2Tessalonicesi: Introduzione



Introduzione alla seconda lettera ai Tessalonicesi
A pochi mesi dalla prima lettera inviata ai cristiani di Tessalonica, Paolo, o meglio un discepolo della sua cerchia, ne scrive una seconda, richiamando esplicitamente il tema centrale della parusia, dal greco “presenza”, quella del ritorno di Cristo alla fine dei tempi, momento in cui verrà svelata  pienamente la storia della salvezza. Val la pena inoltre soffermarci ancora una volta sulla questione della pseudonimia, al fatto cioè che questa lettera sia unanimemente considerata non “scritta” dalla mano di Paolo. La domanda cruciale che potremmo infatti porci è: ma se non è stato lui a scriverla, è comunque Parola di Dio? La risposta è “sì”, e per diverse ragioni: prima di tutto occorre ricordare che quello della pseudonimia è un fenomeno diffusissimo, non solo nella Bibbia (come ci ricordano ad esempio Isaia e Salomone, solo per citare i casi più noti), ma frutto di una mentalità che da una parte non era certo preoccupata del copyright, dall’altra era un modo per avvalorare uno scritto, attribuendolo ad una figura autorevole; in secondo luogo l’ispirazione divina dei testi si estende a quei discepoli che in qualche modo hanno collaborato con l’autorità – nel nostro caso Paolo – e/o portato avanti la sua “scuola”. Questo breve scritto (composto di appena 3 capitoli, 47 versetti, 823 parole) ha un tono evidentemente apocalittico e per certi versi innovativo, contiene infatti ben tredici termini nuovi, totalmente estranei al resto del Nuovo Testamento. Quanto all’apocalittica, si tratta di quel tipo di letteratura e di teologia fiorita tra il secondo secolo a.C. e il secondo d.C., nell’ambito giudaico prima e in quello cristiano poi, proponendo una visione della storia in perenne lotta tra bene e male, al termine della quale Dio regnerà. Il tema centrale di questa lettera è infatti, e non a caso, la già citata parusia, che sfociava in una domanda concretissima per i fedeli: cosa dobbiamo fare? Se l’Apostolo non escludeva che potesse verificarsi anche a breve scadenza, qualcuno però faceva scelte drastiche, pensando ad esempio che, se la fine era imminente, allora non aveva più senso lavorare. A costoro Paolo si oppose duramente: «chi non vuol lavorare, neppur mangi» (3,10). L’ammonimento, preso forse dall’Apostolo da un detto popolare già in circolazione, è addirittura riportato nel primo statuto dell’Unione Sovietica, elaborato da Lenin senza ovviamente fare alcun riferimento paolino! Il problema rimanda tuttavia ad una questione più ampia, che chiama in causa – come sempre – il tempo: “il futuro è nelle mani di Dio”, sembra dirci Paolo, a noi spetta solo di esser fedeli al presente, senza fuggirlo nei mille modi in cui ci è possibile farlo: o lavorando “a testa bassa” senza pensare al senso della vita (e questa è la modalità tipica della nostra epoca), oppure isolandosi in atteggiamenti falsamente mistici, pensando che quanto ci accade quotidianamente non sia degno d’esser vissuto. Accade invece spesso, per non dire sempre, che il Signore ci attenda proprio lì, dove vuole che viviamo il nostro personale “monastero”. Altra tematica importante che l’epistola affronta è quella dell’Anticristo, letteralmente colui che è “contro-Cristo”. Se il termine si trova solo in Giovanni, la sua portata è tuttavia estesa ad altri passi apocalittici del Nuovo Testamento: il Vangelo di Marco, il libro dell’Apocalisse e, appunto, la Seconda lettera ai Tessalonicesi, nella quale è definito «Figlio della perdizione». Se da una parte c’è il Figlio di Dio, dall’altra ecco il suo opposto, sorta di figura blasfema che tenta di portare gli uomini a sé. Paolo, però, da un lato cita il profeta Daniele – in cui l’Anticristo era concretamente la statua di Zeus, collocata nel tempio di Gerusalemme dai siro-ellenisti, i quali avevano imposto il culto greco al mondo ebraico, dissacrando il Tempio – , dall’altro dice: non cercate il male in una figura misteriosa, perché è già qui, nella storia di tutti i giorni! Male che ognuno di noi può scegliere di far proprio o meno. Ma la Lettera, sapendo bene che la storia è in tensione continua tra bene e male, sa anche che il vero katechon, l’“ostacolo” dell’Anticristo, nonostante sia stato identificato storicamente nella migliore delle ipotesi nella Chiesa, nello Spirito Santo, nella predicazione o in san Michele arcangelo, nella peggiore nell’impero romano o nel regime fascista (!!), l’esegesi moderna è più convinta sia la volontà divina, che governa la storia in favore dell’uomo. «Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera – sottolinea l’autore – ..interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello» (3,14-15). Se queste parole ci rimandano immediatamente al triste vocabolo della scomunica (strumento non del tutto cristiano, almeno per come è stato utilizzato in passato), dall’altra affiora in noi quello della correzione fraterna, tanto cara ai Vangeli, e che ci mostra un “Paolo” padre e pastore.              

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

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