Mistagogia: Liturgia eucaristica (Parole chiave)



Liturgia eucaristica: parole chiave
«Benedetto sei tu..»
Pane e vino sono alimenti propri delle popolazioni del bacino mediterraneo, destinati a saziare la fame e la sete dell’uomo. La scelta di Gesù si colloca dunque in una tradizione biblica ed ebraica. Nessun ebreo però avrebbe osato prendere cibo senza una preghiera, una formula di benedizione, atteggiamento obbediente e riconoscente che si traduce nelle preghiere che il prete formula sul pane e sul vino, a cui l’assemblea risponde o canta: «Benedetto nei secoli il Signore».

«In alto i nostri cuori»
E’ una frase spesso male interpretata, l’assemblea meno preparata pensa infatti che il presbitero intenda dire “alzatevi” (?!), e infatti in quel momento i più si alzano. In realtà bisognerebbe alzarsi già prima, cioè all’inizio della Preghiera Eucaristica, alzarsi perché è il momento principe, in cui ci viene chiesto di essere attivi, pronti a offrire noi stessi insieme a Gesù sull’altare, e lo stare in piedi è dire sì col corpo. «In alto i nostri cuori» è l’orientamento totale – verso l’alto – cui il presidente ci invita. La frase richiama un brano di S.Paolo (Col 3,1-3) che dice «Se siete risorti con Cristo cercate le cose di lassù..», e la posizione eretta è propria di chi è risorto: siamo un popolo di risorti! Il cuore, per gli ebrei sede interiore di tutte le facoltà umane, si innalza al Padre, assieme a Gesù, nel suo Spirito, durante la grande preghiera, quasi dimenticando la realtà terrena, per ritrovarla trasfigurata in Lui. 
La preghiera prosegue fino al momento in cui chi presiede la celebrazione, alzando pane e calice, fa una solenne espressione di lode (dossologia): «Per Cristo, con Cristo e in Cristo..», la cui risposta dell’assemblea è adesione convinta e unanime: amen! Questo amen, il più importante di tutta la Messa, dovrebbe essere proferito talmente forte da rompere i vetri della chiesa secondo san Girolamo.

 «Santo, Santo, Santo»
Il Trisagio, dal greco trìs-aghion,“tre volte santo”, è una forma di superlativo - che in ebraico non esiste - per dire Santissimo ed  è presa da Isaia (6,3) e ritorna nell’Apocalisse (4,8). Si compone di due parti: la prima è presa appunto da Isaia, la seconda («Benedetto colui che viene..») è tratta dal Salmo 118 (versetto 26), il canto della folla all’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme (Mc 11,9-10). Dio è detto «Signore dell’universo», che traduce l’ebraico Sabaot, “degli eserciti”, nel senso di schiere e costellazioni celesti, che gli antichi consideravano divinità. La gloria come già detto è segno della sua manifestazione esterna e della sua santità. Osanna è invece una parola ebraica, cantata dagli angeli a Betlemme per la nascita di Gesù, che significa “dona salvezza”, “salvaci”, ma trasformatasi in acclamazione di gioia e augurio, una sorta di  “evviva!” fatta insieme all’assemblea celeste.

«Manda il tuo Spirito»
Con l’invocazione dello Spirito Santo, in greco epìclesi, si chiede al Padre di inviarlo perché trasformi il pane e il vino - cioè santifichi - nel corpo e nel sangue di Gesù. Il termine che indica questo fenomeno è “transustanziazione”, là dove il prefisso trans indica un passaggio, substantia traduce invece il greco hipòstasis, persona. Dunque il passaggio da pane-vino alla persona di Gesù.
Oltre a ciò lo Spirito è invocato perché trasformi coloro che riceveranno pane e vino in un solo corpo e in un solo spirito. Possiamo allora dire che la prima epiclesi è “in funzione” della seconda! In tutta la preghiera si chiede in pratica che si realizzi prima il corpo eucaristico di Cristo, poi quello della Chiesa.  

Il racconto della Cena
È un momento fondamentale della Messa, ma è importante non isolarlo, non separarlo cioè dall’insieme della Preghiera Eucaristica e dalla stessa comunione, che resta il punto culminante della nostra partecipazione al sacrificio di Gesù. Il racconto della Cena, lo dice la parola stessa, è dunque una narrazione. Ma perché raccontarlo al Padre? Per affermare che questo è il centro della nostra vita, e quanto facciamo è anche obbedienza ad un comando: «Fate questo in memoria di me». 
L’ultima cena è l’origine, il momento fondante e punto di partenza di ogni celebrazione eucaristica della storia, è il momento normativo di ognuna di esse.

