Francesco Pirini: Testimone di vita
È il 30 Dicembre 2016, un prete e alcuni giovani di Rimini e Riccione, di ritorno da un momento di fraternità in Toscana, decidono di andare a trovare un anziano nella sua residenza delle Murazze, alle pendici dell’Appennino bolognese..
Sta per concludersi, come sempre del resto, un anno di grandi e importanti avvenimenti: la fisica italiana Fabiola Gianotti diventa direttrice del CERN di Ginevra; Cristiano Ronaldo si aggiudica il suo quarto Pallone d’oro; in Egitto viene a galla l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni, mentre il presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama torna a far visita a Cuba, dopo che la Casa Bianca non lo faceva dal 1928; il 2 giugno la Repubblica Italiana compie 70 anni; 14 giorni dopo viene assassinata la deputata britannica Jo Cox, schieratasi decisamente contro la Brexit; la sonda spaziale Juno entra nell’orbita di Giove e, sull’elegante Promenade des Anglais di Nizza si consuma uno dei più atroci attentati terroristici: 85 morti e oltre 200 feriti; dal 26 al 31 luglio papa Francesco presiede a Cracovia la XXXI Giornata Mondiale della Gioventù ; il mese successivo il Centro Italia è scosso da un sisma costato 299 vittime; se quello di settembre vede la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, il mese di novembre è teatro della vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali (chiediamo scusa per l’accostamento..); novembre, ancora, in cui si chiude il Giubileo straordinario della misericordia, indetto da Bergoglio; l’anno ha il suo epilogo con un miracolo: il 22 dicembre viene completato il tratto autostradale della Salerno-Reggio Calabria!
Ma torniamo ai nostri baldi giovani.. L’anziano cui fanno visita, l’allora 89enne Francesco Pirini, inizia a raccontare la sua incredibile storia – sulla quale torneremo in seguito – , soffermandosi più volte sul rimprovero mossogli da una maestra e suora orsolina, una dei tre sopravvissuti all’eccidio di Cerpiano, che tra poco racconteremo: «Antonietta Benni, la suora orsolina che era stata anche violentata, lo perdonò.. succede che era domenica, stavo andando verso la Messa quando, l’Antonietta Benni che stava venendo da un’altra direzione, quando mi vede dice “vergognati” Francesco, un cristiano che non perdona! È sempre, è stato un peso enorme per me. Succede che da quel momento incominciai a pensare che era più giusto che avessi perdonato».
Ma cosa Francesco non ha perdonato? E a chi? Permettiamoci una lunga, ma forse importante digressione, cominciando col chiederci cosa significhi davvero perdonare? Spesso la fatica è dovuta al fatto che attribuiamo all’altro un certo potere su di noi; perdonare significa allora liberarlo da una colpa e, liberandolo, liberiamo noi stessi, come se fossimo legati a lui o a lei da un laccio, che solo a noi spetta tagliare.
In secondo luogo, quali passi occorre fare? Dopo un litigio, soprattutto all’interno della coppia, a volte anche per motivi banali, il perdono necessita, diciamo così, di quattro passaggi: ad una reazione istintiva segue un periodo più o meno lungo di latenza, sorta di incubazione in cui ognuna delle parti rischia di pensare solo a sé stessa, dopo di che si arriva alla discussione, al confronto senza il quale il problema verrebbe solo accantonato, per giungere quindi all’agognata riconciliazione. «Che per ogni offesa ci vuole il perdono. E io sono felice di essere riuscito a farlo»
Infine, cosa rende tanto difficile il perdono? Le cause sono molteplici, anzitutto di ordine psicologico: rimuginare equivale a tenere vivo il ricordo dell’accaduto, insomma a gettare benzina sul fuoco. Una seconda ragione è invece di tipo sociale: nell’immaginario collettivo perdonare è considerato un atto di debolezza. Sembra inoltre che, chi è meno soddisfatto di sé stesso tenda a perdonare meno. Altro scoglio è rappresentato da una visione distorta di noi stessi, dal prenderci troppo sul serio: «Lei non sa chi sono io!». Infine, causa forse più ostica, il perdono espone a un rischio: che l’altro possa ferirci di nuovo. Perdono, però, che non può mai essere condizionato, non esiste il “Ti perdono se”. Emblematica, in tal senso, la figura di Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, il poliziotto ventisettenne che faceva parte della scorta di Giovanni Falcone, assassinato nel ’92: presa la parola durante i funerali di Stato, evidentemente caldeggiata dal presbitero che stava alla sua destra, disse, rivolgendosi ai carnefici del marito: «sappiate, che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare loro non cambiano, di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare, loro, loro non cambiano, loro non cambiano», per poi gettarsi, disperata, tra le braccia del ministro di Dio..
