Testimoni: David Maria Turoldo (18 Agosto)



David Maria Turoldo (18 Agosto)
Padre Turoldo va ringraziato per tanti motivi, in primis per averci lasciato un’autobiografia, sorta di auto-intervista realizzata poco prima di morire, il cui titolo è già una sintesi della sua avvincente esistenza: La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza. Nato il 22 novembre 1916 a Coderno, paesino in provincia di Udine, Giuseppe, soprannominato “Bepi il rosso”, è l’ultimo dei nove figli di una famiglia poverissima. Eppure, come dirà lui stesso, a mamma e papà, così come alla sua terra, sarà eternamente debitore: «..i miei più grandi maestri sono stati mia madre e mio padre».. «Una terra che ho sempre pensato fosse il centro dell’universo.. la mia anima è la mia natura di friulano.. (quanto ai) poveri sono stati la causa della mia vocazione.. il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia e della mia predicazione. Per loro mi son fatto “voce”..». Si badi bene: «la.. (sua) battaglia non è (però) contro la povertà, ma contro la miseria.. la povertà è (infatti) la placenta di tutti i valori!». Entrato nei Servi di Maria per via della sua devozione alla Madonna, prende il nome del grande re d’Israele, tra l’altro fulvo di capelli come lui. Il 18 agosto 1940, ragion per cui lo celebriamo oggi, è ordinato presbitero. 

Di lui è stato detto e scritto tanto, in positivo e in negativo.. chi era veramente?
Definitosi “maniaco di Dio”, all’interrogativo è lui stesso a dare voce: «Credo che nessuno possa rispondere a una domanda simile.. Se lo sapesse, sarebbe la fine.. È (infatti) un problema che rimanda alla storia.. spazio della profezia imperfetta.. incompiuta.. Solo Dio.. conosce sé stesso..». Artista poliedrico – è infatti poeta, autore di saggi e testi narrativi, di teatro, realizzando perfino un film – decide di farsi frate perché «Dio non parla al telefono.. (ma) attraverso le circostanze.. esistenziali, elementi sociali.. cultura e grazia, tutto può concorrere al mistero di una vocazione.. (e) le vere vocazioni si pagano sempre, e costano molto». Vocazione, la sua, che è stata infatti sempre tormentata: «La sicurezza – è sempre lui a dircelo – è una categoria che non mi appartiene.. Io sono un animale religioso.. non so cosa avrei potuto fare se non fossi stato un religioso; forse avrei anche ammazzato, e sarei già stato ammazzato da qualcuno: chissà!». Ma, come già sottolineato, nel titolo e sottotitolo della sua autobiografia ci sono tutti gli elementi per capire chi è stato.

Ovvero?
Il celebre teologo Ermes Ronchi, anch’egli Servo di Maria, nell’introduzione all’autobiografia precisa che la sua fu una vocazione «ad amare con la stessa intensità cielo e terra», mentre la resistenza gli derivò «dall’obbedienza alla Parola». Ronchi sottolinea poi «la sua capacità di tenere insieme.. naturalità – chi più friulano di lui –.. e il respiro planetario», secondo il moderno adagio, diffuso un po’ ovunque: «pensa globalmente e agisci localmente». In un tempo storico in cui la schizofrenia spaziale, favorita dai moderni mezzi di comunicazione, prende il sopravvento su ognuno di noi, David ci ha insegnato anche questo. Il libro inizia con le parole dello stesso Turoldo che subito pone a tema il titolo: «..per voi.. lettori, amici della diaspora, forse fedeli di una chiesa sommersa; oppure gente di nessuna chiesa: amici che sempre mi avete aiutato a credere». E di amici ne ebbe davvero tanti, su tutti Camillo De Piaz, anch’egli Servo di Maria, col quale condivise praticamente tutto; il futuro cardinale Gianfranco Ravasi, che commentò il libro dei Salmi da lui tradotto poeticamente; quindi, e non a caso, un altro personaggio cui piaceva andare controcorrente: il conterraneo Pierpaolo Pasolini, di cui nel 1975 concelebrerà le esequie. E altri ancora.. Definito “coscienza inquieta della Chiesa”, Turoldo è stato un cristiano molto ubbidiente, senza tuttavia smettere di annunciare la radicalità evangelica, rifiutando – afferma il teologo Brunetto Salvarani in un podcast dedicatogli – «qualsiasi genuflessione al potere». Portatore di quella parresia che, spesso citata nel Nuovo Testamento, indica la franchezza nell’esprimersi, è stato etichettato con aggettivi che, per sua stessa ammissione, proprio non sopportava: “prete di sinistra”.. “prete moderno”.. (e) “prete scomodo”. Ma “scomodo”, per la Chiesa gerarchica, lo era davvero: «Roma – scrive sempre nella sua autobiografia – controllava ogni mossa (e, naturalmente, ogni pensiero).. come sempre. Anche se ormai l’effetto difficilmente arriva a livello di controllo delle coscienze». Il cardinale Alfredo Ottaviani, celebre per le sue posizioni conservatrici, non a caso disse ai suoi superiori: «Fatelo girare, perché non coaguli».  

