Testimoni: Don Divo Barsotti (18 Luglio)



Don Divo Barsotti (18 Luglio)
«Il Cristianesimo non è per questo mondo – non può trasfigurarlo attraverso la morte.. La sua vittoria non è che la morte. Tutti gli sforzi in altro senso falliscono. Non rimane che morire.. La.. permanenza (della Chiesa), la sua forza sembra ordinata a educare i suoi figli al martirio.. L’atteggiamento fondamentale del cristiano rimane quello dell’attesa.. (ma) queste parole non vanificano la legge di un amore per il prossimo che deve essere.. effettivo.. L’unico modo di anticipare il mondo che viene non è volerlo creare da noi – (Il peccato dell’uomo è sempre l’impazienza: voler precedere Dio, prendere il suo posto – non voler lasciare a Lui la libertà di una iniziativa che è sua) l’unico modo di anticipare il mondo di Dio è morire.. Oggi.. Non aspettiamo nulla da Dio. È Dio che sembra ora inutile all’uomo..» (Mysterium Crucis). 

Di chi sono queste parole?
Di Divo Barsotti, che nacque il 25 aprile 1914 a Palaia, un paesino di poco meno di cinquemila anime in provincia di Pisa, da papà Antonio (prima sarto, poi rappresentante di macchine per cucire) e da mamma Adelasia Bruschi, genitori entrambi molto religiosi: il padre – che scriveva poesie e mottetti dedicati al Signore e ai santi – era capace di sostare in chiesa pregando per ore ed ore. Divo pretendeva perfino di conoscere il loro ingresso nell’Aldilà: «Non mi ricordo se il babbo è passato per il Purgatorio e quanto vi sia rimasto – scrisse sul retro di una busta – sono però sicuro che è salito al cielo il medesimo sabato della morte, 24 novembre 1945. Anche la mamma è in Paradiso. Vi salì.. il 15 ottobre 1937». Fu il settimo di nove figli, di cui tre morti in tenera età a causa della terribile influenza “spagnola”, e due preti: il fratello Giovanni, poi canonico del duomo di san Miniato, e lo stesso Divo, nome che già celava il suo futuro, significa infatti “splendente”, dalla stessa radice della parola Dio: nomen omen dicevano i latini. «Io, quando avevo tre anni – dirà più tardi – volevo essere un “arcipapa”. Non c’è male, no?». A sette voleva farsi passionista, e a undici entrò in seminario; a tredici aveva già letto i più importanti romanzi classici, da Dostoevskij a Shakespeare, passando per Dante e Omero. Tali letture erano già una spia indicatrice della sua spiritualità: «Molti romanzieri e molti teologi possono dirci di Dio molto più dei teologi di professione, essi conoscono di più il cuore dell’uomo, ed è l’uomo la rivelazione ultima di Dio». Sei anni più tardi, nel 1933, ebbe una decisiva esperienza mistica, durante la preghiera delle Quarant’Ore: «Ebbi la percezione chiara.. della presenza.. di un Dio che mi voleva per sé. Fu come una folgorazione.. Non riuscivo più a dormire, a mangiare, a parlare.. Sentivo che dovevo vivere unicamente di Lui». «Dio divenne il suo tutto, – scrive padre Serafino Tognetti, della Comunità dei Figli di Dio, in seguito da lui fondata – e in questo “Tutto” ora egli voleva trascinare l’umanità intera». 

Un uomo, possiamo dire, quasi aldilà del tempo e dello spazio!
Esattamente, da non intendere però come via di fuga, amava infatti sia il tempo che lo spazio: da giovane si appassionò all’India e al Giappone, in cui avrebbe voluto recarsi come missionario; il tempo da lui vissuto, invece, non era solo cronologico, soprattutto durante l’eucaristia, che durava tanto, troppo per alcuni parrocchiani.. Eppure, come amava dire, «basterebbe una sola comunione a farci santi». Ordinato presbitero il 18 luglio 1937, realizzò presto che la parrocchia non era per lui. Senza nulla togliere a questa istituzione, che pure rimane storica, la sua visione cristiana andava oltre: «non voglio avere confini nell’amore.. Devo sentire che il mio corpo è la creazione intera». E aggiungeva: «Compito (del cristiano) è la redenzione del mondo: penetrare il mondo da ogni parte.. sicché.. tutto sia “transustanziato”, tutto: l’arte, la politica, la scuola, il lavoro.. Gesù non vuole che si creino cenacoli chiusi.. devi essere ardito.. devi portare Gesù dove Egli non è». 

