Gàlati: Introduzione



Introduzione alla lettera ai Gàlati
I Gàlati erano una popolazione di origine celtica, stanziatisi nell’attuale Turchia centrale alcuni secoli prima di Cristo. Paolo era passato per questa regione nel suo secondo viaggio missionario (50-52 d.C. ca.) e vi si era dovuto fermare a causa di una malattia (4,13-14).. la lettera.. si rivolge “alle Chiese della Galazia” (1,2), cioè a diverse comunità.. Dopo la partenza di Paolo, in Galazia erano passati altri predicatori di origine giudaica che avevano aderito a Gesù Cristo, ma che rimanevano convinti della necessità di vivere secondo la Legge di Mosè per avere la salvezza.. Paolo, ai loro occhi, non era un vero apostolo, poiché non era stato con Gesù come i Dodici.. Molti cristiani Gàlati si lasciarono persuadére. Paolo, venuto a conoscenza della cosa, scrisse questa lettera..». Questa mirabile sintesi, offertaci dalla Bibbia Via, Verità e Vita delle edizioni San Paolo, racchiude il nocciolo di questa lettera, ritenuta dagli studiosi opera della mano “diretta” dell’Apostolo, senza dubbio tra i cinque capisaldi del pensiero paolino, assieme alle due ai Corinzi, a quella ai Filippesi e a quella ai Romani. Di quest’ultima, quella ai Gàlati (scritta appena sei mesi prima) è quasi un’introduzione, o meglio un concentrato, sorta di “prova d’autore” del suo massimo capolavoro. Ma facciamo un passo indietro e domandiamoci: chi sono i Gàlati? Le possibilità infatti sono due: la maggior parte degli studiosi propende per la popolazione settentrionale dell’Anatolia, ruotante attorno all’attuale Ankara. In tal caso la lettera è databile tra il 55 e il 58 d.C. Se invece, come afferma una minoranza degli esperti, per Galazia s’intende la zona meridionale dell’Anatolia, abitata dalle Chiese della provincia romana, beh, la sua datazione probabile sarebbe l’anno 49 e la sorpresa sarebbe grande: ci troveremmo infatti di fronte al primo scritto paolino e di tutto il Nuovo Testamento, ritenuto invece la prima Lettera ai Tessalonicesi! Per quanto riguarda la struttura della lettera, è grossomodo divisibile in tre parti, incorniciate da un saluto introduttivo (1,1-5) e da una chiusura (6,11-18): se nella prima parte Paolo difende la sua identità di apostolo (1,6-2,21), nella seconda sottolinea che la salvezza ci è data dalla fede in Gesù (3,1-4,31), mentre nell’ultima precisa che è lo Spirito di Dio a renderci figli (5,1-6,10). Già nel saluto introduttivo Paolo precisa in modo marcato un concetto: la sua – per usare un’immagine spaziale – è una missione “ricevuta verticalmente”, dall’alto, non ne è stato cioè investito “orizzontalmente” come i Dodici. La conclusione è interessante per il fatto che, diversamente da tutte le altre lettere, e come avveniva d’abitudine nel mondo greco-romano, questa non l’ha dettata: «Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, di mia mano» (6,11). Tali «grossi caratteri» sono stati diversamente interpretati: per alcuni intenderebbe dire “Vedete? Questa è la mia personale grafia”, cioè “la lettera è autentica”; per altri invece – essendo Paolo colpito da cecità (ritenuta da alcuni la famosa «spina nella carne» di cui parla nella seconda Lettera ai Corinzi) – motiverebbe i grandi caratteri; per altri infine denuncia lo stato malconcio della sua mano, a causa delle persecuzioni subite. Quanto al contenuto, è sintetizzabile in tre elementi, sorta di parole-chiave: vangelo, antitesi tra fede e legge e la libertà dei figli. Per “vangelo” Paolo non intende il testo scritto, ma la persona stessa di Gesù e il suo messaggio: non ricevuto né imparato da uomini, ma dià apokalỳpseos, “attraverso la rivelazione” che il Risorto gli ha fatto, irrompendo nella sua vita di peccatore! Con