Lettera di Giacomo: Introduzione



Introduzione alla Lettera di Giacomo
Quella che dà avvio alle lettere cattoliche, così chiamate per la prima volta da Ignazio di Antiochia per via della loro destinazione “universale” (questa l’etimologia greca del termine “cattolica”), è attribuita a Giacomo “il minore”, figura attorno alla quale c’è poca chiarezza: per i Vangeli e gli Atti è “figlio di Alfeo”, senza che si sappia nulla di quest’ultimo, mentre Giacomo è chiamato anche “fratello del Signore”, forse perché parente di Gesù, potrebbe essere infatti figlio di Maria, una delle donne che l’evangelista Matteo ritrae sotto la croce (27,56). 

Diventato responsabile (oggi diremmo vescovo) della Chiesa gerosolimitana una volta partito Pietro, ebbe un ruolo fondamentale in quello che venne chiamato “concilio di Gerusalemme”, proponendo quel compromesso – poi accettato – che consisteva nel fatto che, per diventare cristiano, nessuno doveva abbandonare la propria cultura; d’altra parte, però, nessun cristiano doveva rinnegare il legame che lo univa alla religione ebraica. Lo storico Flavio Giuseppe ci dice che venne lapidato nel 62. Alcuni studiosi ritengono però che a redigere la lettera sia stato un suo segretario di lingua greca, altri invece che si sia servito di questo testo uno scrittore, per poi attribuirne il patrocinio – cosa molto diffusa nell’antichità – al più illustre Giacomo. In quest’ultimo caso la lettera sarebbe databile intorno all’80-90 d.C. Per altri ancora la redazione finale è da attribuire ad alcuni discepoli dell’apostolo. 

L’epistola si rivolge «alle dodici tribù che sono nella diaspora (dal greco “dispersione”)» (1,1), a quei Giudeo-cristiani cioè che vivono lontani dalla terra d’Israele, sparsi qua e là nel mondo greco-romano. Questi destinatari sono ovviamente diversi tra loro, sia dal punto di vista economico che sociale, differenze che tuttavia non devono impedire la comunione. Giacomo non a caso li interpella ben diciannove volte chiamandoli «fratelli», «fratelli miei» o «fratelli miei carissimi». D’altro canto, però, non risparmia critiche decise a chiunque, per diverse ragioni (ad esempio perché si mostra superiore agli altri o è incoerente con la fede che professa), metta a repentaglio l’unità dei “fratelli”. Per quanto riguarda il contenuto della lettera invece, è quasi incorniciato dall’apostolo per mezzo di una duplice esortazione: «beato l’uomo che resiste alla tentazione» (1,12), «beati quelli che sono stati pazienti» (5,11). Contenuto che, questa è una delle critiche rivolta allo scritto, tiene un po’ in ombra la figura di Cristo. 

Ad emergere sono prima di tutto tre sezioni relative al modo di celebrare il culto: l’assegnazione dei posti nell’assemblea (2,1-13); il corretto svolgimento del servizio (3,1-3); infine le conseguenze che dovrebbe avere la celebrazione comune (2,14-26). Oltre a queste risalta l’attacco che Giacomo sferra nei confronti dei ricchi: «piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi!» (5,1). Con questa lettera – «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?» (Gc 2,14) – è stato spesso contrapposto a Paolo – «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere..» (Rm 3,28) – in particolare quando di quest’ultimo prese le parti Lutero, che non esitò a definire quella di Giacomo “lettera di paglia”. Il clima ecumenico attuale tende però – Deo gratias! – a sminuire questa differenza tra gli Apostoli e il loro pensiero, ritenendolo anzi una ricchezza. Rimanendo in ambito cattolico, la Lettera di Giacomo è diventata celebre anche perché contiene il fondamento scritturistico del sacramento dell’Unzione degli Infermi (5,14-15), in passato infelicemente definita “Estrema Unzione”.         

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Arrangiamento musicale di Gabriele Gabbri

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