Il pianto di una prostituta (di F. Dostoevskij)



Testo del brano
Possibile, possibile che tu stessa non provi schifo qui? No, si vede che l'abitudine vuol dir molto! Lo sa il diavolo che cosa può fare dell'uomo l'abitudine. Ma possibile che tu pensi sul serio che tu non invecchierai mai, che sarai eternamente bella e che qui ti terranno per tutta l'eternità? Non parlo poi del fatto che anche qui è un luridume... Ma del resto, ecco che cosa posso dirti di questo, della tua esistenza odierna; ora magari sei giovane, graziosa, bella, con un'anima, un sentimento; ma lo sai che appena mi sono riscosso poco fa, ho subito provato schifo di essere qui con te? Infatti soltanto da ubriachi si può capitare qui. Ma se tu fossi in un altro posto, se tu vivessi come vive la brava gente, allora, forse, non è che ti farei la corte, ma mi innamorerei addirittura di te, sarei lieto di un tuo sguardo, non già di una parola; ti farei da sentinella al portone, mi metterei in ginocchio davanti a te; ti considererei come la mia fidanzata, e lo stimerei ancora un onore. Non oserei pensare nulla di impuro sul tuo conto. Mentre qui so che basta un mio fischio perché tu volere o no mi venga dietro e non sarei più io a seguire la tua volontà, ma tu a seguire la mia. Se l'ultimo dei contadini va a fare il bracciante non asservisce certo tutta la sua persona e poi sa che il suo tempo finisce, ma il tempo tuo dove finisce?

Pensa un po': che cosa abbandoni qui? Che cosa asservisci? L'anima, l'anima, che non è tua, l'asservisci insieme col corpo! Il tuo amore lo abbandoni al ludibrio di ogni ubriacone! L'amore! - ma è tutto, ma è il gioiello, il tesoro di ogni fanciulla, l'amore! Per meritarsi quest'amore, c'è chi è pronto a rischiare l'anima, ad andare alla morte. Ma che valore si dà ora al tuo amore? Tu sei stata tutta comprata, tutta intera, e a che scopo allora conquistarsi il tuo amore, quando anche senza amore tutto è possibile? No, non c'è oltraggio peggiore per una ragazza, lo capisci? Ecco, ho sentito che vi consolano, sciocche che siete, permettendovi di avere degli amanti qui dentro. Ma questo è soltanto un contentino, soltanto un inganno, soltanto una beffa ai vostri danni, e voi ci credete. Forse che lui, l'amante, ti ama davvero? Non ci credo. Come può amare, sapendo che possono chiamarti via da lui da un momento all'altro? Sarebbe proprio un porco! Ti rispetta forse almeno un briciolo? Che hai in comune con lui? Ride di te e ti sfrutta: ecco tutto il suo amore! E sei fortunata se non ti picchia. O forse ti picchia anche. Chiedigli un po', se ne hai uno: ti sposerà? Ma scoppierà a riderti in faccia, se solo non ti sputerà addosso o non ti batterà: e forse lui stesso non vale che due soldi bucati.

E che credi, per cosa hai rovinato qui la tua vita? Perché ti danno da bere caffè e da mangiare a sazietà? Ma per cosa ti danno da mangiare? A un'altra, a una onesta, un boccone simile non andrebbe giù, perché sa per cosa le danno da mangiare. Tu qui sei in debito, e sarai sempre in debito e fino alla fine di tutto sarai in debito, fino a quando gli ospiti cominceranno a disdegnarti. E il momento arriverà presto, non contare sulla giovinezza. Qui il tempo galoppa a spron battuto. E così ti sbatteranno fuori. E non solo ti sbatteranno fuori, ma molto tempo prima cominceranno a recriminare, cominceranno a rimproverarti, cominceranno a insultarti: come se tu non avessi dato la tua salute, non avessi perduto invano la giovinezza e l'anima per la padrona, bensì avessi mandato lei in rovina, l'avessi ridotta in miseria, derubata. E non aspettarti sostegno: anche le altre tue amiche ti assaliranno, per ingraziarsi la padrona, perché qui sono tutte in schiavitù, hanno perso da tempo la coscienza e la pietà. Si sono abbrutite, e ormai sulla terra non c'è nulla di più turpe, vile, offensivo di quegli insulti. E tu avrai lasciato tutto qui, tutto, senza riserve: la salute, la giovinezza, la bellezza e le speranze, e a ventidue anni sembrerai averne trentacinque, e andrà ancor bene se non sarai malata, prega Iddio per questo. Perché tu forse ora pensi che il tuo non sia neppure un lavoro, ma una pacchia!

Ma al mondo non c'è, né c'è mai stato lavoro più pesante e da galera. Parrebbe che il cuore dovesse struggersi tutto in lacrime. E non oserai dire neanche una parola, neanche mezza, quando ti scacceranno da qui, te ne andrai come una colpevole. Passerai in un altro posto, poi in un terzo, poi chissà dove ancora, finché approderai alla Sennaja. E là ormai cominceranno a picchiarti come se niente fosse; è la gentilezza di quei posti; là il cliente non sa neppure accarezzare senza aver prima picchiato. Non ci credi, che là è così orribile? Vacci, guarda una volta o l'altra, forse lo vedrai con i tuoi occhi. Io là ne ho vista una a Capodanno, davanti a un portone. L'avevano sbattuta fuori i suoi, per deriderla, a congelarsi un pochino, perché strillava troppo e avevano chiuso la porta dietro di lei. E alle nove del mattino era già completamente ubriaca, scarmigliata, discinta, massacrata di botte. Era imbellettata, ma con i lividi intorno agli occhi; dal naso e dai denti le colava il sangue: un vetturino laveva appena conciata per le feste. Sedeva su una scaletta di pietra, in mano aveva un pesce salato; piangeva, cantilenava una litania sulla sua malasorte, e batteva il pesce sui gradini della scala. E davanti all'ingresso si erano affollati dei vetturini e dei soldati ubriachi, che la prendevano in giro. Tu non ci credi, che farai la stessa fine?