Parole pazzesche, esplosive, vera dinamite se solo fossero messe in atto..
Proprio così. Ma non era il solo, in quel periodo storico, a “pensare in grande”, le sue amicizie più strette infatti la dicono lunga: dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar al sindaco di Firenze Giorgio La Pira, passando per David Maria Turoldo ed Elia Dalla Costa, al tempo arcivescovo del capoluogo toscano dove, dopo ben quattro anni di attesa, poté esprimere i suoi talenti: gli fu affidato un piccolo gruppo di signore autodefinitesi Militia Regni Christi, in risposta all’appello di papa Pio XII, che in quegli anni puntava sulla formazione di un laicato forte. Il nome tuttavia cambiò nel giro di poco tempo, perché a cambiare fu l’orientamento spirituale di quello sparuto gruppo di donne: Comunità dei figli di Dio, nata nel 1947 con la consacrazione, oltre a don Divo stesso, di quattro donne, cui diede da subito un programma di vita molto esigente che prevedeva, oltre alla celebrazione della Liturgia delle Ore quotidiana, l’approfondimento della Bibbia e della vita dei Padri della Chiesa e dei santi (che «non devono stare nelle nicchie») – russi in particolare: Serafino di Sarov, Sergio di Radonez e Silvano del Monte Athos, al tempo sconosciuti ai più – , oltre all’esercizio dei consigli evangelici (castità, povertà e obbedienza) e delle virtù teologali (fede, speranza e carità). La preghiera era per lui centro di tutto: «Non è.. dalle tue opere che il mondo sarà salvato, ma dalla tua preghiera». Una preghiera, tra l’altro, oltre che basata sul silenzio, capace di spezzare i vincoli dello spazio-tempo: don Divo entrava in comunione con tutti coloro che, essendo materialmente vissuti prima dell’Incarnazione del Verbo, non avevano potuto conoscerlo, ragion per cui doveva portarlo anche e soprattutto a loro. La sua era insomma una concezione dello spazio-tempo “ribaltata”: «Non i morti vivono nel ricordo dei vivi, ma sono quelli che si dicono vivi che in realtà vivono nella “memoria” dei morti. Sono coloro che hanno passato la frontiera del tempo che portano anche i “vivi” nella presenza pura dell’eternità». Non c’è che dire: ha ragione lui! La sua comunione si estendeva infatti anche con chi il Signore lo aveva incontrato eccome: «Avete mai mangiato con san Giovanni della Croce? – diceva spesso ai suoi – Siete mai andati a fare una passeggiata con santa Gemma Galgani? Se no, non avete conosciuto la bellezza dei santi!». «Conosceva molti più abitanti del Cielo – è il commento del già citato Tognetti – che persone sulla terra». Che meraviglia.. 

La sua era insomma una giornata in cui non poteva di certo annoiarsi, ma forse non per tutti..
Forse no, forse.. Nel 1955 intraprese un’esperienza eremitica assieme a un giovane discepolo, seme capace di germogliare nella futura casa san Sergio di Settignano sulle colline fiorentine, futura sede della comunità, in cui avrebbero trovato posto tanti consacrati, pur vivendo tale consacrazione (occasione speciale per riscoprire il proprio Battesimo) nei diversi stati di vita. Le comunità nel tempo si moltiplicarono, in Italia e nel mondo, arrivando a superare i duemila consacrati in tutti e cinque i continenti, ma solo dopo anni di dura prova per don Divo: nel 1958 entrò in contrasto con la gerarchia ecclesiastica, per via di un testo da lui pubblicato (la sua produzione come scrittore fu infatti davvero enorme), di cui la Curia fiorentina proibì la vendita, ritenendolo non chiaro dal punto di vista teologico. Non solo, due anni dopo un decreto del Vaticano gli impose di non scrivere più in materia di Sacra Scrittura. Venne allora ritirato dal mercato Spiritualità dell’Esodo. La Chiesa, che amava più di sé stesso, lo aveva isolato. Nel 1965, poi, i giovani che vivevano con lui lo abbandonarono. Il doppio colpo fu durissimo. 

Come ne uscì?
Da una parte la gerarchia lo ristabilì, nel 1971 predicò infatti gli esercizi spirituali a papa Paolo VI; poi fu chiamato ad insegnare Teologia sacramentaria allo Studio teologico di Firenze; quindi fu premiato per il libro La religione di Giacomo Leopardi, nel 1978. Per quanto riguarda invece la vita comunitaria, fino agli anni ’80 visse a casa san Sergio praticamente da solo e, anche se – come amava dire – «basta un uomo solo che viva davanti a Dio a salvare il mondo», vide la comunità non solo ricostituirsi, arricchita tra l’altro del ramo femminile, ma addirittura essere ufficialmente riconosciuta: l’Arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli, la riconobbe canonicamente. «Da quanti anni aspettavo questo giorno!», sarà il commento commosso di don Divo. Il giorno che egli tanto attendeva era tuttavia un altro: il suo incontro col Signore giunse il 15 febbraio 2006, a cui rispose pronunciando quel nome che aveva ripetuto incessantemente per tutta la vita, «Gesù.. Gesù..». «La vita umana è fallimento: – scrisse il 19 settembre 1945 nel suo diario spirituale, pubblicato dodici anni dopo col titolo La fuga immobiletutto quello che si fa cade nel vuoto: come sottrarsi alla morte? Nessun uomo può accettare la morte, eppure tutti gli uomini vivono per la morte. La vita esige eroismo: l’uomo deve tentare spasmodicamente di sciogliersi dalla necessità. Se l’uomo non vive per Iddio, l’uomo propriamente non vive..». Hai vissuto, caro don, eccome..

Grazie, Signore, per averci donato Divo. Ti lodiamo con le parole che questo tuo figlio non ha mai smesso di rivolgerti, al termine di ogni eucaristia: «O Dio, ecco.. nell’abisso del mio nulla ti adoro.. glorifica in me il tuo santissimo Nome, elevando nella tua onnipotenza la mia preghiera, ascoltandola nella tua sapienza, compiendola nel tuo amore infinito». 

Recita
Daniele Briglia

Musica di sottofondo
E.Lepri, Oltre

 

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