Daniele: Introduzione



Introduzione al libro del profeta Daniele
Daniele, dall’ebraico “il mio giudice è Dio” (o “Dio giudica, è giudice”), è il nome del protagonista dell’omonimo libro biblico, ma non del suo autore.. come mai? Appartenente forse all’ambiente degli Asidei (letteralmente i “pii”, i quali si ritirarono nel deserto prima di unirsi alla rivolta di Giuda Maccabeo), di notizie biografiche di chi ha scritto il nostro libro ne abbiamo ben poche, se non che il suo testo è abbastanza tardivo, è stato scritto molto tempo dopo gli avvenimenti che narra, probabilmente nel 165 a.C., durante la rivolta maccabaica, periodo in cui il popolo d’Israele vive sotto la dominazione del re greco Antioco IV Epìfane, intento ad imporre la cosiddetta cultura ellenistica, religione compresa. Siccome qualcuno si lascia sedurre dai nuovi occupanti, ecco spuntare un libricino (che oggi conta 14 capitoli), attribuito ad un certo Daniele, giovane israelita vissuto alla corte di Babilonia, capace di incarnare l’intero popolo eletto davanti alle lusinghe dello straniero. La sua, insomma, è una storia che si avvale della tecnica della pseudonimia, più volte incontrata in ambito biblico, al fine di incoraggiare i fedeli in un tempo segnato dalla prova. Una storia, tra l’altro, contraddistinta anche da alcuni errori: il testo dice ad esempio che il giovane è stato deportato nel 605 a.C. da Nabucodonosor, ma la cosa è impossibile, dato che in quell’anno non è avvenuta alcuna deportazione, o almeno non se ne ha documentazione certa. Ma, ripetiamolo, l’intento dello scritto è altro: la Babilonia alla quale Daniele si oppone in passato è immagine di quegli occupanti a cui i giudei sono chiamati ad opporsi nell’oggi del 160 circa a.C. Ancora piccolo, Daniele viene scelto per essere allevato a corte assieme a tre suoi amici, anch’essi deportati a Babilonia. Entrato al servizio del re grazie alla sua capacità d’interpretare i sogni, presto inizia a suscitare le gelosie dei cortigiani, i quali ne denunciano la pratica religiosa, che gli costa la celebre “fossa dei leoni”, nonostante il re fosse «molto addolorato e si mise in animo di salvare Daniele..» (6,15), tuttavia, non potendo fare altrimenti, «ordinò che.. lo si gettasse nella fossa dei leoni», rivolgendogli però un augurio: «Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!» (6,17). Collocato dalla Bibbia cattolica tra i profeti maggiori, in quella ebraica rientra nei Ketubìm, gli “Scritti”. Unico sotto questo punto di vista in tutto il Primo Testamento, scritto in tre lingue (ebraico, aramaico e greco), rivela un genere letterario che in realtà ne combina due: l’haggâdâh, ovvero un racconto didattico con lo scopo di veicolare un messaggio edificante  per il suo lettore-destinatario, e l’apocalisse (dal greco “rivelazione”), in cui la già citata pseudonimia ha la funzione di mettere in bocca, ad un personaggio del passato, un messaggio capace d’interpretare la storia, al fine di prendere le distanze dal  tempo in cui l’autore scrive. Insomma una crittografia, cioè una “scrittura nascosta”, capace di rivelare il futuro. Nell’intera Bibbia questo secondo genere letterario è diffuso qua e là, a chiazze, per quanto riguarda l’apocalittica giudaica abbiamo infatti il libro di Enoch, personaggio che, secondo Genesi 5,24 non morì, ma «scomparve perché Dio l’aveva preso». Poi alcune parti di Isaia, come il cosiddetto “canto della sentinella”, in cui due sorveglianti si scambiano la parola d’ordine notturna, creando in tal senso un clima d’attesa e sospensione: «Sentinella, quanto resta della notte?», là dove la notte rappresenta il periodo dell’oppressione. Quindi Zaccaria, o l’invasione delle cavallette di Gioele, oppure Ezechiele, che tuttavia non è un apocalittico in senso stretto. Ma cosa caratterizza questo genere letterario? Prima di tutto va sottolineato che, pur trovandosi anche in altre culture e in forme diverse, l’apocalittica è nata in senso specifico nel mondo biblico, nel momento in cui si sono incrociate due situazioni diverse: da un lato la tarda profezia post-esilio babilonese, che, per presentare nuovi orizzonti evitando la censura, l’ha fatto in modo cifrato, crittografico, attraverso i simboli; dall’altra nel momento in cui la sapienza non è più stata in grado di parlare della storia. Non sono forse queste due le ragioni che la rendono possibile anche oggi e in ogni momento storico? L’apocalittica, detto in parole povere, nasce nei momenti di crisi e di insoddisfazione generale, quando si smette di credere nel progresso e nella possibilità che la storia offre per essere salvati. Ecco allora che attecchiscono il pessimismo nei confronti del presente, la netta separazione tra sacro e profano, la concezione di un regno del bene e uno del male, ciò che giusto e ciò che è sbagliato.. Dio e Satana! In passato vigeva in tal senso una certa predicazione terroristica, quella dei cosiddetti Novissimi (superlativo latino di novus, cioè “ultimissimi”), ovvero le realtà ultime della nostra vicenda terrena: morte, giudizio, inferno o paradiso. Novissimi che oggi, al contrario, rischiamo di non presentare nemmeno più.. Ma è sempre il tempo la posta