Testimoni: Carlo Carretto (4 Gennaio)



Carlo Carretto
«Sono nato ad Alessandria così.. per caso. Quella città non ha niente a che vedere con la mia famiglia che.. aveva.. le sue radici profonde, sulle colline delle Langhe..». Al di là di questa precisazione di Carlo Carretto, val la pena sottolineare che la città piemontese ha conosciuto tanti natali celebri, tra cui le sorelle, giornaliste e conduttrici televisive Cristina e Benedetta Parodi, come pure l’omologo maschile Mario Giordano, il magistrato Gian Carlo Caselli, il grande calciatore Gianni Rivera e lo scrittore Umberto Eco. Prima di loro, tuttavia, il 2 aprile del 1910 ha visto nascere Carretto, appunto, terzo di sei figli – di cui ben quattro si faranno religiosi! – da una famiglia di contadini proveniente, come da lui stesso precisato, dalle Langhe, nella zona bassa della regione. Il nucleo tuttavia si trasferisce presto in un quartiere periferico di Torino, nel quale si trova un oratorio salesiano che avrà molta influenza sulla formazione del giovane Carlo, che già allora stava davanti alla realtà in modo critico: «Ero studente e aprivo i primi libri di storia. Ci voleva poco a vedere che qualche marachella l’aveva commessa qualche persona seria, qualche ecclesiastico ad esempio, e perfino qualche papa. Preso dal dubbio andavo a casa ed esponevo le mie perplessità. Come risposta ricevevo uno schiaffone da mia madre». Realtà di fronte alla quale, dirà in seguito, «non c’è altra scelta: o maledirla perché figlia degenere di un padre pazzo o accettarla come mistero».

Cos’ha fatto di speciale nella sua vita? Perché lo ricordiamo?
Procediamo per gradi: a diciotto anni è già maestro elementare nel comune vercellese di Gattinara. Laureatosi in Filosofia nel capoluogo piemontese, nel 1940, dopo aver vinto un concorso viene inviato come direttore didattico in Sardegna, ma l’incarico durerà poco, perché il suo insegnamento contrasta apertamente col regime fascista. Rimandato in Piemonte, ritorna a fare il direttore didattico in Valle di Susa, a circa 30 chilometri da Torino. Con l’avvento della Repubblica di Salò, riceve da Roma l’incarico di riorganizzare la struttura dell’Azione Cattolica del Nord-Italia. Terminato il secondo conflitto mondiale, fonderà a Roma insieme a Luigi Gedda (al tempo presidente dell’Azione Cattolica), l’Associazione nazionale maestri cattolici. 

L’Azione Cattolica caratterizzò dunque il suo percorso.
In modo indelebile: «Avevo pensato di essere “qualcuno” nella Chiesa.. – disse – Cristo, fondata la Chiesa, era scomparso nel Cielo. Tutto il lavoro era restato a noi, alla Chiesa. Soprattutto noi dell’Azione Cattolica eravamo i facchini veri.. Anche di notte mi sentivo militante.. sempre di corsa da un impegno all’altro, da un’adunanza all’altra. La preghiera era affrettata, i discorsi concitati, il cuore agitato.. (ma) non rinnego quel tempo, tutt’altro.. Se dovessi ricominciare da capo, farei Azione Cattolica.. Qualcuno dice: “Facevate del trionfalismo”. Ma no! Cercavamo di vincere la paura.. Eravamo deboli.. sempre in minoranza.. Il trionfalismo pericoloso è venuto dopo la vittoria della Democrazia Cristiana nell’aprile 1948. I politici hanno capito che forza era l’Azione Cattolica e hanno cercato di strumentalizzarla.. non mi sono più trovato». Dopo essere stato Presidente della Gioventù di Azione Cattolica intorno al 1948 infatti, anno in cui indisse a Roma l’oceanica adunanza dei trecentomila “baschi verdi” – siamo negli anni post Seconda Guerra Mondiale, della Costituzione Repubblicana e della schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana, in un clima in cui si respira un certo trionfalismo in seno al cristianesimo – a 44 anni sceglie di “fuggire” nel deserto del Sahara, sulle orme della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli di Gesù fondata da René Voillaume e ispirata dalla figura di Charles de Foucauld.