A cosa alludeva esattamente con questa espressione?
L’allora Sant’Uffizio, oggi Congregazione per la dottrina della fede, lo costrinse all’esilio: Innsbruck, Ginevra, Parigi, Monaco di Baviera, Londra. Grazie all’intercessione dell’amico sindaco Giorgio La Pira gli fu concesso di rientrare in patria, a Firenze, al tempo diocesi incredibilmente feconda, a partire dal suo vescovo Elia Dalla Costa, proseguendo col teologo Giovanni Vannucci (anch’egli servita), il presbitero “intellettuale” Ernesto Balducci, don Milani e don Divo Barsotti. Ma anche a Firenze le incomprensioni col nuovo vescovo lo porteranno ad un ulteriore esilio: Inghilterra, Stati Uniti, Messico, Canada, Sud Africa.. E questo perché la sua libertà nel pensare, nell’esprimersi e nell’agire, lo hanno sempre messo all’opposizione di qualsiasi facile scelta: «feci precisamente della Resistenza la mia divisa interiore. E mai mi pentii di aver.. coniata la nuova beatitudine: “Beati coloro che hanno fame e sete di opposizione». Riponeva in primis la sua fiducia nell’uomo, poi nelle istituzioni, come ben sottolineava il nome del giornale clandestino da lui fondato: L’uomo. Quanto ai suoi rapporti con l’istituzione, fu ciò che più lo fece soffrire: «fino al punto di pensare che precisamente la Chiesa, proprio essa, impediva di vivere il Vangelo!». Non era però contrario alla tradizione, tutt’altro: «bisogna essere fedeli e liberi! ..anzi.. non basta la fede, ma ci vuole anche la fedeltà.. che mi inserisce dentro il fiume della tradizione. Ora, più si è “tradizionalisti” più si è rivoluzionari.. non bisogna mai essere astorici. Chi non è fedele rischia di inaridirsi, e di essere senza futuro.. Da qui.. il mio modo di stare nella Chiesa; un esserci sempre in dialettica, uno starci in permanenza con spirito critico, amorosamente critico. Critico per passione, critico per fede.. anche la Chiesa è (infatti) relativa, per quanto necessaria. Anche la Chiesa è per gli uomini, e non gli uomini per la Chiesa.. lo stesso Spirito ha bisogno di farsi visibile per essere percepito. L’istituzione, le strutture, i sacramenti sono momenti di visibilità dello Spirito».

Scandalizzare i più conservatori non gli era insomma poi così difficile..
Decisamente no. Non temette ad esempio di affermare che la sua «prima passione è stata per Mussolini.. (ma, afferma) Ero troppo sprovveduto e indifeso.. ero un irrazionale fascista: come tutti, o almeno come tanti.. un’esperienza che poi orientò tutta la mia vita in senso esattamente opposto», tanto da fargli cantare “Bandiera rossa” nel Duomo di Milano, di cui fu predicatore per dieci anni. Quella Milano in cui darà vita al centro culturale Corsia dei Servi, sostenendo soprattutto il progetto di Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini nell’ex campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena. Fu  proprio il suo scioglimento a fargli più male: «(il problema, dirà) era che si aveva paura del Vangelo. Perché: si può e si deve predicare il Vangelo, ma praticarlo è sempre un rischio.. Il Vangelo bisogna dosarlo, tenerlo sotto controllo! È l’eterna ragione del conflitto tra storia e profezia, tra fede e prassi». Aggiungendo: «pensavo che Nomadelfia rappresentasse veramente il momento dell’uomo nuovo, dell’homo evangelicus». La storia ci dirà che questa utopia cristiana continuerà a profetare nei pressi di Grosseto, in cui tuttora rappresenta una meravigliosa provocazione, prima ancora che una proposta per tutti.. 