Il sangue dell’alleanza
Il rapporto tra sangue e alleanza è tipico della Sacra Scrittura: nella Bibbia il sangue è considerato l’equivalente della vita, o meglio della persona. “Sangue versato”, ad esempio, equivale a “persona uccisa”. Allora bere al calice e mangiare quel pane spezzato è prendere parte ai frutti della morte di Cristo, cioè a un nuovo legame con Dio (alleanza) mediante la purificazione dal peccato: è tolto l’ostacolo tra Dio e l’uomo! Durante l’ultima Cena Gesù utilizza delle parole che richiamano quelle di Mosè sul Sinai, il quale, dopo aver immolato gli animali sacrificali, ne versa il sangue sull’altare (che rappresentava Dio) e sul popolo (!?!) dicendo «Questo è il sangue dell’alleanza» (Es. 24,8). Gesù però parla di nuova ed eterna alleanza, nuova perché sostituisce l’antica, eterna perché Egli ha dato la sua vita una volta per tutte: d’ora in poi l’uomo non ha più alcun bisogno di sacrificare nulla..

«Mistero della fede»
Mistero è ciò che Dio ci rivela e ci fa conoscere, ma che noi non siamo capaci comunque di comprendere; non ci rimane che accettare la verità proposta (è il dogma della presenza eucaristica). Il mistero è dunque, per la nostra fede, una prova, ma anche un segno e un appello: dal segno dobbiamo arrivare alla realtà significata. Ciò vuol dire che non dobbiamo credere “passivamente” a quanto la Chiesa ci presenta, come se fossimo degli automi, e questo per due motivi: 
il significato di una frase si comprende sempre da ciò che la precede e da quanto la segue, nel nostro caso dal racconto dell’ultima Cena e dalla risposta dell’assemblea;
la parola mistero viene da san Paolo (1 Tm 3,9), letteralmente ha la sua radice in miein, “serrare le labbra”, dunque “tacere”, ma traduce “evento di salvezza”. La parola è passata poi ad indicare i riti e le azioni liturgiche relative ai misteri di Gesù (nascita, epifania, ascensione, ecc..), gli atti storici per i quali siamo stati salvati. Dunque tutta l’Eucaristia è un mistero, basta ricordare le prime parole della Messa: «Per celebrare degnamente i santi misteri..». Nel nostro caso però «mistero della fede» indica ciò che celebriamo, cioè l’evento della morte e della risurrezione del nostro salvatore.

«Annunciamo la tua morte..»
Questa acclamazione dell’assemblea è una novità apportata dal Concilio, ma è una prassi corrente nella tradizione orientale, alla quale ci si è ispirati. La nostra risposta è al mistero “della” fede, cioè del contenuto della fede, non “di fede”, cioè dell’atto di fede. Tale risposta è presa dalla Prima Lettera ai Corinzi (11,26): «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga», ed è un annuncio di vittoria, di speranza, una solenne confessione di fede, un impegno di vita.

«..nell’attesa della tua venuta»
Senza questa apertura verso la manifestazione del Signore, l’Eucaristia perde la sua nota essenziale: la sua dimensione escatologica, relativa cioè alla fine, alle cose ultime, alla venuta di Gesù nella gloria. Tra la sua prima venuta, storica, e la seconda, quella definitiva, c’è la storia dell’umanità salvata. Nei testi liturgici non si parla di “ritorno” di Cristo, come se fosse partito o andato via, ma di “venuta” (parusia), cioè apparizione, manifestazione in quanto egli è presente e operante (col suo Spirito) ma velato, invisibile. La Messa è la ripresentazione di queste due venute: la prima si è realizzata, la seconda vi è anticipata.
«Vieni, Signore Gesù», in aramaico Maranà thà era l’invocazione degli apostoli durante l’Eucaristia.

«Ti offriamo questo sacrificio»
Uno dei termini che incontriamo più spesso nel linguaggio liturgico è “sacrificio”, con una serie di aggettivi che lo specificano: eucaristico, nostro, questo, vivo, puro, santo, perfetto, immacolato, di lode, ecc.. In tutte le religioni il sacrificio è l’atto col quale l’uomo cerca di mettersi in comunione con Dio, offrendogli doni naturali o animali.. Gesù abolisce tutti i sacrifici, dato che offre sé stesso una volta per tutte! Il pane e il vino sono doni di Dio ma anche nostri, non tanto perché li portiamo all’altare (egli non ha bisogno di cose materiali), ma perché in quel pane e in quel vino ci siamo anche noi, c’è la nostra vita, che offriamo interiormente come sacrificio assieme a quello di Cristo: lo Spirito Santo «faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».

«Celebrando il memoriale..»
La parola memoriale è di origine biblica, e non indica il semplice ricordo, ma è un’azione, tanto che ciò che viene ricordato diventa presente, e coloro che fanno l’azione del ricordo sono coinvolti e partecipano di quell’evento di salvezza. Nella liturgia giudaica, memoriale è espresso con il termine ebraico zikkaròn, il greco invece traduce anàmnesis: il memoriale è il mezzo che rende possibile ed efficace quanto viene ricordato. Nel nostro caso sono precisamente i gesti compiuti da Gesù sul pane e sul vino.