Proviamo a sfidare l’ovvio, e chiediamoci: perché mai dovremmo perdonare? «Bisogna avere il coraggio di farlo»
Oltre al coraggio, però, ci sono buone ragioni per farlo: «Volete essere felice per un istante? Vendicatevi. Volete essere felici per sempre? Perdonate!». Con queste parole il domenicano Henri Dominique Lacordaire (1802-1861) ci esorta in pratica ad un sano egoismo, dato che chi perdona sta meglio, e per tanto tempo; poi sarà il perdonato stesso a giovarne: penserà positivo, diventerà più libero, sensibile e propenso a sua volta a perdonare. Insomma, chi è perdonato, perdona.
«La ferita – sottolinea lo psicanalista Massimo Recalcati – può diventare poesia»! Bello a dirsi, ma come? Interessante a questo proposito, l’antica arte giapponese del kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”: leggenda narra che un potente mandarino, un funzionario dell’antica Cina imperiale, ruppe accidentalmente uno dei suoi costosissimi vasi da collezione. Disperato, cercò un artigiano in grado di ripararlo, artigiano che, invece di ricostruirlo esattamente com’era prima, mise in evidenza le crepe del vaso, dipingendole con l’oro.
I casi in cui il perdono, apparentemente impossibile, si è fatto possibile, non sono pochi.. ne evidenziamo un paio.
Il primo ha visto come protagonisti Georges Salines e Azdyne Amimour: il primo perse la figlia Lola nell’attentato del 13 novembre 2015, al Bataclan di Parigi, il secondo è padre di Samy, uno dei tre attentatori. Dalla loro amicizia e collaborazione nasce non solo l’impegno e il desiderio di raccontarsi a tanti giovani, testimoni di quella “giustizia riparativa” che ricuce le ferite e allarga i cuori, ma anche un bel libro, scritto a quattro mani: A noi restano le parole.
Il concetto di “giustizia riparativa”, val la pena ricordarlo, nasce in Nord America tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, come alternativa alla pena legata alla detenzione, focalizzandosi sul riparo del danno e sulla ricostruzione dei rapporti. Le sue radici le troviamo già nella Sacra Scrittura: se la via principale, attraverso cui l’Israele biblico cercava di ristabilire la giustizia era il mišpat (letteralmente “giudizio”), ovvero quel processo che chiamava in causa tre figure, l’innocente, il colpevole e il giudice, la sua alternativa è il rîb, in ebraico “lite, accusa, contesa.. litigio”, in cui il rapporto non è più trilaterale ma bi-laterale, a scomparire è infatti la figura del giudice. Potremmo schematicamente rendere l’idea come segue.. con l’accusa inizia il rîb, che però può prendere due strade diverse: nella prima l’accusato confessa la sua colpa e, se l’accusa concede il perdono, si arriva alla riconciliazione, viceversa, se l’accusa rifiuta il perdono, si è destinati al tribunale o allo scontro fisico, alla guerra. Nella seconda strada, invece, quella in cui l’accusato protesta la sua innocenza, se l’accusatore persiste nell’accusa, ad attenderli c’è il tribunale o la guerra, viceversa, se l’accusa desiste, si arriva alla riconciliazione. Sviluppatasi a livello internazionalmente, la “giustizia riparativa” è arrivata anche in Italia, dove ha conosciuto il suo più celebre esito positivo con Agnese Moro e Franco Bonisoli, figlia del grande statista, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 lei, brigatista lui. Prendendo la parola durante un incontro in Sardegna, promosso dall’associazione Il Samaritano nell’agosto del 2024, Agnese disse: «Giustizia riparativa è un termine abbastanza ambizioso». «Qui abbiamo a che fare con qualcosa di irreparabile: vale per me e la mia famiglia, vale anche per Franco Bonisoli. La morte delle persone non si può riparare. Mio padre non può ritornare. (rumore di spari di pistola) Franco non può tornare agli istanti che hanno preceduto gli spari di quei colpi. L’irreparabile è entrato nelle nostre vite e le ha cambiate completamente, lasciando dietro di sé delle scorie radioattive. Ecco, queste sì che possono essere riparate. Per me si chiamano silenzio, solitudine, impossibilità di raccontare e condividere quello che è successo, il non desiderio di farlo perché non vuoi passare quell’orrore ad altre generazioni, la convinzione che nessuno ti capirà e potrà accettare quel peso. Viene il torcicollo, perché la testa è sempre rivolta indietro, anche se vai avanti. Il passato domina la tua vita e non passa mai. – e prosegue – Riconciliarsi è un modo per esorcizzare i fantasmi che agitano la tua vita: Franco è stato uno di essi, per tantissimo tempo. Mi ha fatto male vedere l’indifferenza nei nostri confronti da parte sua e degli altri brigatisti, quando erano rinchiusi nelle gabbie al processo. Ma quando al fantasma si sostituisce il viso di una persona concreta, cambia tutto. Per me è un mistero la sua scelta di avermi voluto incontrare anni fa: ha scontato la sua pena, non mi doveva niente. Non deve niente a nessuno. Io sono un rimprovero vivente, eppure ha preso un treno da Milano a Roma per incontrarmi».
