«Inizierei partendo con una nota personale, sostanzialmente come già Marco ha accennato nella sua introduzione, ho sempre provato un particolare disagio davanti al libro del Qoèlet. Un disagio dovuto alla consapevolezza che aggiungere parole a un testo così drammaticamente lucido, così spietato, che va a illuminare tutti quegli angoli di realtà che cerchiamo di rimuovere, dimenticare, mettere a tacere, sembra davvero una cosa inadeguata, difficile e impropria, probabilmente.
E su questo c’è un monito che cercherò di seguire: viene da Gustavo Zagrebelsky che ha scritto un libro su Qoèlet, col sottotitolo “la domanda”, che secondo me racchiude in maniera significativa l’itinerario di questo breve testo biblico. Zagrebelsky dice: “C’è il testo e poi ci sono le letture del testo. Ed è bene che tra il testo e le letture rimanga una discrepanza. La lettura del testo, l’interpretazione che ne possiamo fare, non è il testo.” Qoèlet quasi ci impedisce di estrarre dalla sua scrittura un condensato che potremmo arrivare a definire “così dice il Qoèlet”. C’è sempre questa improprietà della lettura, e quindi la mia è una lettura consapevole di questa impossibilità di snocciolare il nucleo incandescente di quello che Qoèlet dice e di quello che sentiamo che ci dice. È una lettura fra molte, che vorrebbe semplicemente lanciare qualche stimolo per la vostra lettura.
Da qui il primo dato che ho trovato sorprendente: quando sono stato costretto a confrontarmi con questo testo (perché Marco mi aveva invitato!) ho visto che di letture del Qoèlet ce ne sono tantissime, di tutti i generi. È un testo che ha impegnato e impegna l’esegesi, l’ermeneutica biblica, la teologia (non più di tanto forse), ma anche la letteratura, la filologia, la traduzione, il diritto, la filosofia, la poesia, il teatro, le arti performative. È un testo migrato verso un ventaglio enorme di letture e rappresentazioni. Si trovano tracce germinali e marcate nei grandi filoni della cultura occidentale, per assonanze, citazioni dirette, richiami – da Shakespeare a Leopardi, da Dostoevskij ad altri. Una volta che lo si prende in mano, Qoèlet esplode.
Come teologo e credente, la prima osservazione è questa: Qoèlet è un testo che ha trovato più o meno avventurosamente il suo spazio nel canone biblico ebraico ed è stato poi assunto nel canone cristiano, ma sembra essere un testo senza proprietario esclusivo. Tanto del testo biblico è migrato fuori dal testo per riempire arte, teatro, letteratura, filosofia, pensiero. Su queste migrazioni lavora la teologia fondamentale, cercando di catturare il “di più” che le migrazioni bibliche fuori dalla dimensione ecclesiastica ottengono. Il testo, migrando fuori dalla casa che ne custodisce la canonicità, si incrementa e questi incrementi sono davvero interessanti.
La scabrosità del testo (come diceva Marco) rende difficile maneggiarlo: se qualcuno ce lo toglie dalle mani, meglio. Ma probabilmente in questo destino singolare c’è un seme germinale che vale per tutto il canone biblico, una fecondità che esplode nelle letture fatte fuori dalle mura. Qui la domanda: è opportuno riportare questi incrementi dentro il recinto ecclesiale, o meglio lasciarli liberi nelle migrazioni incontrollate? Per Qoèlet, è un testo biblico che migra e si muove oltre le mura, senza essere più di tanto riconvocato dal pensiero cristiano.
È un testo scabroso con una bellezza: quella di essere ancora un testo che vaga e aleggia nel sentire, nel patire, nel vivere della contemporaneità occidentale, facendo sempre sbocciare nuove riflessioni, nuovi approcci, nuovi orizzonti. Bisogna concedere a Qoèlet tutte queste letture, non regimentarle, lasciarle liberamente fluttuare nei ruscelli della nostra umanità.