«Ricòrdati, Padre»
Forse ci sembrerà superfluo il fatto di ricordare qualcosa a Dio, ma è importante farlo, rivolgendosi a lui come ad una persona, chiedendogli che intervenga in favore di altri. Anzi, nella Preghiera Eucaristica gli chiediamo, per i fratelli, i benefici del sacrificio di Gesù, unendoci così a lui in qualità di intercessori (questa è la differenza particolare rispetto alla preghiera dei fedeli). Tale intercessione dunque, chiamata popolarmente memento, “ricordati”, ci dà un respiro davvero ecclesiale, universale (parola che traduce non a caso “cattolica”). Questa visione ampia non deve essere ristretta e impoverita dalla citazione del nome di un defunto, o più di uno, per il quale – si dice – venga celebrata o offerta la Messa. Deve essere chiaro che l’Eucaristia appartiene ed è offerta per tutti, vivi e non, non è appannaggio di nessuno, tanto meno accaparrandosela col denaro. Il “ricordo” di uno (perché di questo si tratta, nulla più) non esclude dunque il ricordo di altri. Se poi gli “offerenti” (?!) se ne hanno a male, beh, pace anche per loro..   

«Padre nostro»
E’ detta preghiera del Signore perché in-segnata e con-segnata da Gesù stesso, a mo’ di testamento. Ha carattere comunitario ed ecclesiale, tanto che in essa predomina il noi, mai l’io, carattere che si fonda sul Battesimo, mediante il quale siamo resi figli di Dio e fratelli in Cristo, il primo a chiamarlo Abbà, parola aramaica che significa “papà, babbo, padre mio”: solo un figlio può chiamare così suo padre. E noi “osiamo dire”, abbiamo questo coraggio perché Gesù stesso ce lo ha comandato. Dio è Padre di tutti, ma solo i battezzati hanno il diritto e l’ardire di invocarlo come figli nel Figlio: Abbà. Recitarlo nell’Eucaristia significa dunque richiamarci alla nostra dignità (onore e impegno) di figli e battezzati. 

«Agnello di Dio»
Questo canto che accompagna la frazione del pane, una supplica rivolta direttamente a Gesù, è stato introdotto a questo punto della Messa da papa Sergio I († 701). Il termine agnello, usato in Oriente per indicare il dono eucaristico, è l’equivalente del nostro ostia, dal latino “vittima”. La frase però è presa da Giovanni il Battista, che nel presentare Gesù dice: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). 

«Beati gli invitati..»
«Beati gli invitati alla cena del Signore», e presentando il pane dice «Ecco l’Agnello di Dio..», cui segue la risposta «O Signore, non sono degno..». «Beati gli invitati» è presa dall’Apocalisse (19,9), pronunciata dall’angelo al profeta dopo aver annunciato le nozze celesti tra l’Agnello (Cristo) e la sua sposa (la Chiesa). Perché dunque sono “beati” gli invitati a quella cena? Perché partecipano a quelle nozze (la comunione). La traduzione italiana cerca di evitare la ripetizione della parola e traduce «Beati gli invitati alla cena del Signore» (cioè del Risorto), la traduzione letterale sarebbe tuttavia «..alla cena dell’Agnello». Ad ogni modo ciò che conta è che l’Eucaristia è orientata a quel mega pasto celeste: ne è preparazione e anticipazione. «Signore, non sono degno..» è invece presa – e variata - dal Vangelo di Matteo, che la pone sulle labbra del centurione di Cafarnao: «Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito»  (Mt 8,18).

«In comunione con..»
L’intera Eucaristia è un atto di comunione:
tra i presenti fra loro, fedeli di quella determinata diocesi (motivo per cui nella Preghiera Eucaristica si cita il nome del vescovo);
tra i presenti e tutta la Chiesa sparsa per il mondo (il cui garante è il papa, motivo per cui si dice anche il suo nome);
tra la Chiesa terrestre – cioè noi – e quella celeste.
Questa unione non è dunque sociologica o giuridica, ma sacramentale: il ministro ordinato che presiede quell’Eucaristia è un delegato del vescovo, a sua volta in comunione col papa, con tutti gli altri vescovi (indicati nella preghiera col termine “collegio episcopale”), con i presbiteri e diaconi (“il clero”), e con ogni uomo.  La comunione della Chiesa si esprime allora in due modi precisi: pregando per la sua unità e chiedendo per essa la pace, il rafforzamento nella fede e nell’amore.
Da tutto ciò si comprende facilmente il vero significato della parola liturgia, dal greco leìton érgon, “opera, azione di tutto il popolo”. Per tale ragione è incomprensibile e assurda una   partecipazione alla Messa di tipo individualistico. Ma c’è di più: durante la celebrazione le categorie dello spazio e del tempo vengono frantumate, poiché siamo in “presenza” (l’oggi eterno di Dio, per il quale tutto è presente) della Chiesa di ogni luogo e di ogni epoca, compresa quella “trionfante”, coloro cioè che godono già della visione beata del Padre. 

 

Recita
Daniela Santorsola, Cristian Messina

Musica di sottofondo
C.Franck, Panis angelicus, Mass Op.12, Michel Rondeau IMSLI. Diritti Creative Commons

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