30 Dicembre 2016, il prete e i giovani decidono di entrare in casa dell’anziano, non tutti però, una di loro rimane fuori: ha paura del cane che li attende alla porta. Oltre all’animale c’è anche la badante di Francesco, una donna straniera che da tempo se ne prende cura.. Appena entrati, una scritta, ricamata e incorniciata, chiede loro attenzione: “Non fare del bene se non sei in grado di sopportare l’ingratitudine”.
Nato il 30 agosto 1927 alle Murazze, piccola frazione del più noto, ahimè, comune di Marzabotto, cresce in una famiglia composta da due nuclei familiari, che lo storico britannico Peter Laslett definirebbe “multipla”. A comporla è il nucleo dello zio Filippo, padre di sei figli, e quello del papà di Francesco, Olindo, morto nel 1944 durante un bombardamento degli Alleati. Francesco ha due sorelle, Lidia e Marta. Ed è proprio per scampare ai bombardamenti che nell’estate del’44 lui e la sua famiglia scelgono di trasferirsi a Cerpiano, tra la vallata in cui scorre il fiume Setta e i 668 m della cima di Monte Sole.
All’alba del 29 settembre 1944, mamma Alfonsina manda il diciassettenne Francesco “a fare l’erba per i conigli” ma, cercando di anticipare l’arrivo della pioggia, torna a casa, e quello che vede è terribile: in fondo alla valle ci sono solo case in fiamme! Capisce che si tratta di un rastrellamento tedesco, così si rifugia nel bosco assieme ad alcuni partigiani. Lasciamo che sia lui stesso a raccontarci quei momenti: «Lei mi mandò a prender l’erba per i conigli. Quando tornai, che gli dissi che in fondo alla valle c’erano le case che bruciavano. Quella è stata l’ultima volta che ho visto la mamma. Sì. Io a mia mamma ci penso tutti i giorni, sì, e non dico una bugia, dico la verità»
Scelse tuttavia di restare, per vedere coi suoi occhi cosa sarebbe successo: radunati tutti a forza nella piccola chiesa, i soldati tedeschi vi lanciarono dentro bombe a mano: «Fu un sottufficiale della SS, che si chiama Albert Meyer, un fanatico nazista, che lanciò, che lanciò la bomba, dentro dalla finestra, e poi andò a vantarsi con i suoi commilitoni, dicendo: “lancio solo una bomba perché così soffrono di più”»
Nella vicina frazione di Casaglia, intanto, le SS costringono i civili affinché entrino nel cimitero in cui, disposti in base alla statura, vengono uccise 77 persone, donne e bambini, a colpi di mitragliatrice. Tra loro c’è il cugino di Francesco. Il punto esatto in cui sono finiti i proiettili, sulle lapidi, testimonia ancora oggi che qualcuno è stato capace di sparare “ad altezza bambino”..
Il parroco 26enne, don Ubaldo Marchioni, viene falcidiato in chiesa da una raffica di mitra nel tentativo di proteggere la pisside con le ostie consacrate.
Francesco a quel punto non ha più dubbi: è chiaro i suoi parenti sono morti, tutti! Già orfano di padre, lo diventa per altre 14 volte: oltre alla madre, perde la sorella Marta, al tempo dodicenne, quattro zie e otto cugini. A eccidio terminato si conteranno 770 vittime, in buona parte anziani, donne e bambini, il più giovane dei quali aveva appena due settimane.
