Osea 11,1-4.8c-9 con il commento di Elena Malfatti



Dal libro del profeta Osea
Os 11,1-4.8c-9 

Testo del brano
Così dice il Signore: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira».

 

 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Sir Cubworth. Simple Sonata. Diritti Creative Commons

Meditazione
Elena Malfatti

Meditazione
In Osèa si intrecciano due metafore d’amore: quello per la propria sposa, perdonata e accolta nonostante tradimenti e delusioni e l’amore per il proprio figlio, che non conosce confine, che viene accompagnato e protetto in eterno. L’amore di Dio, materno e paterno insieme, è espresso in vari passi dei libri profetici, non solo nel libro di Osèa. Il suo amore viscerale è immutabile, non dimentica il suo popolo; a differenza di una possibile madre snaturata che potrebbe dimenticarsi del proprio bambino, si china sul suo popolo per attirarlo alla sua guancia, nutrirlo e insegnargli a camminare. E’ un sentimento fedele e paziente. E nel Nuovo Testamento questo concetto è reso chiaro nell’incontro con il Figlio; dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può chiamarlo “papà, babbo”. Il riferimento alla figura paterna aiuta a comprendere qualcosa dell’amore di Dio che però rimane infinitamente più grande, più fedele, più totale di quello di qualsiasi uomo. E le parole stesse di Osèa ce lo confermano «perché sono Dio e non uomo». L’uomo è una figura debole ed incostante, che si fa trascinare dall’ira, che spesso si rifugia dietro la parola “giustizia” dimenticando che Dio chiede e dà “misericordia”. Dio è una madre che non abbandona mai i suoi figli, amorevole, pronta a sorregge, aiutare, accogliere, perdonare, salvare, con una fedeltà che sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità.  Osèa scrive «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore»: come nella metafora dell’amore per la sua sposa in cui il Signore seduce, attrae a sé l’amata per condurla nel deserto e ritrovare il loro antico amore, così qui, attrae il figlio, lo accompagna senza porre condizioni, senza ricatti, un amore libero donato gratuitamente. L’atteggiamento del Signore Dio verso il suo popolo infedele è un delicato inno dedicato al perdono, al perdono come estrema seduzione dell’amore che non muore, che non vuol cedere alle tentazioni della vendetta e dell’autodistruzione.

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