Bibbia: Atti degli Apostoli



Introduzione al libro degli Atti degli apostoli
«Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo..». Così inizia il libro degli Atti degli Apostoli, incipit che lo ricollega al Vangelo di Luca, anch’esso indirizzato all’«illustre Teòfilo» (1,3). Ma chi è costui? Per alcuni un personaggio reale (forse il mecenate che fornì all’evangelista i mezzi per scrivere e diffondere l’opera), per altri – come suggerisce la sua etimologia, dal greco “amico di Dio” – sarebbe invece un nome simbolico, rappresentante ogni cristiano (noi compresi!) cui Luca indirizza i suoi scritti. Luca, proprio lui, il collaboratore e «caro medico», come lo chiama Paolo (Col 4,14; Fm 24), persona colta che scrive in un greco raffinato, un discepolo della seconda generazione che non appartiene ai Dodici, di fatto l’unico candidato possibile nella lista dei papabili autori degli Atti degli Apostoli. Su questo titolo occorre fare delle precisazioni: in primis è posteriore alla stesura del libro, ma soprattutto è approssimativo e inesatto. Quel “degli apostoli” lascia infatti intendere che si tratti dei Dodici, ma così non è! Alcuni Padri dei primi secoli lo chiamarono per tale ragione Atti di (alcuni) apostoli, o semplicemente Atti. Questo genere è in ogni caso cresciuto molto, dando luogo ad una serie di Atti degli apostoli apocrifi e Atti dei martiri, tutti modellati su questo nuovo genere letterario, come nuovo fu il genere “vangelo”, inventato di sana pianta da Marco. Tornando al nostro testo, ribadiamo allora che si tratta di un ulteriore «racconto» di Luca, del suo secondo Vangelo, o meglio della seconda parte del suo Vangelo. Scritto non prima dell’80-85 d.C., ne possediamo due versioni: una, la più breve, chiamata convenzionalmente “redazione orientale” (testimoniata dai codici Vaticano, Sinaitico e Alessandrino, di fatto quelli su cui si basano le nostre traduzioni della Bibbia, compresa quella della CEI), l’altra – testo che conserva uno spiccato elemento anti-giudaico – è denominata invece “occidentale”, perché testimoniata dalla tradizione latina. Oggi il libro degli Atti scandisce i cinquanta giorni del periodo più importante dell’anno liturgico, quello pasquale, prassi già attestata prima del IV secolo. Una domanda tuttavia sorge spontanea: si tratta di un testo storico? In altre parole: il contenuto è attendibile? Gli esperti ci dicono che esistono almeno due tipi classici di narrazione storica: la cronistoria e la storia edificante. Atti appartiene tuttavia ad una terza categoria: la storiografia religiosa, un genere che, attingendo da fatti realmente accaduti, vede l’autore rivisitarli, interpretandoli in chiave appunto “religiosa”. La struttura del libro va di pari passo con la sua teologia e, trattandosi di una riflessione sulla Chiesa, gli Atti ci propongono la dinamica della Salvezza: se nel suo Vangelo Luca mostra il percorso che compie il Verbo di Dio, da Nazareth a Gerusalemme, negli Atti il tragitto della Parola (vera protagonista assieme allo Spirito Santo!) riparte dal monte Sion per approdare a Roma. Si tratta di un vero percorso spaziale, che comincia da «quei pochi metri quadrati del cenacolo» – per dirla col biblista Gianfranco Ravasi – fino ad approdare a quei «pochi metri quadrati della casa dove Paolo alloggia sotto sorveglianza a Roma». Detto altrimenti: la Salvezza è inizialmente per il popolo d’Israele, ma poi si espande ai pagani, fino a quei «confini della terra» rappresentati in quel periodo storico dalla “città eterna”. E l’intero percorso, si badi bene, è totalmente caratterizzato dal “testamento di Gesù”: «di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (1,8). Sotto questo punto di vista, potremmo allora dire che gli Atti corrispondono al nuovo genere letterario “vangelo”. Non per