Sapienza: Introduzione



Introduzione al libro della Sapienza
«Amate la giustizia, voi giudici della terra».. con questo monito si apre lo splendido libro della Sapienza, commentato da tanti nel corso della storia, compresi Ambrogio ed Agostino, commenti che purtroppo sono andati persi. Ma chi è a pronunciare queste parole iniziali? Salomone, che le indirizza ai re «della terra», appunto. Dunque l’autore è il figlio di Davide? No. Il titolo del testo, Sapienza di Salomone, ci è infatti arrivato dai manoscritti greci e latini, che hanno mutuato la paternità del libro dal capitolo 9, in cui lo stesso terzo re d’Israele prega il Signore chiedendogli il dono della sapienza: si tratta insomma di un artificio letterario, dato che la tradizione ebraica considerava Salomone “il saggio per eccellenza”. L’obiettivo della pseudonimia, come sempre, è quello di porre lo scritto, in questo caso un pensiero nuovo, sotto un’autorità unanimemente riconosciuta. Chi lo ha scritto allora? Non lo sappiamo con esattezza, dato che le ipotesi si sono sprecate: per alcuni un monaco di Qumrân, a occidente del Mar Morto; per altri si tratta invece di Apollo, il celebre predicatore compagno di Paolo, famoso per la sua eloquenza (qualcuno si sbilancia nel sostenere che Sapienza lo avrebbe scritto prima di convertirsi, mentre dopo avrebbe redatto la Lettera agli Ebrei); altri ancora ipotizzano il sommo sacerdote Onias III; ci sono poi studiosi che propendono per il grande filosofo Filone alessandrino; altri infine affermano si tratti dello stesso autore del Siracide, Yehoshua ben Sirac, “Gesù figlio di Sirach”. Con ogni probabilità l’ultimo libro dell’Antico Testamento – dunque il testo più recente della Prima Alleanza – è opera tuttavia di un ignoto ebreo, forse appartenente alla diaspora (letteralmente “dispersione”) di chi si è spostato in Egitto. Tale autore ha operato come un predicatore “di professione”, la sua infatti è un’omelia poetica giudaica, chiamata midrash, dal verbo darash, “ricercare, investigare”, tecnica che amava lo stesso Gesù, che partiva da un dato biblico per poi costruirci sopra un racconto o una parabola. Scritto in greco (motivo che lo ha estromesso dal canone ebraico, anche se, fa notare il biblista Gianfranco Ravasi, l’autore pensa continuamente in modo semitico!) è stato redatto nell’arco di parecchi anni – gli studiosi più “elastici” dicono tra il II a.C. e il II d.C. – , il campo può essere ristretto tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., anche se qualcuno si sbilancia precisando si tratti del 30 a.C. Sia come sia, di certo è destinato a quei Giudei che sembrano aver abbandonato la fede e i costumi dei padri, gente che non sa più l’ebraico ed è imbevuta di cultura ellenistica: non a caso la condanna all’idolatria è veemente. Per quanto riguarda il luogo in cui il testo vide la luce, quasi certamente si tratta di Alessandria, al tempo enorme centro culturale, in cui il sapere dell’antico Egitto si stava sposando col più giovane sapere greco..