Rispetto alla richiesta che forse sta dietro a questo invito – una teologia del Qoèlet – mi trovo in difficoltà, perché vorrebbe dire racchiudere nell’obbligo della riflessione critica della fede questa ariosità delle divagazioni che il testo ha generato nella cultura. I teologi possono tutto, distillare anche una teologia del Qoèlet, ma ci si può chiedere se è lecito: Qoèlet parla di Dio come di tutto il resto, per aforismi, battute, sentenze. Non c’è una sistematica dietro il suo pensiero, mentre nella teologia c’è una sistematica obbligata. Quindi, il Qoèlet è resistente alla lettura teologica, invalida la teologia tradizionale, la dichiara pretenziosa. La teologia di Qoèlet è “teologia per aforismi” – questo tratto refrattario è centrale nel suo discorso sul divino.
Quale teologia si avvicina di più a questo tratto aforistico di Qoèlet? Probabilmente Kierkegaard, anche lì resistenza a qualsiasi sistematica. In questo modo Qoèlet agisce come coscienza critica del sapere teologico. Sicuramente direbbe che la pretesa di arrivare a una sistematica della realtà di Dio, della sua rivelazione, è “fumo di fumi”. Velio, vanità di vanità – la versione che più abbiamo nell’orecchio è la più sbagliata secondo Ceronetti. Il teologo rischia di essere messo fuori gioco dal testo.
Ma questo dice qualcosa alla teologia, dice qualcosa al suo modo di lavorare. Qui aggancio il secondo punto: grazie alle ricostruzioni storiche possiamo datare, collocare il Qoèlet nella cartografia del credere di Israele, nel suo rapporto col Dio della liberazione, il Dio della Terra promessa. Qoèlet è un testo che, entrato nel canone biblico, dichiara la crisi del paradigma teologico contemporaneo. La crisi di quella sapienza comune che in Salomone e Davide trova il modello di una sapienza fondata sul sistema della retribuzione: il bene retribuito con fecondità, il male con punizione e miseria. Questo schema, di fronte alla realtà, non funziona più; Qoèlet ne dichiara la totale invalidità, come dichiara l’invalidità dell’orizzonte profetico tracciato dai profeti dell’esilio.
Qoèlet radicalmente critica il sistema sapienziale e profetico. Non cita la legge, dichiara invalido tutto il canone biblico che precede. Un gesto di fedeltà alla realtà delle cose, di fedeltà all’umano. È un uomo che sa portare il peso della ricerca senza trovare, di una ricerca incessante, ma anche di una grande fedeltà alla terra e all’umano.
Questa radicalità della critica di Qoèlet, fatta in termini laici e secolari, ma profondamente radicata nel sentire ebraico, mostra il grande nulla dietro la tradizione sacra. Un abisso; pone domande senza offrire subito una nuova sintesi. Questo tratto lo sento familiare per il lavoro teologico: avessimo oggi un Qoèlet che ci smaschera tutti e ci dice che la grande sintesi per cui abbiamo lottato è una grande gabbia di fumo.
Qoèlet è radicale per la teologia oggi; anche il paradigma uscito dal Vaticano II è come “bruma del mattino”: davanti alla realtà, non funziona più. La critica di Qoèlet va accolta: bisogna rinunciare a vivere nel mondo virtuale che ci rende immune dall’invalidità della struttura che ci sostiene come credenti. Qui il rischio dell’assuefazione religiosa a Dio: Dio diventa cosa scontata, lo maneggiamo, lavoriamo, diciamo di conoscerlo bene. Qoèlet ci dice: questa è follia, è fumo di fumi.
Qoèlet mette Dio in una dimensione irraggiungibile, indisponibile, per farci uscire dall’inebriamento di pensare di poter governare Dio. Il fare di Dio non si conosce, è sottratto. Qoèlet con poche battute chiude la partita della conoscenza di Dio, dell’addomesticamento di Dio da parte della religione assuefatta. E questo è il grande rischio per i credenti.
Il Dio di Qoèlet è “Dio di agguato”, sorprende dove non ci si aspetta. E questa è salute: antidoto all’assuefazione religiosa. Dio imprevedibile; la teologia di Qoèlet è rinuncia a fare un sistema, capacità di stare sulla soglia dell’agguato di Dio, senza ridurlo a uno schema o a un perimetro.
Dopo il Vaticano II, davanti alla realtà, non è più possibile la sintesi teologica: i grandi teologi del Novecento han fatto le ultime sintesi, oggi non restano che frammenti. La teologia odierna non riesce ad abitare il sospeso, solo la parte “destruens”, un po’ di sana decostruzione, ma si cerca sempre di infilare una ricostruzione. Così si tradisce il contemporaneo, infilando qualcosa che non dice nulla alla realtà attuale.