Anch'io non vorrei crederci, ma chi lo sa, forse dieci, otto anni fa anche lei, quella col pesce salato, era venuta qui da chissà dove fresca come un cherubino, innocente, pura; non conosceva il male, a ogni parola arrossiva. Forse era come te, orgogliosa, suscettibile, diversa dalle altre, guardava come una regina e sapeva bene quale felicità attendeva colui che l'avesse amata e che lei avesse amato. Vedi come è finita? E se in quello stesso momento in cui batteva quel pesce sui gradini sudici, ubriaca e scarmigliata, se in quel momento si fosse ricordata i suoi puri anni passati, quando viveva nella casa del padre e andava ancora a scuola, e il figlio del vicino le faceva la posta per strada, le giurava che l'avrebbe amata per tutta la vita, che le avrebbe affidato il suo destino, e quando insieme avevano stabilito di amarsi per sempre e sposarsi, appena fossero diventati grandi!

No, Liza, sarà una fortuna, una fortuna per te, se morirai al più presto di tubercolosi da qualche parte, in un angolo, in uno scantinato, come quella di stamane. All'ospedale, dici? Va bene, ti ci porteranno; ma se la padrona ha ancora bisogno di te? La tubercolosi è una malattia balorda; non è la malaria. Fino all'ultimo istante uno spera e dice di star bene. Si autoinganna. E la padrona ci guadagna. Sta tranquilla, è così: hai venduto l'anima, e per di più devi dei soldi, dunque non oserai neppure fiatare. E quando sarai moribonda, tutti ti abbandoneranno, tutti si volteranno dall'altra parte, perché ormai che si può ricavare da te? E oltretutto ti rinfacceranno di occupare il posto gratis, di non sbrigarti a morire. Non potrai chiedere da bere, senza che te lo porgano con improperi: E quando crepi, diranno, schifosa; ci impedisci di dormire: gemi, i clienti si disgustano.

È vero; io stesso ho colto parole simili. Ti cacceranno, agonizzante, nell'angolo più puzzolente dello scantinato: buio, umidità; che cosa non penserai allora, giacendo lì da sola? Morirai: ti raccoglieranno alla svelta, con mani estranee, con brontolii, con impazienza; nessuno ti benedirà, nessuno sospirerà per te, penseranno solo a sbarazzarsi di te al più presto. Compreranno una cassa di legno grezzo, ti porteranno fuori, come oggi hanno portato fuori quella poveretta, poi andranno a commemorarti all'osteria. Nella fossa fango, sporcizia, neve fradicia - è forse il caso di far cerimonie per te? Dài, buttala giù, Vanjucha; guarda, la malasorte anche qui è andata a gambe all'aria, da quella che è. Accorcia le corde, demonio. Va bene anche così. Come va bene? Non vedi che è distesa sul fianco? Era pur sempre un essere umano, o no? E va bene, butta la terra. Per causa tua non varrà neppure la pena di insultarsi troppo. Ti ricopriranno alla svelta di argilla livida e bagnata e andranno all'osteria... E così finirà anche la tua memoria sulla terra; sulla tomba degli altri si recano i figli, i padri, i mariti, per te invece né una lacrima, né un sospiro, né una preghiera, e nessuno, nessuno mai nel mondo intero verrà a trovarti; il tuo nome sparirà dalla faccia della terra: proprio come se non fossi mai esistita e mai nata! Fango e acquitrino, per quanto tu bussi contro il coperchio della bara laggiù, di notte, quando i morti si levano: Lasciatemi andare, buona gente, a vivere nel mondo! Ho vissuto, ma la vita non l'ho conosciuta, la mia vita si è consumata come uno straccio; se la sono bevuta in un'osteria della Sennaja; buona gente, lasciatemi vivere ancora una volta al mondo!...». Mi ero così lasciato prendere dal pathos, che cominciavo io stesso a sentire un nodo alla gola, e... a un tratto mi fermai, mi sollevai un po' spaventato e, chinando timorosamente il capo, col cuore che batteva mi misi in ascolto. E c'era di che turbarsi.

Già da un pezzo presentivo che le avevo sconvolto tutta l'anima e spezzato il cuore. E quanto più me ne persuadevo, tanto più desideravo raggiungere lo scopo rapidamente e con la maggior forza possibile. Il gioco, il gioco mi attirava...del resto non solo il gioco...sapevo di parlare in modo stentato, artificioso, perfino libresco, in una parola non sapevo parlare altrimenti che come un libro, ma questo non mi turbava, infatti sapevo, presentivo che sarei stato capito e che quello stesso tono libresco poteva giovare ancora meglio alla faccenda. Ma ora, ottenuto l'effetto, tutt'a un tratto ebbi paura. No, mai, mai ancora ero stato testimone di una tale disperazione: lei giaceva bocconi affondando con forza il viso nel guanciale, tenendolo stretto con tutte e due le mani, il petto le stava scoppiando, tutto il suo giovane corpo sussultava come avesse le convulsioni, i singhiozzi compressi nel petto lo serravano, lo laceravano e tutt'a un tratto erompevano fuori in gemiti e grida. Allora lei aderiva con più forza ancora al guanciale, non voleva che nessuno lì, neppure un'anima sapesse del suo strazio e delle sue lacrime, mordeva il guanciale, si morsicò a sangue la mano, io lo vidi più tardi...

Autore
F. Dostoevskij. Memorie dal sottosuolo

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