in palio, cioè la vita. L’apocalittica porta però ad una sua idealizzazione, che vede una specie di “età dell’oro” o all’inizio della storia, oppure alla sua fine, ma mai nel presente, quel tempo che ci è stato donato (come ci ricordano sia la lingua italiana sia quella inglese, che col termine presente indicano sia il tempo sia il dono, il regalo) e in cui ci è chiesto di diventare santi. Altra sua preoccupazione è inoltre quella di capire quando verrà “la” fine, ma è “il” fine ciò che fa la differenza, la mèta, non il quando! Ai farisei che gli domandano «Quando verrà il regno di Dio?», Gesù risponde «è in mezzo a voi!» (Lc 17,20-21), qui, adesso, non prima né poi.. Né urzeit né endzeit, per dirlo alla tedesca: né in un tempo primordiale né in quello terminale. La tentazione è insomma quella di una fuga dal presente, in avanti o all’indietro, e con essa dell’irresponsabilità che questo momento concreto ci chiede. Altro fenomeno caratterizzante le apocalissi è il millenarismo (o chiliasmo, dal greco chìlioi, “mille”), l’attesa di un regno millenario in terra, inteso a volte come passaggio ad uno stato successivo, altre invece come stato definitivo. Religiosità di questo tipo non sono però appannaggio del passato, ma conservano la loro attrattiva in ogni tempo, come dimostra la presenza dei Testimoni di Geova o la lettura fondamentalista della Bibbia che, sotto l’apparente fedeltà al testo («tra l’altro considerato solo in traduzione e non nell’originale ebraico o greco!», tuona il biblista Gianfranco Ravasi), da una parte compie un’operazione scorretta – sottraendo il testo dal con-testo in cui è nato e all’interno del quale solo può essere compreso! – , dall’altra nega la storicità della Rivelazione. Tornando al libro di Daniele, è forse soprattutto la simbologia numerica a caratterizzarlo, specie di aritmetica mistica non sempre facile da comprendere (soprattutto per noi oggi, più che per i suoi ascoltatori), come mostra ad esempio il numero 1150.. qual è il suo significato? «Fino a quando durerà questa visione..?», si dice nell’ottavo capitolo (8,13), «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa giustizia». La cifra allude al numero di sacrifici tra l’abolizione del culto operata da Antioco (siamo nell’autunno del 167 a.C.) e la purificazione del tempio (14 dicembre del 164 a.C.). Da una parte intercorrono dunque tre anni e mezzo, ovvero la metà di sette, numero che indica la pienezza, così come nel computo ebraico «sera e mattina» indica probabilmente la notte, cioè solo mezza giornata: i 1150 giorni. Insomma, la potenza del male è dimezzata, in qualche modo viene cioè limitata. E questo è solo uno dei tanti esempi ingarbugliati del testo. Quanto alle tematiche affrontate, ecco il martirio (Daniele esorta i giudei a rimanere fedeli proprio mentre infuria la persecuzione): oltre a Daniele, Ananìa, Azarìa e Misaèle sono i nomi di figure esemplari, celebri perché li incontriamo alle Lodi della domenica, quattro giovani ebrei cui però sono stati imposti nomi babilonesi (Baldassar, Sadrac, Mesac e Abdenego), ad indicare che sono schiavi, condizione dalla quale sfuggiranno riacquistando i loro nomi ebraici! Poi Susanna, la bellissima giovane oggetto della libidine di due anziani. Altra tematica importante è l’angelologia: nella persecuzione Dio rivela infatti la sua volontà e agisce attraverso i suoi messaggeri. Ma soprattutto, e per la prima volta in tutto l’Antico Testamento, nel libro di Daniele viene affermata chiaramente la risurrezione individuale (12,2-3). Non solo, nello stesso tempo gli Inferi, dominio della morte, diventano l’Inferno, “luogo” dell’assenza di Dio. Questo libro funge in tal modo da ponte tra la teologia dei profeti e il messaggio del Nuovo Testamento, che culminerà con l’Apocalisse di Giovanni, la quale riprenderà i temi di Daniele per applicarli alla persecuzione dell’impero romano nei confronti della Chiesa. Significativo allora che l’anno liturgico termini proprio con quel Tempo Ordinario che, nella sua doppia versione di anno pari e dispari, culmina non a caso una volta con Daniele e l’altro con Apocalisse. Ed è proprio in Daniele che comparirà la misteriosa figura messianica del Figlio dell’uomo: se il messia classico era il profeta perfetto, ma pur sempre una creatura, un discendente di Davide, il Figlio dell’uomo è in comunione con la divinità, ragion per cui non ci si poteva assolutamente attribuire questo titolo. Cosa che invece farà il falegname di Nazareth, quasi la sua “firma”, il modo in cui chiamerà sé stesso (titolo che nei soli Vangeli compare ben settanta volte!). Ma se «figlio di Dio» era un titolo generico per indicare gli angeli, «Figlio dell’uomo» no: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio», gli chiede il sommo sacerdote.. «..io vi dico (e qui cita il Salmo 110, ma soprattutto il capitolo 7 di Daniele, il più importante): “d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”. Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato!”». Gesù sale in croce per aver detto chiaramente chi era..        

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

 

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