l’antitesi tra fede e legge arriviamo quindi al cuore del “vangelo di Paolo”: «l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (2,16). Si tratta della celebre giustificazione per la fede che, si badi bene, non è appannaggio del credo luterano, ma dell’intero cristianesimo: protestante, ortodosso e cattolico. Le tre confessioni, questo sì, ne danno tuttavia una interpretazione diversa. Per “fede” l’Apostolo intende l’apertura incondizionata all’azione di Gesù, il lasciapassare nella nostra vita che affidiamo alla sua Grazia; mentre per “Legge” si riferisce a quell’oscuro elemento che può frapporsi fra me e l’azione di Dio in me, una specie di barriera tra me e Lui, capace di farmi pensare, dire e agire, come se la salvezza fosse un mio diritto, acquisito in virtù delle opere da me compiute. La questione è sottile quanto capitale: sappiamo bene che la Legge rivelata a Mosè ha anch’essa una funzione salvifica, essendo parte della pedagogia divina (e l’intera Bibbia mostra la pedagogia con la quale Dio ci dona la sua salvezza), ma – e Paolo utilizza spessissimo la congiunzione “ma”, per segnalare grandi svolte – la sua pericolosità sta nel modo in cui la viviamo. Essa costituisce il pedagogo di cui abbiamo bisogno, nel momento in cui ci apre gli occhi, facendoci rendere conto che da soli non ce la possiamo fare.. Infatti, «prima che venisse la fede – precisa l’Apostolo – , noi eravamo custoditi e rinchiusi (in greco synkleiómenoi, “chiusi a chiave, in prigione”) sotto la Legge» (3,23), è servita la “chiave” della fede per aprire il carcere! Ed ecco che, appena tre versetti dopo, Paolo introduce il concetto di filiazione divina: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (3,26-27). Rivestirsi che nel mondo orientale dice la nuova dignità.. rivestirsi di quell’uomo nuovo di cui parla la lettera ai Colossesi (3,9-10).. un lasciarsi rivestire come fanno i bambini piccoli, incapaci di farlo da soli.. Quindi l’Apostolo introduce l’adozione a figli, attingendo dal mondo giuridico greco-romano: la hyiothesía era infatti l’atto di liberazione di uno schiavo, che era riuscito ad ottenere la cosiddetta manumissio, l’opportunità di riscattarsi per diventare libero. Non a caso l’italiano manomettere traduce proprio dal latino questo significato. Ma cosa ci sta dicendo Paolo di così sconvolgente, se non che liberi non si nasce ma si diventa? Allora è solo a questo punto, nel momento cioè in cui si è stati liberati, che le nostre opere diventano importanti, ma solo come conseguenza dell’avvenuto riscatto. Chiediamoci dunque cosa ci sia di più attuale delle questioni sollevate da questo scritto: la contrapposizione legge-fede non vale forse anche oggi? Certo duemila anni fa la discussione verteva sulla necessità di farsi circoncidere o meno per essere salvati, ma.. oggi non potremmo discutere della stessa cosa attorno al battesimo? Se il vangelo, cioè il Risorto stesso, non ha la possibilità di salvare aldilà delle barriere spazio-temporali, beh, allora c’è qualcosa che non torna. Ma Gesù è in continuo movimento, non si lascia insabbiare nelle dinamiche storico culturali, di cui pure si serve. Domandiamoci allora: se io ho ricevuto questo vangelo, se cioè Gesù risorto ha fatto irruzione nella mia vita (nelle vesti di una persona, di un preciso momento storico o chicchessia..), questo incredibile avvenimento ha ribaltato la mia esistenza? È venuto Cristo ad aprire la porta del mio “carcere”? Se è successo, me ne sono accorto? E se me ne sono accorto, sono uscito di prigione o sto ancora lì a fissare le sbarre?!                              

 

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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