Numeri: Introduzione



Introduzione al libro dei Numeri
Il titolo del quarto libro della Bibbia, probabilmente il più complesso del Pentateuco, deriva dalla Vulgata, la versione latina della Sacra Scrittura, che lo riprende a sua volta da quella greca, la cosiddetta Settanta, che lo definisce Arithmòi. Se la stessa tradizione giudaica – per via di quanto accade nei primi quattro capitoli e nel ventiseiesimo – lo chiama “dei censimenti” o “delle rassegne militari”, la Bibbia ebraica lo definisce Bemidbàr, “nel deserto”, mutuando il titolo dall’incipit: «Il Signore parlò a Mosè, nel deserto..». È quest’ultimo, infatti, il luogo simbolico e paradigmatico dell’intera vicenda storica e religiosa del popolo di Israele, che in esso ritrova la propria identità e momento di nascita a cui tornare, soprattutto nei periodi di crisi. Se il greco traduce “deserto” con èremos (che per noi diventa sinonimo di solitudine), è curioso invece che l’ebraico midbar abbia alla base la radice dbr, la stessa di dabar, “parola”, come a dire che solo nel deserto – simbolo spaziale che ha il suo corrispettivo temporale nel silenzio – è possibile ascoltare davvero la parola, nel nostro caso quella con la P maiuscola. Il Dio che ci parla predilige insomma il “vuoto”, per questo ci chiede di fargli spazio e dargli tempo. Altro simbolo ricorrente in Numeri non poteva che essere il 3: tre sono le parti in cui è strutturato il libro (con una narrazione che, dicono gli esperti, si perde spesso nella complessità dei particolari); tre sono gli attori principali; tre sono i luoghi chiave in cui si svolge la narrazione e tre sono le tradizioni che ce la raccontano. Quanto alla struttura, se nella prima parte (1,1-10,10) Israele si prepara per la marcia nel deserto, nella seconda (10,11-21,35) il popolo si muove – sotto la guida del Signore – dal Sinai alle steppe di Moab, momento in cui si susseguiranno ribellioni di massa alternate al castigo di Dio e all’intercessione di Mosè, in favore del popolo. Nella terza ed ultima (22,1-36,13) Israele è accampato nella pianura vasta e incolta di Moab, nei pressi del Mar Morto, di fronte alla città di Gerico. Nel ruolo di attore principale ecco JHWH; quindi Mosè, mediatore tra Lui e Israele; infine il popolo stesso. In quello di attori non protagonisti – ma candidati agli Oscar! – si fa largo la coppia Giosuè-Caleb: due dei dodici esploratori (uno per tribù), o spie che dir si voglia, i quali verranno inviati da Mosè ad esplorare la terra di Canaan in 40 giorni. Quest’ultimo numero è molto frequente nella Scrittura, e spesso è legato al deserto: indica per lo più un periodo di tribolazione, di rinuncia, punizione – come gli anni che il popolo dovrà vagare nel deserto o i giorni del Diluvio – o prova, come i giorni trascorsi da Gesù prima dell’inizio del suo ministero pubblico. Tornando alla coppia, il primo (il cui nome significa “cane”) apparteneva alla tribù di Giuda, mentre il secondo (Giosuè traduce dall’ebraico Yeoshua’, “Dio è salvezza”, dalla cui forma abbreviata deriva il nome Gesù) è della tribù di Efraim. Entrambi, e solo loro due – per aver avuto fiducia nel Signore – , entreranno nella Terra promessa, con Giosuè nelle vesti di successore di Mosè. Se le tre tappe chiave sono il Sinai, le oasi di Kades e la pianura di Moab, altrettante sono le ormai celebri tradizioni che ci riportano i fatti avvenuti: quella “sacerdotale” (P), quella “iahvista” (J) e l’“elohista” (E), ognuna delle quali ci mostra un diverso lato di Mosè (per le ultime due più umano e fragile, a differenza di quella “sacerdotale”, che lo descrive come un semplice portavoce dei voleri divini) e del popolo: se per la “sacerdotale” è una comunità votata al culto e governata dalla Parola di Dio, i testi “iahvisti” sono più attenti agli aspetti umani della storia, mentre quelli “elohisti” sottolineano l’unità del popolo, nonché i germi della futura istituzione profetica. Tra i diversi episodi celebri di questo libro, due risaltano in modo speciale: l’asina di Balaam e il serpente di bronzo. Il primo dimostra che il Signore, quando vuole realizzare i suoi piani, si serve del creato, asino compreso, la cui simbologia è molteplice (nel presepe ci entrerà assieme al bue grazie al primo capitolo di Isaia, dato che nella narrazione evangelica i due non compaiono) quanto ambigua: se la sua selvaggia sensualità e testardaggine lo hanno fatto diventare immagine della lussuria (cfr. Ez 23,20) e dell’ignoranza, è su questo animale che Gesù entrerà a Gerusalemme.. Dio si serve insomma anche di lui, tant’è che nel libro dei Numeri è l’asina a vedere l’angelo, non il profeta Balaam! Anche il serpente ha una duplice simbologia.. se da una parte, probabilmente a causa della sua struttura corporea e delle sue movenze, nonché dal fatto che sbuchi da sotto terra (in latino inférnus!), viene solitamente considerato in modo negativo (l’episodio del peccato originale in questo non lo aiuta, anche se vi compare soprattutto per il fatto di essere astuto), dall’altra il Nuovo Testamento considera il serpente innalzato sull’asta come prefigurazione di Cristo crocifisso: «chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita» (Nm 21,8). Serpente di bronzo, stesso materiale di cui è fatto il portale della basilica di san Zeno a Verona, in cui compaiono entrambi gli episodi citati. Ma cos’ha da dire a noi, oggi, il libro dei Numeri? È ancora in grado di parlare alla Chiesa contemporanea? Sembra proprio di sì.. ci ricorda infatti che siamo un popolo in cammino, di peccatori eppure profeti, perché sempre guidati dalla Parola di Dio: è al dabar che siamo chiamati a tornare, non necessariamente al midbar..                                 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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