Tornando alla Chiesa, qual era in sintesi il suo pensiero su di lei?
«..nella Chiesa – diceva – non ci dovrebbero essere né superiori né sudditi, perché siamo tutti fratelli.. Ma la Chiesa è imprevedibile, è fatta di tutti, di materiale d’ogni genere: fatta perfino di me. Fatta di bene, di meno bene, e anche di male. Ma è certo.. che il bene la vince». Chiesa che in Lo scandalo della speranza, definirà poeticamente «amata e infedele, mia amarezza di ogni domenica, Chiesa che vorrei impazzita di gioia perché (il Signore) è veramente risorto». E aggiungeva: «Non puoi essere una Chiesa ricca e nello stesso tempo dire al povero: “Quanto ti voglio bene! Tanto da preferirti a tutti gli altri”. Se vuoi essere Chiesa credibile, non hai altra scelta». Negli ultimi anni di vita, alla domanda: “la ama ancora questa Chiesa?”, risponderà «la stessa fedeltà è una prova dell’amore, anzi.. è proprio la prova della fede». Della Chiesa cosiddetta gerarchica amò nonostante tutto diversi esponenti, a partire da Giovanni XXIII, nel cui paese natale scelse di andare a vivere: «Decidevo di venirci esattamente il giorno della sua morte, il 3 giugno 1963.. morte fantastica e gloriosa.. un dono per il mondo intero.. Per lui dunque, e per il Concilio sono venuto a stare nel suo paese, in mezzo alla sua gente, per camminare sulle stesse sue strade e guardare da questi suoi spazi il mondo..». 

A proposito, fu contemporaneo del Vaticano II, qual’era la sua posizione a riguardo?
Lasciamo ancora una volta che sia lui stesso a dircelo: «Straordinario evento.. è stato il Concilio. È stato come se.. fossero cadute le mura di Gerico; e la Chiesa finalmente avesse spalancato porte e finestre.. Perciò ancor di più ora godo di essere cattolico». Apertura nei confronti di chiunque, atei compresi, parlando infatti della figura del poeta, così si esprimeva: «nessuno parli mai di un poeta ateo. Se è ateo non può essere poeta. Ateo sarà perché rifiuta un Dio che non c’è; allora anch’io sono ateo; e facciamo bene a essere tutti atei! Magari anche i preti fossero atei: così pregherebbero meglio e celebrerebbero meglio le liturgie.. Ci sono atei (fa dire a Dio sempre ne Lo scandalo della speranza) – così voi li chiamate – che mi sono più vicini di voi. Voi non sapete dove mi nascondo». Di questo grandioso evento fu in qualche modo anticipatore, e sotto vari aspetti, a partire dalla liturgia: «Prima cosa: abbattere tutti i muri della “separazione”, cominciando precisamente dalla liturgia. Il primo muro era l’isolamento del prete, di questa strana figura che gesticolava come uno spastico sull’altare: uno che parlava una lingua ignota a un’assemblea distratta e impaziente: nessuno che sapesse cosa facesse sull’altare. Poi, quella messa focomelica!... Infatti si poteva venire all’Offertorio e andarsene alla Comunione, perché così, morale alla mano, non c’era peccato (anzi, Diritto canonico alla mano!). Cominciammo da qui: con imporre la messa in italiano.. cosa che poi avvenne con il Concilio.. da qui comincia la vera riforma di una Chiesa. La Chiesa si ri-forma sempre partendo da un altare. Un popolo di Dio o nasce dalla liturgia o non nasce in nessun modo e in nessun altro luogo. Io sono convinto che la decisione più grande e più ardita del Concilio è stata la riforma liturgica. Non per nulla è quella che provocò addirittura uno scisma in seno alla Chiesa. Anche se poi la vera riforma è stata tradita e falsata a causa di una Chiesa che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo. Anzi, è da qui che comincia il tradimento del Concilio. Ad esempio: è mancata la creatività, è mancata la responsabilizzazione dei fedeli, la loro partecipazione. Basti pensare che la stessa preghiera detta “dei fedeli” è scritta e composta (talvolta anche letta!), come sempre, dalla gerarchia.. Il prete è tornato a essere casta, ancora un isolato, forse più di prima.. Le liturgie sono divenute più squallide, rapinate nella bellezza. Subissate da squittii e frastuoni e canzonette, fino alla pena.. (quanto alle) messe prefestive.. sono sempre stato decisamente contrario: il giorno del Signore è il giorno del Signore! E chi non lo può vivere, pazienza: non si può pensare alla settimana corta in fatto di fede..». 

