Filippesi: Introduzione



Introduzione alla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
«Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini..» (Fil 2,6-7). Così inizia l’inno che impreziosisce la lettera ai Filippesi, sorta di diamante incastonato in un gioiello. Già, perché questa lettera è già di suo un gioiello.. Ma chi sono i Filippesi? Gli abitanti di Filippi, città macedone ricostruita nel IV secolo a.C. dal padre di Alessandro Magno, Filippo II, cui deve il suo nome, prima infatti si chiamava Krenide, per via di alcune sorgenti. Situata ad una dozzina di chilometri dal mare e molto ricca, grazie alle vicine miniere d’oro del Monte Pangeo, nel 31 a.C. Augusto ne fece una colonia romana. Diventata patrimonio dell’UNESCO nel 2016, oggi è possibile visitare solo le rovine di quest’antica città greca. Paolo vi giunse nel corso del suo secondo viaggio missionario, intorno al 49-50 d.C., accompagnato da Sila, Timoteo e forse Luca. Secondo la visione narrata al capitolo 16 degli Atti degli Apostoli: «durante la notte (gli) apparve.. un Macèdone che lo supplicava: “Vieni in Macedonia e aiutaci!”» (At 16,9). Paolo assecondò la visione e predicò per la prima volta il vangelo in Europa. Il primo contatto l’ebbe – come sua abitudine – con gli Ebrei di quella città, probabilmente pochi, dato che non avevano neppure una sinagoga, ragion per cui per la preghiera si radunavano all’aperto. Occorre tuttavia fare un passo indietro e precisare che questa lettera, unanimemente ritenuta opera di Paolo, è però messa in discussione per quanto riguarda la sua unitarietà, dato che al suo interno si presenta frammentata. La sua missiva più dolce e accorata, ad un certo punto e senza apparente ragione cambia registro, fa irruzione un linguaggio duro e polemico: «guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare!». Con chi ce l’ha? Il suo attacco è rivolto a coloro che sono rimasti legati alle prescrizioni della Legge: non è la circoncisione fisica (mutilazione di parte del corpo con finalità igieniche) che porta alla salvezza, ma quella spirituale! È questa la ragione che porta l’Apostolo a definire “cani” – espressione che nel mondo ebraico indica l’impurità per eccellenza – quei giudaizzanti che ripropongono una visione ormai spazzata via dalla grazia donata da Cristo. Non vale anche per noi, quando torniamo a cercare la salvezza in ciò che non può darcela? Non regrediamo anche noi al livello animale, in qualche modo, quando torniamo ad accontentarci del soddisfacimento degli istinti? Tornando alla frammentarietà della lettera, è spiegata da alcuni dal fatto che Paolo dettava le sue lettere a più riprese, ragion per cui il suo stesso “umore” poteva cambiare; altri invece non escludono che Paolo abbia indirizzato loro più lettere, cucite però insieme in quella che è giunta a noi oggi. Quella ai Filippesi è in ogni caso una delle quattro lettere – assieme a Colossesi, Efesini e al biglietto a Filèmone – definite “della prigionia”: se fino a poco tempo fa gli studiosi ritenevano che l’avesse scritta da una prigione di Roma, quindi tra il 61-63 d.C., con un Apostolo stanco perché alla fine del suo ministero, oggi si propende maggiormente per Efeso, nello stesso periodo in cui scrisse le due ai Corinzi, dunque nel 56 o 57. In quest’ultimo caso saremmo però di fronte ad un Paolo ancora nel pieno del suo vigore apostolico. Dicevamo che si tratta in ogni caso della sua lettera più affettuosa, i Filippesi sono infatti e senza mezzi termini i suoi prediletti: «Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia (tema costante della lettera).. perché vi porto nel cuore.. Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi..» (1,3-8). Tre capitoli dopo aggiunge inoltre: «nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere, se non voi soli. E anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario» (4,15-16).. è l’unica comunità dalla quale accetta di farsi aiutare, lui, che aveva sempre sostenuto la necessità di non farsi mantenere per non dipendere dà nessuno, tantomeno passando da “scroccone”! Ma ciò che più caratterizza la lettera è, come detto, il celebre inno cristologico (probabilmente un testo – da lui arricchito – che Paolo già conosceva, forse perché si cantava nelle stesse celebrazioni liturgiche di Filippi), che si innesta nell’esortazione ad una vita cristiana fondata sull’amore: «Cristo Gesù, pur essendo nello status divino – dovremmo forse tradurre dal greco – non considerò una rapina l’esser uguale a Dio..». Perché quest’espressione? Paolo vuole sottolineare la differenza tra il primo uomo, Adamo, il quale volle rapire l’uguaglianza con Dio; e il secondo uomo, Cristo, che, pur essendolo “per natura”, è venuto a cancellare l’aggressione verticale verso il Creatore, scendendo Lui stesso, “svuotandosi” della propria condizione, per assumere la nostra affinché noi potessimo rivestirci della sua! «La nostra patria (infatti) – letteralmente “la terra del Padre” – è nei cieli» (3,20). Sta a noi tornarci.. ma come? Paolo ci regala due suggerimenti: 1) compiere la vera liturgia, cioè amare i fratelli e annunciare loro il vangelo, insomma una fede vissuta; il termine infatti nell’originale greco significa “opera pubblica”, e solo successivamente ha assunto una connotazione legata al culto, dunque di fede celebrata; 2) «lasciarsi trovare in Lui» (3,9): non è Paolo che ha trovato Cristo, anzi, gli andava contro eliminando i suoi seguaci! Non siamo noi a dover cercare Gesù, occorre solo lasciarci trovare da Lui e in Lui, mettendo in atto il più grande

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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