Come mai? Cos’è successo di così sconvolgente da portarlo ad una scelta tanto radicale?
Per capirlo dobbiamo fare tre passi indietro, tanti quanti la sua triplice chiamata, la prima delle quali avvenne a 18 anni, momento da lui definito “la mia conversione”, quando si confessò da un anziano missionario; mentre cinque anni dopo – ecco la seconda – incontrò un medico che gli sottolineò l’importanza di servire la Chiesa pur restando nel mondo: «pregando in una chiesa deserta dov’ero entrato per sfogare il tumulto dei pensieri che agitavano la mia mente, sentii la stessa voce che avevo udito durante la confessione col vecchio missionario: “Tu non ti sposerai; ..io sarò il tuo amore per sempre”»; la terza infine, da lui definita come «la chiamata più seria», quando diede il suo “sì” incondizionato a quella Voce che lo invitava a seguirlo nel deserto. «Come hai sentito quella voce? – gli chiese il teologo Teresio Bosco in un’intervista del 1969, incontrandolo a Spello – Da un libro, da una persona, da avvenimenti?», «..mi ha chiamato facendo il vuoto», gli rispose. Così l’8 dicembre 1954 parte per l’Algeria, nel noviziato di El Abiodh, vicino ad Orano; là per dieci anni vivrà da eremita, ritrovando in seguito il suo vecchio amico Arturo Paoli, anch’egli passato dalla dirigenza dell’Azione Cattolica alla vita religiosa sahariana. L’approdo al noviziato desertico gli costò un gesto durissimo: bruciare il quaderno in cui custodiva gelosamente gli indirizzi degli amici più cari, equivalente simbolico di girare pagina! 

Una scelta davvero netta quella del deserto, forse non per tutti.
Non per tutti in senso fisico, ma «Il deserto – amava dire – non è un’espressione geografica, è una realtà dello spirito». E aggiungeva: «Se tu  non potrai andare nel deserto, devi però “fare il deserto” nella tua vita.. lasciare di tanto in tanto gli uomini, cercare la solitudine per rifare nel silenzio e nella preghiera prolungata il tessuto della tua anima». E ancora: «Fare il deserto significa isolarsi, distaccarsi dalle cose e dagli uomini, principio indiscusso di sanità mentale.. significa chiudersi in una camera, restare soli in una chiesa, costruirsi in una soffitta o in nel fondo di un corridoio un piccolo oratorio dove localizzare il rapporto personale con Dio, dove riprendere il respiro, ritrovare la pace.. significa di tanto in tanto dedicare una giornata completa alla preghiera, partire su una montagna solitaria, alzarsi soli nella notte a pregare.. (insomma) niente altro che ubbidire a Dio». 

In altre parole, il caos e la frenesia della modernità sarebbero di ostacolo alla vita spirituale.
Non per tutti, mentre per tutti la vera tentazione è la comodità, «che ha distrutto Israele.. (il quale) uscito dal deserto, ha conquistato la terra promessa. Ma poi è diventato comodo, e la comodità lo ha rovinato. – e aggiunge – Davide si trova sulla terrazza tranquillo, invece di essere con i soldati a combattere, e lì comincia la sua crisi. Nella maturità uno ha la tendenza a fermarsi, a fare della terra un cantuccio di paradiso. Nella giovinezza ha combattuto per il regno di Dio, ora vuole un po’ di comodità.. Questa tentazione arriva per tutti, direi specialmente per preti e religiosi.. non c’è requie.. dobbiamo arrivare fino al limite della croce.. Il piacere distrugge. È la croce che edifica». Ma quello che in apparenza ci appare come un ostacolo «il più delle volte, è Dio stesso che te lo pone dianzi, per un ben preciso motivo: perché tu impari a cercare lui».

