Neemia 2,1-8 con il commento di Luca Gaviani



Dal libro di Neemia
Ne 2,1-8

Testo del brano                                   
Nel mese di Nisan dell’anno ventesimo del re Artaserse, appena il vino fu pronto davanti al re, io presi il vino e glielo diedi. Non ero mai stato triste davanti a lui. Ma il re mi disse: «Perché hai l’aspetto triste? Eppure non sei malato; non può essere altro che un’afflizione del cuore». Allora io ebbi grande timore e dissi al re: «Viva il re per sempre! Come potrebbe il mio aspetto non essere triste, quando la città dove sono i sepolcri dei miei padri è in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco?». Il re mi disse: «Che cosa domandi?». Allora io pregai il Dio del cielo e poi risposi al re: «Se piace al re e se il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi, mandami in Giudea, nella città dove sono i sepolcri dei miei padri, perché io possa ricostruirla». Il re, che aveva la regina seduta al suo fianco, mi disse: «Quanto durerà il tuo viaggio? Quando ritornerai?». Dunque la cosa non spiaceva al re, che mi lasciava andare, e io gli indicai la data. Poi dissi al re: «Se piace al re, mi si diano le lettere per i governatori dell’Oltrefiume, perché mi lascino passare fino ad arrivare in Giudea, e una lettera per Asaf, guardiano del parco del re, perché mi dia il legname per munire di travi le porte della cittadella del tempio, per le mura della città e la casa dove andrò ad abitare». Il re mi diede le lettere, perché la mano benefica del mio Dio era su di me.

 

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
A.Gandhi. Just Stay. Licenza della raccolta audio YouTube

Meditazione
Luca Galvani

Meditazione
Dopo le cronache di Narnia quelle di Neemia. Nel digiuno di giugno dell’anno dodicesimo del ventunesimo secolo ero il coppiere del mio re, il mio cuore, e appena era disponibile un po’ di vino eccomi a versare, ma quel giorno erano lacrime a cadere nel bicchiere mezzo vuoto, e luccicavano come ex voto sul mio viso triste come chi esita ad esistere, mentre la mia lingua languiva e un’espressione contrita tritava tiritere di lamenti e tiramenti. Perché piangi? Mi chiese il mio cuore, carezzando e trattenendo le mie falangi armate e amate. Viva il re e vivo è il mio cuore, ma come posso essere lieto se le città dove sono i sepolcri dei miei desideri, dove sono sepolti i miei passati, sono in rovina e consumate dai fuochi infernali e infedeli? Il cuore che cura il mio eroe, che conosce tutte le risposte riposte in sé e che ha l’anima di fianco, la sua regina dei giorni, mi chiese cosa volessi in dote. Vorrei andare, risposi, lasciami perdere che non vinco mai, vince solo chi sa uscire e riuscire. Ma quanto durerai quando il gioco si farà duro? Io gli indicai un termine di paragone: la relatività del tempo nell’amore. Al cuore piacque l’enigma, come lava che lava la bocca del vulcano, un magma che comprime e dilata a seconda dell’amore di memoria, alla mente lo stigma, lo scisma, il sisma. La religione non deve competere con la scienza, ma il suo punto di vista deve essere altro, chi vede non sempre osserva. Se poi può più piacere al Cuore vorrei lettere nuove per scrivere alfabeti futuri, per oltrepassare i fiumi, fare frutti, e convincere i governatori degli umori, vincere con passione, e con una lettera leggera già per lei, che farà la guardia al parco sempreverde del mio essere supremo, perché mi dia la forma che più temo, che mi metta per intero, che mi permetta di costruire una porta che porta da qualche parte sulla parete del suo prato. Dopo l’esilio si torna al tempio, al tempo vinto, all’assillo e all’asilo che non da solo abiterò, che non dà solo abiure. Il cuore mi dettò le lettere, le regole, le terre e le gole e Dio mi diede la mano perché le promesse fossero tutte tenute per mano e man tenute.

 

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