Qoèlet costringe a dichiarare l’invalidità del sistema che ci ha generato nella fede; ci vogliono animi grandi per vivere la sospensione. Attendiamo colui che sa prendere la parola e ci mette davanti alla realtà dei fatti.
Qoèlet mette radicalmente a nudo l’ambivalenza del vivere umano: ambivalenza nel rapporto con Dio e tra Dio e noi. Non ci sono idee chiare e distinte, anche nel rapporto tra Dio e l’uomo, tutto è molto ambivalente. L’ambivalenza è la struttura dell’esistenza, anche di Dio, per quello che possiamo vedere – non conoscere – vedere. Per Qoèlet, coabitano contraddizioni che sarebbero inaccettabili altrove: il canone biblico è capace di ospitare contraddizioni insopportabili, mentre noi cerchiamo di minimizzarle.
La fede non è superamento dell’ambivalenza, ma capacità di attraversarla: il bene non è mai puro, la giustizia non è mai slegata dalla violenza e dal sopruso. La fede è fatta anche di ambivalenze e contaminazioni, e Qoèlet ci sbatte davanti questa coscienza, non per giustificare il male ma per renderci consapevoli della fragilità e dell’ombrosità del bene che facciamo.
Il Dio di Qoèlet non è il Dio del patto, dell’alleanza, della liberazione (Yahweh), ma il generico Elohim. Ma se ascoltiamo la sua parola – parola di Dio – è un Dio liberante, che chiede di sfuggire al sogno religioso del gesto puro. La contaminazione è profondamente vera e reale; la religione pura fa vittime, abbatte grattacieli, uccide il cuore di chi le si avvicina.
Qoèlet ci sbatte in faccia la nostra finitudine. La drammaticità e l’assenza di retribuzione = assenza di ingerenza di Dio nelle vicende umane è la faccia nascosta della fraternità possibile. L’ingiustizia che il saggio e l’empio finiscono allo stesso modo equivale alla rinuncia di Dio al sistema retributivo, e questo apre la possibilità della fraternità umana.
Pensare a partire da questa comune finitudine – radicale e apparentemente ingiusta – permetterebbe di ridurre le ingiustizie. Vivere senza questa evidenza diventa delirio: è il germe di una fraternità tutta da costruire e immaginare.»
Se vuoi una versione ridotta, una sintesi o i punti chiave, chiedimelo!
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Marcello Neri (in audio conferenza)
L’intervento di Marcello Neri alla Settimana Biblica di Rimini, intitolato “L’arte di vivere secondo Qohelet”, rappresenta una delle tappe chiave del percorso dedicato a riscoprire l’attualità e la profondità esistenziale del libro del Qohelet.
Neri, teologo e professore universitario, ha affrontato il testo non solo come opera di sapienza antica, ma come proposta di vita capace di parlare alla concretezza e alle contraddizioni dell’uomo di oggi. La sua analisi ha messo in luce due grandi tradizioni interpretative di Qohelet: da un lato, quella che vede l’autore come pessimista e disincantato, maestro del sospetto; dall’altro, quella che lo interpreta invece come sapiente realista, capace di invitare a godere appieno dei rari momenti di serenità e piacere che la vita offre.
Punti cardine dell’intervento:
Qohelet è presentato come figura in crisi rispetto alla sapienza tradizionale di Israele: le sue pagine propongono domande radicali che rimangono sospese e aperte anche nell’esperienza credente contemporanea.
Secondo Neri, dai dubbi e dal disincanto di Qohelet nasce un’etica dell’esistenza che rifiuta sia la disperazione sia le illusioni, promuovendo invece una responsabilità quotidiana e una continua ricerca di senso.
L’arte di vivere suggerita da Qohelet non passa dall’onnipotenza o dal controllo, ma piuttosto dall’accettazione del limite, della fragilità e della solidarietà umana, elementi che diventano opportunità per una autentica maturità spirituale.
L’intervento si propone dunque di rileggere Qohelet come uno stimolo alla maturità, alla vigilanza e alla capacità di lasciarsi sorprendere dalla vita anche quando questa sembra deludere attese e illusioni. Lo scopo è apprendere “l’arte di vivere senza disperazione e senza illusioni, colmando ogni istante di senso” grazie alla profondità del messaggio biblico.youtubenewsrimini+1