Michea: Introduzione



Introduzione al libro del profeta Michea
«Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mic 6,8).. in questo versetto è ben sintetizzato il messaggio del profeta Michea, l’agricoltore che viene dal piccolo villaggio di Moreset, a sud-ovest di Gerusalemme, oggi identificato con Tell el-Judeideh. Michea, nome che traduce l’abbreviazione di una domanda: “Chi è come il Signore”? ( cfr. 7,18), profetizza con ogni probabilità tra il 750 e il 697 a.C., quindi è contemporaneo del primo Isaia. Non va tuttavia confuso con un altro Michea citato nella Bibbia (1Re 22; 2Cr 18), anch’esso profeta, vissuto nel IX secolo a.C. ma di cui non si conserva alcuno scritto. Rifugiatosi a Gerusalemme perché la sua regione era stata attaccata dagli assiri, si rivolge sia al regno di Giuda sia a quello di Israele. Il libro pervenutoci è strutturato in quattro parti e, alternando sentenze di condanna a promesse di salvezza – secondo uno schema classico dei testi profetici –, presenta una grande varietà di generi letterali: avvertimenti, rimproveri, processi di alleanza, oracoli di giudizio, brani liturgici e, come detto, promesse di salvezza. Non solo, Michea utilizza tantissimo, in modo quasi sistematico, giochi di parole che, come spesso accade, sfuggono alla traduzione in lingua italiana. Al titolo (1,1) segue una prima sezione caratterizzata dalla denuncia per le colpe del popolo e dei suoi capi, unitamente alla minaccia di un duro castigo (1,2-3,12). La seconda è composta invece da promesse escatologiche e messianiche (4,1-5,14), mentre nella terza ricompaiono le minacce del castigo per le colpe commesse (6,1-7,7). L’ultima parte prevede infine oracoli di restaurazione e, soprattutto, la promessa del perdono (7,8-20). Nella sua denuncia Michea appare però un uomo solo: sia davanti al popolo del quale condivide la sofferenza, sia al cospetto di chi quel popolo dovrebbe guidare (sacerdoti, giudici e principi), sia di fronte a quei profeti che, diversamente da lui, predicano felicità e tranquillità (2,6-11). Ma qual è il nucleo del suo messaggio? Cos’ha da dire Michea a noi oggi? La risposta si muove su due binari: da una parte il profeta sottolinea l’incompatibilità di una religiosità autentica con l’ingiustizia: “inutile andare a Messa tutti i giorni – sembra dirci – se uscito dalla chiesa non ami quanto hai celebrato!”; dall’altra ci conferma che il Signore è continuamente all’opera per salvare chi si affida a Lui, quei fedeli simboleggiati nel sear-jasub, quel “resto d’Israele” composto dalla minoranza che, diversamente dalla massa, rifiuta l’idolatria e attende la salvezza del Messia (Mic 4,6ss), che il Nuoto Testamento ci dirà essere Gesù di Nazareth e il suo vangelo. Non a caso è proprio Michea che gli scribi citeranno, quando Erode li interrogherà a proposito dei magi che stanno per giungere a Betlemme (Mt 2,6).      

 

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Gabriele Fabbri

Meditazione
Il tempo che Michèa vive è un tempo di decadenza. Israele è diviso: al nord si seguono pratiche pagane, mentre il regno di Giuda è amministrato da gente corrotta e idolatra che non conosce più il proprio popolo e ha dimenticato il suo Dio. Persone senza scrupoli che, essendo al potere, si permettono di tutto: ogni sorta di ingiustizie e soprusi. Ci ricorda qualcosa questa situazione? Certo! Ci ricorda che il cuore dell’uomo è tentato sempre dalle stesse cose, nello stesso modo, oggi come ieri. Il potere genera in noi l’illusione di essere Dio, di poterci sostituire a lui, e tutto perde di senso, di dignità. E così mi immagino Michèa che, forte del mandato del suo Dio, se ne va per le strade del suo paese a mettere in guardia gli oppressori, a ricordare loro che un Dio c’è ancora e che la sua ira sarà grande. Michèa è colui che si prende la briga di camminare in senso contrario alle ingiustizie, per guardarle in faccia e fare aprire gli occhi che non vedono più il senso dell’agire. Egli porta un messaggio chiaro da Dio: “Sto per stancarmi di questa condotta, sto meditando di agire contro di voi. Avete tra le mani un dono prezioso, il regno di Israele, il mio popolo, ma non ne siete degni. Ve lo toglierò e lo darò in mano ad altri che se ne prenderanno cura”. Forse non c’è bisogno di andare troppo lontano da noi stessi per vivere la realtà di Michèa. Ogni volta che mi viene affidato qualcosa di bello e non lo faccio fruttare sono un po’ così, come i governanti di Israele, rischio che quel dono, quell’opportunità, mi sfugga di mano facendomi perdere un’occasione per costruire il Regno di Dio. Per fortuna Dio non agisce mai senza prima permetterci di ravvederci: per questo ha mandato Michèa, per questo ha mandato Gesù.

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