Qual è dunque lo scopo del libro? Prima di rispondere bisogna intendersi su cosa significhi “sapienziale”, ovvero, anzitutto, quella letteratura diffusa in tutto l’Antico Oriente e preoccupata in primis della vita quotidiana, oltre che della condotta che Dio chiede all’individuo posto davanti ai piccoli e grandi problemi della vita. Nella Bibbia sono detti libri sapienziali, o didattici, oltre a quello della Sapienza, Giobbe, il Qohèlet, il Cantico dei Cantici, Proverbi e Siracide, con l’aggiunta dei Salmi, che tuttavia costituisce un’opera a parte. Il primo di essi, però, più di ogni altro cerca di illuminare e risolvere tali problemi. Non solo, «l’autore.. – precisa il gesuita belga Jean-Louis Ska – vuole dimostrare che Israele possiede una sapienza che può emulare la sapienza di altri popoli, ad esempio la celebrata sapienza greca. Anzi, è di gran lunga superiore perché è radicata nella fede dell’unico vero Dio». D’accordo, ma cos’è concretamente la sapienza? Cosa s’intende davvero con questa parola? Appartenente a tutte le culture (alla faccia di ogni forma di integralismo!), potremmo definirla come l’arte del “saper vivere”, quello spirito amante dell’uomo (1,6) che s’insinua nel suo quotidiano fino a dirigerlo alla meta finale: l’immortalità dell’anima, in greco athanasias, che insieme ad aftarsia, “incorruttibilità”, ritorna per ben undici volte nei punti strategici del libro. Il tema è dunque centrale, getta infatti un ponte col cristianesimo nascente. L’autore dice in sintesi ai suoi lettori che «la vita dei giusti – precisa la Bibbia TOB – non finisce con la morte fisica, ma continua nell’eternità e nella gloria vicino a Dio. Al contrario, gli empi, con la loro condotta, rinunziano fin da adesso all’immortalità; in qualche modo essi sono già morti». Già il primo capitolo sottolinea che «Dio non ha creato la morte.. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano» (1,13-14). Pretendere di dare risposte definitive sull’aldilà è certo cosa ardua, ma al libro della Sapienza preme ancor più intuire e fare emergere le domande giuste: «chiunque è capace di dare risposte – direbbe Oscar Wilde – , ma per fare domande ci vuole un genio». Tale testo (dal latino textus, “tessuto”), è dunque un intreccio di domande sulla vita! Per sintetizzare l’importanza che il tema della morte ricopre nel libro della Sapienza, potremmo allora scomodare Platone, che in uno dei suoi celebri dialoghi, il Fedone,  dice che chi ama la sapienza studia continuamente come morire. C’è tuttavia una differenza sostanziale tra il grande filosofo e il redattore della Sapienza: se per Platone l’immortalità consiste in un prolungamento eterno della vita, per l’autore del testo biblico equivale invece a stare presso Dio, il solo capace di strapparci dalla finitudine della storia. In tutto ciò i giusti e gli empi sono messi a confronto dal giudizio: questi ultimi infatti «si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si ergeranno contro di loro per accusarli.. (mentre) il giusto starà con grande fiducia di fronte a coloro che lo hanno perseguitato.. (giusti che) al contrario (degli empi) vivono per sempre» (4,20-5,1.15). Ma questo giudizio non è tanto un momento preciso, ad esempio quello della morte, quanto piuttosto “qualcosa” che avviene all’interno dell’uomo stesso: «Giudizio universale e giudizio particolare si fondono – sottolinea il già citato Ravasi – , anche perché al di là della morte non esiste più il tempo.. Nel momento in cui l’uomo entra nel presente eterno, è la sua stessa autocoscienza che lo giudica». Potremmo aggiungere che, senza scomodare l’aldilà – intesa da un punto di vista quantitativo – , l’eternità è già una diversa qualità della vita presente. Quanto alla struttura del libro, per tornare a questioni più terra terra, si è soliti dividere i 502 versi che lo compongono in tre parti: il già citato confronto tra la vita del giusto e quella dell’empio (1,1-5,23),  l’elogio della sapienza (6,1-9,18) e l’intervento della provvidenza nella storia (10,1-19,12), cui si fanno seguire delle riflessioni finali (19,13-21) e un inno di lode a Dio (19,22). Nel testo si allude inoltre ad una sapienza personificata, sviluppando in tal senso i primi nove capitoli del libro dei Proverbi: si tratta della Rivelazione divina, che svela la volontà e le intenzioni del Signore (9,13.17), condivide infatti la vita del suo Creatore ed è associata a tutte le sue opere (8,3-4). Non solo, è fonte di ogni conoscenza (7,16-21). Tale personificazione potrebbe però creare confusione: si tratta dello Spirito Santo?  Probabilmente no. È da intendersi piuttosto come quella grazia divina che culminerà con la venuta di Gesù. A proposito.. l’autore gioca molto col numero sette, simbolicamente fondamentale, costruendo nel testo altrettante antitesi, la sesta delle quali si riferisce alla strage dei primogeniti egiziani, che ebbe luogo in quella notte in cui gli ebrei iniziarono a sperimentare la libertà: «Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose – si dice – e la notte era a metà del suo rapido corso, la tua parola onnipotente dal cielo.. si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio.. toccava il cielo e aveva i piedi sulla terra» (18,14-16). Perché questo passaggio è così importante? Perché è avvenuto uno slittamento, nel corso dei secoli, che è sfociato nella liturgia del Natale! Certo facendogli assumere un significato diametralmente opposto, ma il libro della Sapienza – che parla qui della parola di Dio che giunge sulla terra come condanna – serve sul classico piatto d’argento l’occasione, alla tradizione cristiana, di vedervi l’annuncio della nascita di Cristo e, come se non bastasse, la tradizione popolare ci ha poi messo del suo, facendo nascere Gesù proprio mentre «la notte era a metà del suo rapido corso», ovvero a mezzanotte..              

Recita
Cristian Messina

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Gabriele Fabbri

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