Ma Dio può essere cercato anche nei “luoghi” e nei modi sbagliati.
Certo, e come esempio prendeva il terrorismo, che a parer suo era il frutto di «mistici mancati. – diceva infatti – Hanno talmente fretta di fare del bene ai fratelli che pensano che rovesciando tutto si faccia più in fretta a costruire. È uno sbaglio di valutazione». Lo stesso don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, sosteneva che «un mafioso è solo un santo che ha sbagliato strada»: che meraviglia!    

Tornando a Carretto, ha lasciato qualche scritto di questo suo modo di sperimentare l’incontro col Signore?
Il libro più celebre è senza dubbio Lettere dal deserto, che comincia con un’affermazione perentoria: «Dio chiama sempre! Ma ci sono momenti caratteristici di questo appello divino, momenti che noi segniamo sul nostro taccuino, e che non dimentichiamo più». Già, quante volte siamo riusciti a sentire la sua chiamata in mezzo al frastuono del mondo? Quante volte, sentitala, abbiamo fatto finta di niente o non gli abbiamo risposto? Quante? Un libro seguente, intitolato Il deserto nella città, fu invece frutto di una domanda postagli da uno studente cinese mentre si trovava ad Hong Kong: «Fratel Carlo, ho letto le tue Lettere dal deserto.. Io non posso andare laggiù. Che cosa devo fare? ..perché non scrivi un libro che ci aiuti a trovare il nostro deserto nella città?». Detto e fatto!

A proposito di Dio, quale concezione ha Carlo dell’Altissimo?
«Nella fede – affermava – tu parli con Dio, nella speranza.. ascolti Dio, nella carità (lo) sperimenti». «Qualcuno crede che (lui) debba rivelarsi soltanto fuori del tabernacolo. Come un fantasma, una voce.. Se è così, bisogna andare dal medico. Non voglio negare Lourdes o Fatima, per carità. Ma la rivelazione è “interna”». Insomma, è in primis nella preghiera che l’Eterno ci si rivela: «Pregare – precisava – significa (però) più ascoltare che parlare. Contemplare significa più essere guardato che guardare.. Conversare con Dio, adorare, chiedere, fare il broncio, lamentarsi nelle contrarietà, sorridergli nella gioia, raccontargli le nostre cose, confidargli i nostri segreti, aprirgli il nostro cuore: questo significa pregare», perché «noi siamo ciò che preghiamo». Se la preghiera liturgica era da lui considerata come «luminoso richiamo alle cose invisibili», vedeva nel Rosario – spesso ritenuto una modalità di “seri B”, «un punto di arrivo», non solo quindi la preghiera dei semplici, ma anche quella dei più navigati! 

Il suo apostolato è stato dunque molto diversificato, che concezione aveva della Chiesa?
«Quando ero giovane – scrisse – non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo papa. Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che avere fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nella umiltà e nella coscienza della propria fragilità. No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perché ne fonderei un’altra su una pietra ancora più debole che sono io». E aggiungeva nell’aprile del 1987: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso, e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima, e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te. E poi, dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò sarà la Mia Chiesa, non più quella di Cristo».

