. Quest’ultima figura, del sommo sacerdote, appare tra l’altro in un momento storico in cui l’assenza del re fa sentire il bisogno di un capo. A partire dal regno di Erode i sommi sacerdoti sono designati dall’autorità politica, che li sceglie tra le grandi famiglie sacerdotali. Ma cosa fa il sacerdote in Israele? Fondamentalmente svolge due ministeri chiave: il servizio al culto e quello alla parola. Col moltiplicarsi delle sinagoghe, tuttavia, è sul primo che il sacerdote si concentra, lasciando il secondo in mano agli scribi laici. Il sacerdote è quindi l’uomo del santuario, in cui esercita il sacrificio e ha il suo apice nel giorno dell’espiazione, in cui il sommo sacerdote, una volta l’anno, fa da mediatore supremo per il perdono di tutti i peccati del popolo. «Il sacerdozio (dell’Antico Testamento) – scrive il teologo gesuita francese Xavier Leon-Dufour – ..è stato fedele alla sua missione.. Ma alla fine doveva essere superato». Gesù, pertanto, lo compie superandolo.. ma come? Svolgendo la sua funzione di pontefice: costruendo cioè un ponte – l’unico “attraversabile” – tra cielo e terra: «abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli» (4,14) sottolinea la Lettera agli Ebrei, l’unico libro del Nuovo Testamento che parla di Cristo come sacerdote, affiancandolo alla misteriosa figura di Melchìsedek. Chi è costui? Re e sacerdote della città di Shalem (futura Gerusalemme), Melchìsedek significa “re di giustizia e di pace” (cfr. 7,2). È uno straniero, ma ciò che più lo caratterizza sono tre aspetti: anzitutto il fatto che sia «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre» (7,3). Insomma non ha origine né termine, vive nell’eternità! In secondo luogo Abramo gli paga la decima, dimostrando in tal modo di essergli inferiore, come conferma il terzo aspetto: la benedizione che riceve da costui. Il sacerdozio di Cristo è inoltre «per sempre», che l’espressione originale greca ef’ hapax rende meglio con «una volta per tutte, una volta per sempre». Egli non ha insomma più bisogno di ri-attuare il proprio sacrificio. Ma allora cosa accade durante la Messa? «..il ripetersi del sacrificio eucaristico – precisa Gianfranco Ravasi – non è il moltiplicarsi di sacrifici, ma il ripresentarsi e il riattualizzarsi dell’unico sacrificio: esso si ripete solo dal punto di vista dell’effetto per noi che siamo legati al tempo». Questa è la «nuova ed eterna alleanza», non soltanto diversa da quella veterotestamentaria, ma piena, perfetta e definitiva. Che legame c’è, a questo punto, tra Cristo sacerdote e i ministri che lo “rappresentano” oggi? Gesù non attribuisce il sacerdozio a sé stesso né al suo popolo, ma sembra averlo concepito come un popolo sacerdotale, nella vita prima ancora che nel culto, o meglio, i due aspetti non sono scindibili. Ognuno di noi, quindi, è chiamato a offrire la propria vita nel culto e fuori da esso. Quanto ai ministri ordinati, a quelli che sarebbe più appropriato chiamare preti (dalla contrazione di presbitero, “anziano”), il vescovo Erio Castellucci precisa come «tra la fine del II e l’inizio del III secolo, nella Chiesa sia avvenuto un passaggio importante per la teologia del ministero: quella “sacerdotalizzazione” che il Nuovo Testamento aveva evitato e che i primi Padri avevano solo indirettamente abbozzato, è accettata come un dato di fatto. Il vescovo è il summus sacerdos o semplicemente il sacerdos: termine.. che comincia ad essere applicato anche al presbitero». La Lettera ci richiama infine ad essere “uomini di fede”, che vivono fondati su «ciò che si spera (che è) prova di ciò che non si vede» (11,1).                              

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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