questo, però, si sgancia dalla tradizione, anzi, questo libro è una continua rilettura dell’Antico Testamento. Alla luce di quest’ultimo vengono ad esempio descritte l’Ascensione e la Pentecoste. La struttura degli Atti è divisibile grossomodo in due parti: la prima comprende i primi 15 capitoli e ha per protagonista “umano” Pietro, mentre la seconda – il cui personaggio principale è stavolta Paolo – va dal sedicesimo alla fine. Ma cosa fa da spartiacque tra questi due blocchi? L’inizio delle cosiddette “sezioni noi”, un modo tecnico per indicare che, dal versetto 10 del capitolo 16, i racconti passano dalla terza alla prima persona plurale. Fino ad un certo punto Atti si esprime ad esempio in questi termini: «Attraversarono quindi la Frigia..» (16,6), per poi cambiare registro: «Dopo che (Paolo) ebbe avuto questa visione (quella del macedone), subito cercammo di partire per la Macedonia..» (16,10). Cos’è successo? Semplice, “sulla nave” è salito Luca, l’autore, che da qui in avanti narra i fatti nelle vesti di chi li ha vissuti in prima persona, riferendoci il suo “giornale di bordo”. Dicevamo che i protagonisti principali sono la Parola di Dio e lo Spirito Santo, mentre quelli secondari sono Pietro prima e Paolo poi.. curioso che il 12 luglio, soprattutto nelle Chiese d’oriente, si celebrasse almeno fino al XII secolo la festa liturgica della separazione degli apostoli! Il loro “addio” commemorava cioè il momento in cui la Chiesa «usciva dal grembo protetto del cenacolo.. – è sempre Ravasi a riferircelo – per disperdersi in tutto il mondo». Dispersione che li vedrà simbolicamente riuniti nelle due grandi basiliche romane loro dedicate. Oltre alle due “colonne” però, a comparire sulla scena sono tuttavia davvero in tanti, identificati dai ruoli (i Dodici apostoli, i Sette “diaconi”, i profeti, gli anziani, il fervente gruppo delle vedove, ecc..) ma anche e soprattutto dai loro nomi: da Giuseppe Barsabba, il candidato che non è riuscito ad entrare nel novero dei Dodici al posto di Giuda Iscariota, al maestro di Paolo, Gamaliele, fino a Simon Mago, Lucio di Cirene, Dionigi l’Areopagita e via dicendo.. attraverso un elenco interminabile di vicende personali e nomi. A proposito, è ad Antiòchia che i cristiani furono chiamati per la prima volta in questo modo, prima infatti erano “i discepoli”, i nosrìm, (i “nazareni”), “i santi”, “gli eletti”, gli agàpetoi (“gli amati”), “i figli”, “i fedeli”, “quelli della Via”, “i credenti”, “coloro che invocano il nome di Cristo” e via dicendo. Ma della vita dei primi cristiani – capace di ispirare perfino il monachesimo nascente – non serve avere nostalgia o vederla come un ideale utopico da imitare, pur sapendo che, oggi come allora, ci muoviamo tra un istinto conservatore ed uno progressista, tra la volontà di non cambiare nulla e quella di stare al passo coi tempi. Il sociologo tedesco Claus Offe ha in proposito una bella immagine; secondo lui, nel corso della storia, ogni società oscilla tra due grandi simboli: il vapore e il ghiaccio. Il primo rimanda a ciò che, per via dell’ebollizione, sale verso l’alto, dunque è simbolo di evoluzione; il secondo invece significa evidentemente rigidità e freddezza nei confronti del cambiamento. Qual è il compito dei laici oggi? A quale ruolo importante è chiamata la donna? Cosa privilegiare: l’istituzione o il carisma? La strada ci è già stata indicata dal Concilio Vaticano II, una cammino lungo quanto quello percorso da Paolo, l’“inviato” che ha saputo far correre la Parola al punto che potremmo dire, ci si permetta l’azzardo: «il Verbo si è fatto strada!». In fondo ce lo ha detto Lui: «Io sono la via..» (Gv 14,6).                                    

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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