Lettera a Tito: Introduzione



Introduzione alla lettera di san Paolo apostolo a Tito
«Mio compagno e collaboratore» (2Cor 8,23), «mio vero figlio nella medesima fede» (Tt 1,4).. con queste dolcissime espressioni Paolo descrive il destinatario della sua lettera, che forse ha battezzato, o almeno convertito, probabilmente ad Antiochia. Tito, festeggiato dalla Chiesa insieme a Timoteo il 26 gennaio, deriva dal latino Titus, nome di origine incerta: per alcuni significa “colombo selvatico”, per altri “onorevole”, per altri ancora “difensore”. Da non confondere, ovviamente, con l’imperatore romano che nel 70 d.C. rase al suolo Gerusalemme, città nella quale il nostro Tito, una ventina d’anni prima, accompagnò l’Apostolo là dove si decise – in quello che impropriamente viene chiamato “concilio di Gerusalemme” – che per essere discepoli di Gesù non era necessario (prima) diventare ebrei. Lo stesso Tito era pagano, cioè non ebreo, infatti la lettera ai Gàlati ci dice che Paolo stesso si oppose alla sua circoncisione. A Corinto, dove tra l’altro ebbe l’incarico di organizzare la raccolta di fondi da portare a Gerusalemme, la comunità visse un periodo di divisione: i ricchi non condividevano con i poveri. Siccome Paolo si trovava ad Èfeso in occasione del suo terzo viaggio missionario, Tito venne da lui inviato nella città greca per ristabilire la pace: là dove l’Apostolo ha fallito, il diplomatico Tito ha fatto centro, svolgendo il suo ruolo di “ponte”. Non è un caso, allora, che sant’Agostino chiami “pontificie” – poiché descrivono le funzioni dei pastori della Chiesa – quelle che dal 1700 in poi verranno definite “Lettere pastorali”, ovvero le due a Timoteo e quella a Tito. Sebbene siano tutte e tre considerate senza esitazione opera “di Paolo”, infatti il celebre Canone Muratoriano (un documento del II secolo, oggi conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, relativo ai libri ritenuti ispirati dalla Chiesa romana) le considera tali, così come sant’Ireneo e gli altri Padri. Tuttavia un papiro del III secolo, il più antico che conserva gli scritti paolini – convenzionalmente chiamato P46 o Papiro Beatty Chester – non prevede le tre lettere. Come mai? Forse, dicono gli studiosi, la ragione è davvero banale: il papiro non riusciva a contenere tutti gli scritti per via delle sue dimensioni ridotte; prova ne è il fatto che chi lo ha scritto, nelle ultime colonne cerca di rimpicciolire sempre più i caratteri! Un attento studio delle Lettere pastorali ci fa notare che sono formate da appena 848 parole, di cui ben 305 – più di un terzo – sono del tutto inedite rispetto a quelle delle altre lettere “di Paolo”. Non solo, molti concetti cari all’Apostolo (ad esempio quelli di “legge”, “spirito”, “carne”, “giustificazione”, “libertà”, ecc..) non vengono trattati. Gesù stesso viene poi definito in modo del tutto nuovo: «il Salvatore». Ma focalizziamoci sulla lettera a Tito. Scritta probabilmente intorno all’anno 65, è divisibile in tre parti: fatta eccezione per i saluti iniziali (1,1-4) e finali (3,12-15), ad un ritratto della Chiesa di Creta (1,5-2,10) segue una riflessione teologica di taglio battesimale (2,11-3,7), per terminare con le caratteristiche della figura del pastore (3,8-11). Perché si parla della Chiesa cretese? Inviato da Paolo tra il 63 e il 67 nella più grande e popolosa isola greca, Tito ha il compito di completare, dal punto di vista organizzativo, la Chiesa fondata dall’Apostolo, divenendone in tal modo il primo vescovo, incaricato pertanto di organizzarne quella che oggi chiamiamo “ministerialità”, a partire dai presbiteri (in greco “più vecchi”) e dai diaconi (“servi”). Chiesa che visse, come tutte, le sue crisi, nello specifico dovute a due ragioni: la presenza dei giudaizzanti, fatto che la teneva ancorata al passato; e il cosiddetto encratismo (dal greco enkràteia, tradotto con “continenza”, o più correttamente con “dominio di sé”), fenomeno che si riferisce alla capacità di padroneggiare istinti e passioni, al fine di raggiungere una perfezione etica praticamente impossibile. Se la cosa ci pare eccessiva, non dobbiamo dimenticare che il corpo era considerato in ambito religioso, e fino a poco tempo fa, «la tomba dell’anima», ragion per cui, solo per fare un esempio, la sessualità era vissuta dagli stessi cristiani in modo schizofrenico: idolatrata o da fuggire come la peste!? È l’ennesima maschera che assume l’eterno binomio rigorismo-lassismo, il quale convive in ognuno di noi e prende le forme più varie e talvolta comiche, in base al contesto socio-culturale in cui attecchisce. È per questo che Paolo ricorda a Tito che «tutto è puro per chi è puro» (1,15), frase resa celebre dall’ottavo capitolo de I Promessi sposi, che il Manzoni fa pronunciare a fra Cristoforo, il quale la rivolge a fra Fazio, portinaio del convento di Pescarenico, sbigottito per l’arrivo tra gli altri di due donne, Lucia e Agnese. Non a caso l’italiano “bigotto” deriva dal francese bigot, forse derivante a sua volta dall’esclamazione tedesca “bi-Gott!”, “per Dio!”, “in nome di Dio!”. Tornando ai cretesi, è curioso che il verbo greco kretízein, letteralmente “essere di Creta”, abbia assunto il significato di “ingannare”, così come è successo a korinthiàzein, letteralmente “essere di Corinto”, inteso in seguito prima come “lussurioso”, poi addirittura come “prostituta”. La tradizione giudaica ci ricorda però, facendo da contraltare alla celebre frase di san Giovanni della Croce («alla sera della vita saremo giudicati sull’amore»), che «alla fine.. saremo giudicati anche su tutti i piaceri legittimi che non abbiamo goduto»! Stupenda, in tal senso, la definizione del teologo valdese Paolo Ricca, che definisce adulto “colui che ha imparato a godere”. Non però dei piaceri effimeri, ma di quelli che fanno della vita una cosa meravigliosa. Tornando a Tito, è successivamente pregato da Paolo di raggiungerlo a Nicopoli, sulla costa occidentale greca; da lì partirà per la regione croata della Dalmazia, momento e luogo a partire

Recita
Cristian Messina

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