Parole molto dure..
Molto, ma fare sconti non era nella sua indole. Eppure queste parole, pronunciate ormai tanto tempo fa, sono di un’attualità disarmante! Non potremmo anche noi, oggi, affermare con lui che «una brutta preghiera è un’offesa a Dio.. che il nostro è un brutto pregare.. E quando s’impoverisce la liturgia, si impoverisce l’anima dell’uomo, ogni anima.. E certamente anche questa è una delle ragioni per cui la nostra Chiesa non prende quota, non si eleva..»? Ma la sua denuncia spaziava, sfruttando anche il cinema. Nel 1963 realizzò Gli ultimi, sotto la regia di Vito Pandolfi, da Turoldo definito «Un film serissimo, austero. Doveva essere – è sempre lui a parlare – il primo di una trilogia che pensavo di dedicare agli ultimi esemplari di una civiltà prossima a scomparire.. (tacciato dalla gerarchia di essere) un film marxista.. nessuna, o quasi, sala cattolica proiettò il mio film. Fin quando, naturalmente, mutati i tempi, non fu la “San Paolo Films” a distribuirlo; e qualche volta so che perfino è stato proiettato nelle chiese. Fu la prova  di quanto sia vero che “nessuno ha torto come colui che ha ragione troppo presto”». La pellicola non ebbe alcun successo, ma questo era prevedibile già dal modo in cui venne promosso: «Voi che vivete nell’epoca del boom economico.. per un attimo pensate che dopo di voi ancora esistono, vivono, muoiono.. gli ultimi.. un’inchiesta sulla miseria, è più allucinante di un film del terrore.. è un film che consigliamo al governo perché provveda, a voi perché riflettiate, alla Chiesa perché interceda, ai partiti perché intervengano.. è un film che il vostro egoismo vi suggerirà forse di non vedere, ma che la vostra coscienza vi imporrà di applaudire». 

Quando e in che modo terminò la sua vita terrena?
Colpito alla fine degli anni ottanta da un tumore al pancreas, morì a Milano il 6 febbraio 1992. Le sue prime esequie furono presiedute dal cardinal Martini, il quale solo pochi mesi prima aveva affermato, riferendosi a Turoldo, che «la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi». Mentre il giorno del funerale così lo dipinse: «poeta e profeta, disturbatore delle coscienze, amico di Dio e degli uomini, un uomo che ha amato il cielo e la terra con la stessa intensità». Un secondo rito funebre venne celebrato a Fontanella di Sotto il Monte, nel cui cimitero riposano tuttora le sue spoglie mortali. Eppure, nemmeno di fronte alla morte cambiò il suo atteggiamento. Diagnosticatogli il tumore, scrisse: «ieri.. all’ora nona mi dissero: “il drago è certo insediato.. come un re sul trono”.. – risposi – bene.. prendiamo finalmente la giusta misura davanti alle cose..». Tornato nella sua casa natale di Coderno dopo anni, e pensando alla propria famiglia, così commentò l’accaduto: «Mi venne.. “un marun”.. angoscia.. dolore.. soffocazione.. (e) un pensiero.. non esiste la morte! ..non c’è la morte! ..tutto vive; ..non è vero che (i defunti) sono di là e noi di qua; (perché) anche loro sono qui, ancora qui, con noi; qui a continuare, tutti, sulle stesse strade: mai soli!».

Grazie, Signore, per averci donato un compagno di viaggio così schietto e deciso. Lo salutiamo con quell’espressione tanto cara alla sua terra, Mandi, frut, traducibile in tanti modi: “Addio figlio”, “che (Dio) ti protegga”, “rimani in Lui”, ma anche m’arcomandi, “mi raccomando”. Sì David, ti raccomandiamo alle mani di quel Dio che hai amato “maniacalmente” e per il quale hai sempre sofferto e lottato. Tu fai altrettanto per noi, adesso che, guardandolo negli occhi, ridete insieme di quanto noi, sulla terra, continuiamo ad affannarci e dividerci per così poco.. 

 

Recita
Federico Fedeli, Cristian Messina

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