Parole sante, ma spesso gli scandali che la coinvolgono lasciano abbastanza interdetti, noi cristiani per primi. 
«L’altro ieri – prosegue nel libro Il Dio che viene – un amico ha scritto una lettera ad un giornale: “Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi non è più credibile”. Mi fa pena! O è un sentimentale che non ha esperienza e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri. Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra. San Francesco urlava: “Tu mi credi santo, e non sai che posso ancora avere dei figli con una prostituta, se Cristo non mi sostiene”. La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo. Degli uomini è la debolezza e semmai la buona volontà di fare qualcosa di buono con l’aiuto della grazia che sgorga dalle vene invisibili della Chiesa visibile. Forse la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse che la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?». Parole le sue che, se pronunciate anni or sono, oggi appaiono più attuali che mai, perché è di perenne attualità che si tratta; prosegue infatti: «C’è un cambiamento radicale.. è nel mondo che si trova ancora una volta pagano, la stabilità nella Chiesa che si risente pronta a ripetere l’annuncio della salvezza. Siamo come al principio. Siamo come i primi cristiani».

Che concezione aveva, invece, del potere in generale e di quello in mano alla Chiesa?
«Tutta la storia – diceva – , specialmente da Pio IX in poi, ci ha dimostrato che il potere per la Chiesa era un handicap. Può darsi che nel passato fosse necessario.. Ma più andiamo avanti.. più sentiamo che aver perduto Roma, il potere, è stato un guadagno per la Chiesa.. è un modo per purificarsi.. Non c’è una sola frase del Vangelo che parli di potere. Sempre si parla di servizio, dell’ultimo posto. Per la Chiesa la posizione più adatta è quella della coscienza critica e del servizio.. Meno siamo potenti, e più siamo testimoni dello Spirito». Insomma era ben conscio della precarietà umana e della transitorietà che ci caratterizza.

Ovvero?
«L’attesa – sottolineava – è il vero significato della mia storia, della mia preghiera, della mia speranza». Si tratta però di un’attesa attiva, quella cui le prime parole del tempo d’Avvento ci richiamano attraverso l’appello di Gesù: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt 24,42). Per san John Henry Newman il vero nome di ogni cristiano è infatti «colui che attende il Signore». Il monaco e liturgista Goffredo Boselli fa inoltre notare che, se un tempo di digiuno e penitenza (la Quaresima) lo condividiamo con l’islam (il Ramadan), e la Pasqua con l’ebraismo, «l’attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana». «L’attesa – prosegue Carretto – è l’atteggiamento fondamentale dell’uomo sulla terra, l’instabilità e la sofferenza la sua casa, l’escatologia la sua speranza».

Insomma un uomo “senza progetti”? 
Nient’affatto, ma i suoi li metteva in altre mani. Annota nel suo diario spirituale il «4 marzo 1955: Da oggi sono morto ai miei progetti. Assumo (quelli) di Gesù». Diario in cui appena tre mesi prima aveva scritto: «Natale 1955: Sono Piccolo Fratello. Il vecchio professore l’ho sepolto.. Ora incomincia una vita nuova». Concepiva infatti la vocazione di ciascuno come «la continuazione della creazione. Dio che chiama è lo stesso Dio che crea, anzi chiamando crea». Ne deriva che i cristiani sono pellegrini, che devono considerarsi perennemente «in terra straniera, deportati idealmente nella Babilonia moderna, ridotti a piccole minoranze ma testimoni dell’Invisibile, non più padroni ma ospiti tra le genti». Parole sempre più attuali, almeno in Occidente. Un cammino, il nostro, in cui il caso non esiste, se non come sinonimo di Dio, che incessantemente ci chiama a riconoscere quel Regno dei cieli che è iniziato nel giorno del nostro concepimento! Un cammino, ancora, in cui la cultura – non la saccenterìa! – chiede sempre più spazio: «Un po’ di sapere fa male alla fede e solo molto sapere torna ad aiutarla. Siamo nel guado e ci stiamo male. Le due sponde si sono allontanate e sovente ci prende perfino la paura di annegare. Io cerco di salvarmi – diceva – studiando molto e soprattutto pregando molto».     

