Testimoni: Benedetta Bianchi Porro (23 Gennaio)



Benedetta Bianchi Porro (23 Gennaio)
Colpita da un’emorragia appena nata viene subito battezzata con acqua di Lourdes, ma a tre mesi si ammala di poliomelite, che le paralizza la gamba destra. Da adolescente deve portare un busto per la schiena, e a tredici anni inizia ad avere problemi di udito, che al termine del primo anno di università si tramuteranno in totale sordità. Poco tempo dopo la causa della sordità detta il suo verdetto impietoso: neurofibramotosi diffusa, meglio conosciuta come morbo di Recklinghausen [tedesco]. Viene subito operata al cervello, ma con esito negativo: paralisi della parte sinistra del volto. Operata nuovamente, questa volta al midollo spinale, rimane paralizzata agli arti inferiori. A ventisei anni diversi ascessi dentari necessitano dell’estrazione totale di tutti i denti.. perde il tatto, il gusto e l’olfatto. In breve tempo le rimane solo l’uso (parziale) della mano destra. Nello stesso anno altre due operazioni al cervello, anch’esse senza esito: diventa completamente cieca. Muore alle 10:40 del 23 gennaio 1964.. aveva ventisette anni e mezzo. 

Chi ha potuto vivere un simile Calvario, difficile persino da credere?
Si tratta dell’incredibile storia di Benedetta Bianchi Porro, beatificata da papa Francesco nel 2019. Nasce nel 1936 a Dovadola, un paesino in provincia di Forlì, in Romagna. Figlia dell’ingegner Guido e della colta Elsa, è seconda di sei figli. Quando la sorella Emanuela divenne ballerina alla Scala di Milano, non mancò di andarla a vedere più volte, nonostante l’inevitabile confronto potesse farle male. E Benedetta in quel momento non sentiva già più la musica, lei che l’aveva tanto studiata al pianoforte, che tuttavia non era la sua unica passione, sapeva infatti dipingere e scriveva poesie. La sestogenita Carmen, invece, alle ore otto di quel 23 gennaio 1964 fu chiamata dall’infermiera che accudiva Benedetta: «questa mattina devi salutare bene tua sorella, perché quando torni, potrebbe essere morta». La piccola corse da lei, sentendosi dire: «ricordati: cerca di essere più buona che brava». 

Nonostante tutto, “che fede!”, verrebbe da dire..
Fede e grande forza di volontà. Davanti alle prese in giro dei bambini del paese, che dopo la poliomelite la chiamano “la zoppetta”, lei non si offende: «dicono la verità». Dopo aver studiato dalle suore Dorotee di Forlì, nel 1951 si trasferisce con la famiglia a Sirmione sul Garda. Quanto alla scelta universitaria, inizialmente iscrittasi a Fisica solo per compiacere il padre, passa poco dopo a Medicina: «avevo sempre sognato di diventare medico. Voglio vivere, lottare, sacrificarmi per tutti gli uomini». La conferma di questa paradossale vocazione l’ebbe quando, costatando che nessun medico era in grado di affermare la causa della sua malattia, seppe autodiagnosticarsela. Durante un esame universitario Benedetta, per via della sordità, non riusciva a capire cosa il professore dicesse, così questi le scagliò il libretto verso la porta d’uscita gridando: «fuori di qui, non si è mai visto un medico sordo!». Senza dire una parola lei si alzò, raccolse il suo libretto ed uscì. Tuttavia, dopo che la madre riferì l’episodio al rettore, il quale le fece rifare l’esame per iscritto, Benedetta lo superò con 30 e lode. Il professore che l’aveva cacciata si commosse e, congratulandosi, le chiese scusa per l’accaduto. 

Possiamo dire che la sua fu una vera e propria vocazione alla sofferenza?
Decisamente no! Anna, una delle più care amiche nonché sua biografa, racconta di come Benedetta amasse profondamente la vita. Nei momenti peggiori conobbe il dubbio, lo scetticismo e la paura: «se fossi sicura di non guarire – confidò ad un’amica il primo anno di università – mi butterei giù dalla finestra». Nel 1963 scrisse invece a Sofia: «dirò (allora) senza vergogna: “Signore ho paura delle tenebre”. E Lui: “Non temete, Io ho vinto il mondo”». All’amica Maria Grazia confidò poi di accettare la cecità come espressione della volontà divina. Ma Dio non può volere una cosa del genere! Spesso ci esprimiamo in questi termini, è vero, ma le parole sono importanti: Egli non può nella maniera più assoluta volere il nostro male, anzi! Permette «tante sofferenze – scriverà a Paolina – quante ne possiamo portare: non di più, non di meno». Quando con l’aiuto di Nicoletta, che diventò poi la sua guida spirituale, capì cosa Dio le stava chiedendo, non si sottrasse alla sua pesantissima croce e iniziò a pensare solo agli altri. 

In che modo?
«So che bisogna vivere per condividere la morte degli altri – scrisse alla già citata Sofia – e so soprattutto che bisogna morire per aiutare gli altri a vivere». Dal momento in cui fu costretta ad allettarsi la sua stanza divenne un “crocevia di vite”, e chiunque andasse a trovarla non aveva la sensazione di trovarsi davanti ad una persona malata, anzi, veniva beneficato dalla sua presenza. Nel maggio del 1962 Benedetta sale per la prima volta sul treno dell’Unitalsi che la porta a Lourdes, col progetto di guarire per farsi suora.. davanti alla celebre grotta di Massabielle una giovane donna paralizzata, disperata e in lacrime, giace in barella accanto a lei. Benedetta le prende la mano: «Diglielo alla Madonnina che ti aiuti!». La donna scende dalla barella ed inizia a camminare..

Come affrontò, invece, la propria morte?
La notte prima d’incontrare lo Sposo, preannunciando la sua dipartita attraverso il sogno di una rosa bianca, chiese alla madre di inginocchiarsi accanto a lei per ringraziare il Signore di tutto ciò che le aveva dato: «Ah no, questo no, Dio ti ha dato solo sofferenza», rispose. «Mamma, ti prego..». «L’accontentai». Celebrò la sua vita terrena terminandola così come l’aveva vissuta, in modo eucaristico: prima di rendere lo Spirito infatti, Benedetta prese la mano della sorella Emanuela dicendole «grazie». Anche al medico poi, venuto per praticarle un’iniezione, sussurrò nuovamente il suo ultimo «grazie». 

«Ti chiediamo, Signore, per intercessione di Benedetta, di aiutarci a capire quale croce, in particolare, permetti ci venga addossata, e di imparare a portarla con amore, sapendo che se lasci che essa si posi sulla nostra schiena, è solo perché confidi nella nostra capacità di reggerne il peso. Peso che, per amore, può diventare misteriosamente dono..».                   

        

Recita
Patrizia Sensoli, Cristian Messina

Musica di sottofondo
F.Chopin. Piano Concerto no.1 in E minor. Op.11 II. Romanze. Larghetto. Diritti Creative Commons. Musopen.org

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