Ma torniamo a quegli attimi concitati: Francesco decide di riparare nottetempo, insieme allo zio Carlo, nel versante opposto del fiume Setta. Passato qualche giorno s’imbatte in una pattuglia militare alleata, che lo affida ai Nannetti, dei contadini del posto. Per lui sono come la famiglia che crebbe il kryptoniano Kal-El, più conosciuto come Clark Kent o, meglio ancora, come Superman, il primo supereroe in senso storico, nasce infatti nel 1933 dalle penne di Jerry Siegel e Joe Shuster. Anche Francesco in quel momento, proprio come Superman, viene suo malgrado “da un altro pianeta”.
Coi Nannetti rimane sette mesi, dopo i quali, il 16 aprile 1945, liberata l’intera zona torna alle Murazze, in cui riceve finalmente una bella notizia: la sorella Lidia è salva! Rimane infatti oltre 24 ore sotto i cadaveri di parenti e amici, tra l’altro ferita all’anca da un proiettile esploso da un soldato in fuga..
Da quel momento Francesco può rifarsi una vita, partendo da zero: si sposa, ha due figli e viene assunto in Ferrovia, assegnato – scherzo del destino – proprio in quella Vado in cui il padre aveva perso la vita anni prima. Ma al lavoro in ferrovia ha per tanto tempo affiancato la sua attività di guida, dopo l’istituzione del Parco storico di Monte Sole, per cercare di spiegare, alle scolaresche in visita, l’inspiegabile..
Capito che l’odio non porta da nessuna parte, si convince a perdonare gli assassini dei suoi familiari, in primis Albert Mayer, vero responsabile di quella strage: «Io a Cerpiano, con lui presente, ho perdonato ufficialmente tutti quanti».
Perdono che poi estende il 13 gennaio 2007, giorno in cui viene chiamato a testimoniare al Tribunale militare di La Spezia, nei confronti di 17 tra Ufficiali e Sottufficiali delle SS: «Per quello che mi riguarda li perdono tutti. Ho perdonato Albert Meyer, perdono anche loro».
Il 16 luglio del ’67, a Marzabotto viene indetto un referendum contro la grazia ad un altro responsabile di quella carneficina: Walter Reder, soprannominato “il monco”, che, dopo aver scontato parte della sua condanna, si dice pentito. «Ancora adesso, che son passati 70 anni, quando parliamo dei fatti che sono successi a Monte Sole, e che io gli dico: “ah, io li ho perdonati”, “Vergognati! Ti hanno ammazzato tutta la famiglia e tu li perdoni?!”. Dico sì, e sono felice di farlo»
Tornando ai già citati Georges e Azdyne, che si sono avvicinati dopo aver perso i loro figli al Bataclan, questa volta, al contrario, è la prole ad essersi riconciliata, Francesco ha infatti incontrato anni dopo il figlio di Meyer: «Quando mi ha visto, la prima cosa che mi ha detto, ha detto: “Io di cognome non mi chiamo più Meyer, mi vergognavo di quel cognome”. Ha sposato una ragazza turca, anche lei avvocato, ebbene, fanno parte di un’organizzazione in Germania, che cerca di integrare, là da loro, gli extracomunitari che vanno là da loro. Vedete che le cose cambiano!»
Il perdono, allora, non è dimenticare, né sminuire e, ce lo ha detto Agnese, non annulla effetti e conseguenze del male fatto. Si tratta di scegliere un percorso, che richiede tempo, talvolta tanto tempo.. un incontro, con la “i” minuscola, in attesa di quello con la “I” maiuscola: «Arriverà il momento che andrò assieme a mio padre, a mia madre, alle mie sorelle, ai miei fratelli, sì. Tanto la vita è questa» Il momento è arrivato.. Francesco ci lascia il 2 dicembre 2022 a 95 anni.
Grazie, amico di Dio, proveremo anche noi a perdonare: tu però, da lassù, dacci una mano..
Recita
Cristian Messina, Federica Lualdi, don Franco Mastrolonardo
Musiche di sottofondo
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La testimonianza diretta di Francesco Pirini è tratta da un video prodotto dalla Conferenza Episcopale Italiana in occasione della XXXI GMG di Cracovia (2016)
La testimonianza di Rosaria Costa è tratta da un filmato di repertorio presente su YouTube