Gli ultimi anni di vita però li ha trascorsi in Italia, come mai?
Rientrato nel Belpaese nel 1965, il 4 gennaio – ragione per cui lo celebriamo oggi – il sindaco della cittadina umbra di Spello decise di affittargli l’ex convento francescano dedicato a san Girolamo, in cui alle otto ore di preghiera giornaliere si univano il lavoro manuale e l’accoglienza di chiunque volesse trascorrere un periodo di riflessione e di ricerca di fede. Per oltre vent’anni sarà l’animatore di questo centro, durante i quali diventerà anche diacono, come annota egli stesso nell’Epifania del ’69: «Da oggi sono diacono, regolarmente consacrato dal vescovo del Sahara a nome della Chiesa universale. In realtà mi sentivo diacono dalla mia conversione a diciotto anni.. Non mi sono mai sentito prete..». 

Cosa lo spinse a tornare in Patria?
«..i superiori mi hanno detto: “Torna”. Loro sanno quanto mi è costato.. de Foucauld, nostro fondatore, non voleva che diventassimo eremiti. Il deserto per noi è un periodo.. Finito il deserto, dobbiamo tornare in mezzo agli uomini». Così si ritrovò a Spello perché l’aveva chiamato il vescovo di Foligno. Lavoro e preghiera, soprattutto silenziosa, questa è la proposta, perché, sosteneva: «Dobbiamo sederci sul pozzo, come Gesù.. organizzare la grazia, disporre nella Chiesa tanti “pozzi” su cui sia seduto Gesù.. chi vuole incontrarlo non trovi solo preti (oggi forse non ne trova affatto!) “che hanno tanto da fare”, ma anche qualcuno che è lì a sua disposizione.. Credo che questo manchi alla Chiesa oggi: preti disponibili, e anche luoghi adatti a incontrare Dio. Guarda le chiese – disse al già citato Teresio Bosco – c’è un chiasso dell’accidenti. Perché non fare un posto tranquillo nelle chiese dove si sta zitti, dove chi vuol pregare possa pregare, e non trovi sempre baccano?». Nelle nostre attuali chiese infatti, ammesso che siano aperte (sic!), o non c’è un’anima o, se c’è qualcuno, è perché attende l’inizio della Messa e, nell’attesa, perché non sgranare un Rosario ad alta voce, guai a rimanere in silenzio! 

Dove e quando morì?
Varcò le porte della casa del Padre mentre si trovava nel suo eremo di Spello, nella notte di martedì 4 ottobre 1988, festa di quel san Francesco del quale tra l’altro era stato biografo. «Noi in fondo – scrisse nel libro Al di là delle cose – crediamo che la nostra casa sia la terra e che la morte che ci porta via sia uno sbaglio. La realtà è esattamente il contrario.. un giorno scopriremo che la morte era una grande e intelligente amica». Altrove la definì invece «il mezzo con cui Dio ci saggia». In un articolo di Enrico Gastaldi del 7 ottobre dello stesso anno, si leggeva: «..nel campo sportivo di Spello. Vi si celebravano, in mezzo ad una folla di ogni tipo, le esequie di una persona, fratel Carlo.. Tanti giovani cantavano l’Alleluja invece del De profundis e spargevano fiori sui presenti come se fosse stata (come forse lo era) una festa di addio, anzi di un arrivederci. Qualcosa di simile doveva essere accaduto alcune centinaia di anni prima, a poche migliaia di metri da lì, alla morte di frate Francesco». «Quando verrete alla mia tomba – disse un giorno Carlo – , chiedetemi di intercedere per la vostra fede». Lo faremo, caro amico..

«Ti ringraziamo, Babbo buono, per averci donato questo luminoso compagno di viaggio, e ti preghiamo unendoci alle sue stesse parole: “Sento la sofferenza di.. non essere santo.. però sono felice: perché Dio mi vuole bene, non per quello che ho fatto. Non posso più stare nemmeno tre minuti senza pensare a lui.. anche quando lavo i piatti». 

 

Recita
Massimo Montanari, Cristian Messina

Musica di sottofondo
E.Savino. Ali di riserva

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