2Corinzi 12,1-10 con il commento di Maria Angela Magnani



Dalla seconda lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
2Cor 12,1-10 

Testo del brano
Fratelli, se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni. Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Spence. Hovering Thoughts. Diritti Creative Commons

Meditazione
Maria Angela Magnani

Meditazione
Carissimi/e, ho cercato di mettere in parole le mie risonanze al cospetto di tanto splendore evangelico e magnificenza teologica! Un’impresa impossibile, ma estremamente arricchente per me. Al termine di questo cammino sulle sue orme voglio ringraziare tutti/e voi per la possibilità offertami e per l’ascolto paziente; e vorrei anche chiedere scusa a voi e a S. Paolo se non sono stata all’altezza. Ancora una volta Paolo riparte in questo brano da una situazione considerata onorevole anche dai “super-apostoli” che lo osteggiano: le rivelazioni celesti! Vorrei qui menzionare, per associazione, il passo della visione dantesca in cui sono evocati le due colonne della Chiesa di Cristo, come scrisse Dante nel Paradiso: «Venne Cefàs e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi,  prendendo il cibo da qualunque ostello» (XXI, 127-128). Curioso è, su questo punto, lo stratagemma utilizzato nella Lettera. Sembra infatti che Paolo viva una sorta di dissociazione: racconta di una sua esperienza, ma in terza persona, come se fosse stata vissuta da un altro. Forse però è più corretto definire questa modalità come messianica, perché anche Gesù ne faceva uso. Egli infatti rivelava il mistero della sua persona ricorrendo al titolo “figlio dell’uomo” e riferendovisi alla terza persona. Similmente l’Apostolo sceglie di mettere come una distanza fra sé e l’esperienza rievocata, vissuta da lui medesimo. Non perché la voglia rinnegare o, ancor meno, disprezzare. Piuttosto perché si accorge che non vi sono meriti possibili, o diritti acquisiti per accampare la pretesa di salire al cielo ed avere visioni celesti! Non è questione di tecniche dello spirito, né di sacrifici sul piano fisico o morale: tutto infatti è grazia e, se è così, in un atteggiamento di pura gratuità va vissuto e ricordato. Paolo è consapevole che non si può valicare il confine: non si può cioè vivere come pretesa ciò che ci vuole raggiunge come grazia. Al contrario, sarebbe come ripetere la caduta raccontata nei primi capitoli di Genesi: in modo particolare mi viene in mente l’ascesa arrogante dell’umanità verso i cieli, in forza della costruzione della torre di Babele (cfr. Gen 11). La misteriosa “spina nella carne”, che l’Apostolo delle genti implora gli venga rimossa, funge così da antidoto allo spirito di potenza, che umanamente abita nel cuore di chiunque. Gli studiosi si arrabattano da secoli per comprendere la natura del rapimento “al terzo cielo” e soprattutto di questa “spina”. Ciò che importa in questo contesto mi sembra sia la risonanza spirituale aperta dal testo: a mio avviso si tratta molto semplicemente della incapacità di vivere il proprio limite come una risorsa piuttosto che come condanna e umiliazione. Spero di non essere troppo riduttiva se dico che da questo brano così bello e fondamentale viene l’invito a non fare altro che offrire il proprio limite (che a ciascuno di noi appare insopportabile, faticoso da portare e umiliante) come terreno disponibile, perché il Signore esattamente in quel punto desidera continuare a piantare la sua tenda (cfr. Gv 1,14). Lasciamoci dunque folgorare da questa semplice, ma potente verità: può esserci forse vanto maggiore di questo?

Scarica la nostra App su